Le Pagine di Storia

Alexis de Tocqueville

Fu l'interprete di un liberalismo consapevole della crescente importanza storica dell'ideale di uguaglianza e della necessità di istituzioni atte a conciliarlo con le libertà individuali

1805, Verneuil - 1859 Cannes

Il 29 luglio del 1805 nasceva da una famiglia aristocratica il fondatore della scienza politica moderna.

Tocqueville, teorico della libertà

L'intellettuale francese con il suo libro sull’America capì che la democrazia era il futuro dell'Occidente.

di Dino Cofrancesco

Il 29 luglio di duecento anni fa, a Verneuil, nei pressi di Parigi, nasceva Alexis de Tocqueville [Charles Alexis Henri Maurice Clérel de Tocqueville], il più grande scrittore politico dell'800, nel giudizio di Raymond Aron. La famiglia apparteneva alla antica aristocrazia normanna: un antenato aveva partecipato alla conquista dell’Inghilterra al seguito di Guglielmo Plantageneto. Durante la Rivoluzione, i Tocqueville erano stati perseguitati e il padre, Hervé, ebbe salva la vita solo per la caduta di Robespierre. La monarchia restaurata avrà modo di compensare il nobile casato per la sua incrollabile fedeltà e ne verrà ricambiata col rifiuto di prestare giuramento all'usurpatore Luigi Filippo salito al trono grazie all'insurrezione del luglio 1830.

Affetti, tradizioni, legami parentali, orgoglio di stirpe: tutto portava Alexis a seguire genitori e fratelli nell'esilio interno in odio al regime orléanista e, tuttavia, la ragione e un forte senso della realtà, in lui precocissimi, non gli facevano nutrire illusioni sul destino del suo mondo. I tempi erano mutati e si annunciavano cambiamenti irreversibili in direzione di un modello sociale sempre più borghese ed egualitario.

Per sottrarsi a un penoso conflitto interiore, assieme all'amico Gustavo de Beaumont, Alexis chiese e ottenne di recarsi in missione negli Stati Uniti per studiarvi il sistema penitenziario. A interessare i due amici, però, era soprattutto la democrazia politica all'opera nella giovane Federazione: un esperimento di governo inedito in Europa e, pertanto, oggetto di paure o di speranze eccessive e di dibattiti culturali e politici molto accesi. Il risultato della riflessione tocquevilliana fu la Democrazia in America, due volumi editi, rispettivamente, nel 1835 e nel 1840: un'opera imponente di facile ma ingannevole lettura in cui confluivano lo studio attento dei giuristi e dei pensatori politici americani, le "osservazioni sul campo", le interviste con le più svariate categorie professionali della civil society americana, nonché un background culturale "classico" nutrito di letture di storici e filosofi antichi e moderni, da Platone a Livio, da Machiavelli a Rousseau.

Il collage è affascinante ma a fare di Tocqueville il primo, vero, scienziato politico moderno è, innanzitutto, un approccio comparatistico sostenuto da poche, essenziali, architravi concettuali.

Per lui, il fatto nuovo, rivoluzionario, dell'età moderna è la marcia tendenziale e inarrestabile verso l'eguaglianza delle condizioni di partenza ovvero verso un tipo di assetto sociale sempre meno disposto a riconoscere privilegi di ceto, diritti particolari attribuiti per nascita, influenze e poteri sociali istituzionalizzati e trasmessi da padre in figlio. Tocqueville chiama la società di individui-atomi sociali, che ne sarebbe derivata, democrazia , dando così a un termine politico una decisa valenza sociologica. Se la democrazia è ormai il «destino comune dell'Occidente» il problema diventa quello di definirne le diverse forme, di seguirne i differenti percorsi storici, di prefigurarne i possibili esiti. Ed e qui che la comparazione assume un'importanza cruciale. Non si comprende la democrazia se non la si confronta con l’aristocrazia, comparazione tra due generi opposti; non si comprende la democrazia americana se non la si confronta con la democrazia europea. Comparazione di due specie dello stesso genere; non si comprende la filosofia dell'eguaglianza che permea la mentalità americana se non la si confronta con l'aspirazione all'eguaglianza che nutre l'immaginario politico europeo; non si comprende il principio della sovranità popolare come viene realizzato in America se non lo si confronta con lo stesso principio operante nelle costituzioni e nelle ideologie europee.

A mio avviso, il fascino imperituro della pagina tocquevilliana non sta solo nell'esaltazione delle associazioni, riguardate come gli unici, possibili, contro-poteri dell'età moderna in grado di garantire le libertà civili e politiche dinanzi a uno stato razionale e burocratico in Europa continuamente proteso a estendere il suo controllo sulla società civile; né nel legame teorizzato tra partecipazione politica e crescita morale e spirituale di un popolo; né sull'enfasi posta sulle autonomie locali riguardate, in America, come la scuola elementare della "libertà dei moderni". La grandezza solitaria, e quasi postmoderna, di Tocqueville sta nell'assoluta estraneità sia alla filosofia illuministica del progresso sia alla filosofia reazionaria della decadenza. Il mutamento sociale viene ricondotto a fattori materiali e culturali che ne spiegano le ragioni ma il nuovo non è migliore né peggiore del vecchio. A differenza dei socialisti e dei liberali, dei conservatori e dei democratici, Tocqueville guarda ai grandi drammi storici che si rappresentano sul palcoscenico della storia non da attore ma da spettatore, realista e disincantato. E' un aristocratico ma non si nasconde che «nulla è più contrario alla natura e agli istinti segreti del cuore umano» che l'asservimento a un corpo aristocratico. E' un democratico "di testa" ma non ignora il conformismo delle masse democratiche, il pericolo sempre in agguato della tirannia della maggioranza, la riduzione dei valori alti alle misure piccolo-borghesi, la fine delle grandi passioni e dei conflitti ideali.

In un certo senso, tutta l'opera di Tocqueville è un ribaltamento di luoghi comuni: ai conservatori liberali dimostra che al naturale la democrazia non scatena tempeste sulla tranquilla routine borghese ma rischia di spegnere ogni impulso generoso del cuore sull'altare del familismo; ai nostalgici del trono e dell'altare spiega che le caste non rientrano in alcun piano provvidenziale e che il cristianesimo, con la sua idea del Padre comune a tutti gli uomini, trova nella democrazia la forma di governo più congeniale; ai radicali ricorda che la rivoluzione giacobina è stata la versione aggiornata del dispotismo delle monarchie assolute e che lo stesso socialismo discende da una concezione dirigistica dei compiti dello Stato che al benessere organizzato dall'alto sacrifica i beni più preziosi concessi all'umanità: l'autonomia del pensare, l'autodeterminazione dell'agire.

«Soltanto la libertà - dirà nel discorso di entrata all'Accademia Francese - è in grado di suggerirci quelle potenti emozioni comuni che portano e sostengono le anime al di sopra di se stesse; essa sola può portare la varietà in mezzo all'uniformità delle nostre condizioni e della monotonia dei nostri costumi; soltanto essa può distrarre i nostri spiriti dai piccoli pensieri ed elevare l'oggetto dei nostri desideri».


Articolo tratto da: Dino Cofranceso, Il Secolo XIX, 29 luglio 2005.

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