Le Pagine di Storia

Il Regno siculo-partenopeo tra il 1821 ed il 1848

Parte 2ª

Penultimo atto: il ‘48

di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso

 

 

 

link alla Parte I

La rivoluzione europea parte dalla Sicilia

Come già scritto, per chi ha letto il precedente capitolo, la mattina del 9 gennaio 1848 viene diffuso per le strade di Palermo un provocatorio manifesto che invita i cittadini alla rivolta. Ne fissa anche la data: il 12 gennaio, compleanno di re Ferdinando II. Ovviamente la polizia nella notte procede all’arresto di una serie di noti liberali tra cui Emerico Amari, famoso penalista e fratello di Michele Amari, e il letterato Francesco Paolo Perez, ma invano: non erano i vecchi liberali i promotori della rivolta. Infatti, il giorno 10 compaiono altri manifesti che fissano anche l’ora della rivoluzione: si invitano i cittadini a scendere armati all’alba per le strade e attendere i capi che daranno loro le direttive. La mattina del 12 un gruppetto di cittadini armati alla meno peggio si riunisce in piazza della Fieravecchia, oggi nota come piazza Rivoluzione, dove li aspettava il giovane avvocato Paolo Paternostro e il giovane Giuseppe La Masa tornato dall’esilio fiorentino qualche giorno prima, che cominciarono ad incitare la piccola folla [1]. Il La Masa improvvisa o quasi, un proclama a nome di un fantomatico comitato provvisorio; vengono distribuite armi, bandiere tricolori e coccarde e mano mano che altra gente affluisce, cominciano a suonare a stormo le campane e iniziano le prime scaramucce con le truppe regie che erano accorse e che, fortunosamente, sono messe in fuga da un gruppo di rivoltosi particolarmente agguerrito, guidato dal La Masa.

Medaglia del 1848 in bronzo per l’assedio della cittadella di Messina. Clicca sull'immagine per ingrandire. Visita la pagina delle medaglie storiche siciliane.

Scrive lord Dickinson, vice console britannico, nel suo diario “All’alba quando il primo colpo di cannone annuncia, il compleanno di Sua Maestà Ferdinando II, gruppi di gente armata, in maniera disordinata, con ogni specie di armi mortali si radunano nelle piazze principali, a cui si uniscono gente armate dei sobborghi. Seguono dimostrazioni al grido di viva Pio IX . La polizia non reagisce ma a mattino inoltrato la Cavalleria attacca la folla. Un ufficiale è ferito, 10-11 uomini uccisi e il resto si ritira nei quartieri ….” [2]

La inattesa vittoria dei rivoltosi in questo primo scontro diede coraggio e fece divampare la rivolta. Da ogni parte liberali, giovani e vecchi, aderirono al Comitato provvisorio inventato da La Masa e seduta stante cominciarono ad organizzarsi azioni di guerriglia volte contro le sedi dei commissariati e delle gendarmerie. Con straordinaria rapidità la rivolta si espanse a macchia d’olio: dalle province e dalle campagne arrivarono non solo aristocratici, intellettuali, borghesi e possidenti, ma anche masse di agricoltori che si unirono ai popolani. A questi si aggiunsero, come sempre avviene in questi casi, gli evasi dalle carceri e la teppaglia urbana e rurale. Gli scontri durarono una decina di giorni durante i quali i rivoltosi si impadronirono della maggior parte della città e, nel frattempo, venne formato un Comitato Generale che sostituì quello provvisorio.

A presiedere il Comitato Generale venne designato Ruggero Settimo dei principi di Fitalia, un anziano liberale, già brigadiere della marina borbonica e ministro nel governo nel 1812. Da Napoli intanto era arrivata la flotta e un rinforzo di 5000 soldati. Ma ci fu poco da fare. Le truppe assediate a palazzo reale, al comando del maresciallo Vial non riuscirono ad essere rifornite dai contingenti arrivati dal continente e la notte del 26 gennaio abbandonarono le posizioni e, facendo terra bruciata al loro passaggio, raggiunsero il mare e si imbarcarono per Napoli. Restava ai regi il solo Castello a Mare. Alla notizia dei fatti di Palermo insorsero anche Messina, Catania e via via tutte le altre città dell’isola. Insomma in meno di un mese la Sicilia fu in mano del governo provvisorio tranne la cittadella di Messina.

Intanto Ferdinando, preoccupato per le agitazioni dei liberali napoletani e temendo una insurrezione anche nella capitale, promise la Costituzione, ne fissò i principi e li trasmise anche a Palermo. Ma, come vedremo, il Comitato rivoluzionario respinse l’offerta, non rispondente alle istanze d'indipendenza dell’isola, e istituì un Comitato di Governo presieduto sempre da Ruggero Settimo e con Mariano Stabile come segretario generale.

Ruggero Settimo. Palermo, Museo del Risorgimento.

La rapidità del successo dei rivoltosi è incredibile ma non ingiustificata. Non dimentichiamo che l’intera Europa, tranne la Gran Bretagna, la Svezia e la Russia, per motivi diversi, è percorsa in questo periodo da un anelito rivoluzionario e la Sicilia è stata proprio la miccia che ha fatto esplodere in sequenza, da sud verso nord, valicando le Alpi, l’intera polveriera. E ovunque gli insorti hanno la meglio: il 10 febbraio insorge Napoli, il 15 Firenze, il 27 Parigi. Il 5 marzo insorge Torino, Roma il 14, Vienna e Budapest il 15. Berlino il 19 Venezia il 22 ed infine buon ultima Milano, il 23.

Ma così come velocemente si erano imposte le rivolte, altrettanto rapidamente vennero soffocate. A Napoli il 15 maggio le truppe regie hanno ragione dei rivoltosi e il Parlamento che avrebbe dovuto convocarsi in quella data viene sciolto. Anche Parigi cede, l’insurrezione operaia viene domata a Giugno e Luigi Bonaparte viene eletto presidente della repubblica. Anche a Vienna l’insorgenza viene soffocata.

In Italia la sola rivoluzione che riesce a sopravvivere è quella piemontese: lo Statuto giurato da Carlo Alberto viene rispettato! E’ questo, noi crediamo, il carico da undici che il Piemonte, coscientemente o no, ha calato per le sue prossime fortune!

Ma torniamo a noi, in Sicilia. Tra il febbraio e il marzo del 1848, gli ambasciatori inglesi a Napoli, Napier e soprattutto Minto lavorano per convincere Re Ferdinando a riadattare la costituzione del 1812.

Appunta Dickinson nel suo diario che “Lord Minto afferma di aver carte blanche, purché non venga toccata l’integrità della corona” [3]. L’Inghilterra aveva capito che la situazione nel regno meridionale era assai precaria, ma il Re e i suoi ministri insistevano a voler rispettare il trattato del 1815 che come ben sappiamo, con quello che si può chiamare un colpo di stato, aveva cancellato l’antico regno di Sicilia. Lord Minto fu sorpreso dalla presa di posizione di Re Ferdinando ma sperò fino all’ultimo che il Re avrebbe riconosciuto le esigenze dei siciliani. Ma così non fu e il 10 febbraio fu firmata la Costituzione Napoletana che non teneva conto delle esigenze siciliane. Minto chiese spiegazioni ma gli fu risposto che si era trattato di “una dimenticanza”. Minto diede fiducia al re e scrisse al console inglese a Palermo, Goodwin, una lettera in cui comunicava che la costituzione firmata da Ferdinando doveva ritenersi applicabile solo a Napoli e che quanto prima sarebbe arrivato a Palermo con spiegazioni [4]. Ma prima ancora che lord Minto sbarcasse a Palermo il Comitato rivoluzionario rifiutò le offerte “napoletane” di Ferdinando e propose le proprie condizioni [5]:

Le riassumiamo:

Che il Re avesse ripreso l’antico titolo di re delle Due Sicilie (e non del Regno delle Due Sicilie)

Che il suo rappresentante in Sicilia si fosse chiamato Vicerè e che fosse un membro della famiglia reale o un siciliano

Che l’atto di convocazione del Parlamento, facesse parte della costituzione

Che gli impieghi civili, militari ed ecclesiastici fossero appannaggio dei siciliani

Che si consegnasse alla Sicilia la quarta parte della flotta, delle armi e del materiale di guerra o l’equivalente in denaro

Che fossero restituiti i battelli doganali e postali acquistati per conto della Sicilia

Che gli affari d’interesse comune fossero trattati e determinati dai due parlamenti

Che in una lega politica o commerciale degli Stati italiani vi dovesse essere rappresentata la Sicilia come Stato indipendente

Che la Sicilia potesse coniare moneta [6]

Al ripristino della situazione anteriore al Congresso di Vienna, cioè la separazione della Sicilia da Napoli era contraria la Francia che temeva una supremazia degli inglesi nel mediterraneo. Chi un po’ di storia conosce, sa che questa rivalità franco-inglese verrà superata solo nel momento in cui si vorrà impedire un aumento dell’influenza della Russia o dell’Austria nel Mediterraneo e che condizionerà sempre le alleanze e le disalleanze.

Medaglia del 1848 in bronzo coniata a Palermo per omaggio a Ruggiero Settimo. Clicca sull'immagine per ingrandire. Visita la pagina delle medaglie storiche siciliane.

Il governo napoletano approfittando di questa rivalità rifiutò le proposte siciliane fino ad arrivare alla nota, firmata da Ferdinando il 22 di marzo 1848, in cui veniva dichiarato nullo tutto ciò che in Sicilia era stato fatto fino ad allora. Non solo, ma fece notare che così facendo i siciliani andavano contro lo spirito risorgimentale e di fratellanza che in quel periodo attraversava la patria comune. Fece recapitare, con una corsa speciale del vapore “Flavio Gioia” [7], a lord Minto che si trovava ancora a Palermo la sua nota entro il 24 marzo, la vigilia dell’apertura del Parlamento siciliano, convocato con “suo” regio decreto il 6 marzo. Minto, pur non condividendo la nota, trasmise a Ruggero Settimo la decisione del Re. A questo punto Settimo si rese conto di essere considerato solo un ribelle e non più un luogotenente del re e che veniva messo a conoscenza di decisioni prese sulla propria pelle e sulla pelle dei siciliani indirettamente. Non vogliamo giustificare ma capiamo i siciliani, che avevano battuto sul campo le truppe regie, in seguito all’appassionato discorso d’apertura dei lavori del Parlamento dichiararono:

Ferdinando Borbone e la sua dinastia decaduti dal trono di Sicilia

La Sicilia si reggerà a governo costituzionale e chiamerà al trono un principe italiano dopo che avrà formato il suo statuto.[8]

Il richiamo al “principe italiano” mise in risalto uno dei limiti dei siciliani: la mancanza di fiducia reciproca. Ruggero Settimo avrebbe potuto essere un ottimo presidente di una “repubblica” siciliana, ma non si fidò di se stesso e forse, dei suoi collaboratori, e il trono fu offerto al secondogenito di Carlo Alberto, il duca di Genova Ferdinando, ma a patto che cambiasse il nome in Alberto Amedeo, non desiderando un altro re Ferdinando![9]. Questa scelta non era stata preceduta da alcuna preparazione diplomatica e fu, come c’era da aspettarsi, fortemente osteggiata da Ferdinando II che immediatamente si preoccupò di contattare a scopo dissuasivo, i principi italiani e le potenze europee. Il governo di Londra, vista la scarsa intesa del momento con Napoli si mostrò favorevole mentre Parigi, pur non contraria all’idea, avrebbe preferito la nomina di Carlo di Lorena, principe di Toscana. Il Papa e gli altri principi italiani suggerivano invece, in vista dell’unità italiana, di offrire la corona a un figlio di Ferdinando II.

Bandiera siciliana del 1848 -1849

Neanche Carlo Alberto fu d’accordo. In quel momento non poteva inimicarsi Ferdinando II, era impegnato contro l’Austria e gli serviva la solidarietà e l’aiuto di Napoli.

Il 15 maggio 1848

Facciamo un passo indietro per seguire gli avvenimenti di Napoli.

Incoraggiati dai buoni risultati ottenuti dai ribelli siciliani, anche i liberali napoletani avevano sperato di poter avere il sopravvento sulle truppe governative. Nel febbraio del ’48, sotto la spinta della minaccia rivoluzionaria, Ferdinando II aveva costituito un nuovo governo e fu chiamato a farne parte il duca di Serracapriola come ambasciatore a Parigi; fra i ministri che volle esonerare dall'incarico fu compreso il “famigerato” del Carretto. Agli interni fu preposto Francesco Paolo Bozzelli, che aveva sofferto esilio e prigionia per le sue idee politiche: egli ebbe l'incarico di compilare lo schema della Costituzione. Il decreto costituzionale fu pubblicato il 29 gennaio del 1848 e la stampa italiana fece grandi lodi a Ferdinando II di Borbone. Vi fu uno spettacolo di gala al San Carlo, durante il quale il sovrano fu applaudito dai palchi, dalla platea e dal loggione, e dovunque si videro coccarde tricolori, che il re detestava. Fu concessa una amnistia e ritornarono Luigi Settembrini ed altri esuli fra cui alcuni, come il Poerio ed il Tofano, ebbero incarichi di responsabilità.

La costituzione napoletana era un adattamento di quella francese: il re prestò giuramento il 24 febbraio nella basilica di San Francesco di Paola mentre dai forti echeggiavano salve di artiglieria. Dopo la cerimonia passò in rivista a cavallo le truppe schierate sulla piazza. Due giorni dopo, si seppe che a Parigi era scoppiata la rivoluzione che aveva costretto Luigi Filippo alla fuga: un po' dovunque si respirava desiderio di repubblica. Dopo re Ferdinando, in Italia anche il granduca di Toscana Leopoldo e Carlo Alberto di Savoia concessero la costituzione, mentre in Austria scoppiavano dei moti rivoluzionari che costringevano il potente principe di Metternich a prendere la via dell'esilio [10]. Vi furono altre rivolte a Venezia e a Milano e lo stesso Pio IX accordò una costituzione di tipo francese. Il momento non era tra i migliori per la pubblicazione della legge elettorale che prescriveva la scelta di 164 deputati a plebiscito popolare.

Re Ferdinando desiderava pacificare la Sicilia, ed aveva permesso a  Ruggero Settimo di governare in suo nome con il grado di Luogotenente. Il nuovo governo napoletano, influenzato dal Gioberti [11], scacciò nuovamente i gesuiti. La rivoluzione di Vienna e la fuga del Metternich, seguiti dalle Cinque Giornate di Milano, causarono ancora rivolte a Napoli e l'ambasciatore austriaco, il cui palazzo fu devastato, ritenne prudente imbarcarsi segretamente per Trieste.

Dopo circa 28 anni di esilio, fu permesso anche a Guglielmo Pepe di ritornare a Napoli. I nuovi movimenti fecero cadere ancora il ministero e ne fu formato quindi un altro sotto la presidenza dello storico e liberale Carlo Troja [12], amico del primo ministro del Piemonte Balbo  [13]. Venne deciso l'invio di un primo contingente di truppe napoletane in aiuto di Carlo Alberto, in guerra contro l’Austria. Il corpo di spedizione era formato esclusivamente di volontari, cui fece da «mascotte» la giovane principessa di Belgioioso, una «pasionaria» dell'800. A Ferdinando II la cosa non dispiacque: poiché per riavere la Sicilia aveva bisogno a sua volta di un aiuto, Il Re non si oppose anche alla successiva decisione di inviare un secondo contingente più numeroso. Il 7 aprile Napoli dichiarò guerra all'Austria e alla dichiarazione seguì un proclama, nel quale il sovrano napoletano considerava la lega italiana valida anche per il Regno.

Mentre il re approvava l'invio in Lombardia di un esercito di 17.000 uomini al comando del generale Pepe, giunse da Palermo la già citata notizia che la Sicilia lo aveva dichiarato decaduto dal trono. Per il mantenimento dell'esercito, per la campagna del Nord, occorrevano fondi: bisognò chiedere infatti un prestito di tre milioni di ducati.

Le elezioni nel napoletano si tennero normalmente ed il parlamento avrebbe dovuto riunirsi il 15 maggio nell'antico monastero di San Lorenzo. Il 13 maggio i parlamentari si riunirono a Monteoliveto e chiesero di mutare in parte la formula del giuramento. Ferdinando II si dichiarò disposto a discuterne, e propose di aprire il Parlamento senza giuramento, in attesa di trovare un accordo. L'assemblea si apri, ma alcuni facinorosi, guidati da Giovanni La Cecilia [14] e Pietro Mileti, irruppero nella sala sostenendo che il re aveva dato ordine alle truppe di circondare il palazzo. Ciò era falso, come poté riferire il prefetto di polizia, che rassicurò i deputati. Ma la capitale era in subbuglio e si cominciarono a formare alcune barricate.

 L'arresto di Carlo Poerio. Napoli, museo di San Martino

Il 10° Reggimento di Fanteria Borbonico era a Goito e l'esercito napoletano al comando del generale Pepe, già oltre Bologna, si stava preparando per misurarsi con gli austriaci di Radetzky. Tuttavia, a Napoli scoppiava la rivoluzione. Furono erette barricate in tutta la città, da San Nicola alla Carità a San Ferdinando, da Santa Brigida a Chiaia sino all'ospedale della Pace  [15]. In città si sentivano esplodere colpi di armi da fuoco e si vedevano circolare gente armata che con aria provocante distruggeva tutto quanto aveva a portata di mano. In effetti, la rivolta non aveva motivazioni ideali o di solidarietà con la Sicilia o con l'Italia in generale, bensì nasceva dall’intento di alcuni di pescare nel torbido per ottenere vantaggi per se stessi. Non si può parlare quindi di episodio risorgimentale, in quanto il Regno era impegnato nella prima guerra d'Indipendenza. I colpi di arma da fuoco si avvicinavano sempre più alla reggia, finché furono colpiti al petto due militari di truppa che sostavano davanti al palazzo reale. Lo stesso avvenne nel largo Mercatello, l'attuale piazza Dante, dove una sentinella fu ammazzata dai rivoltosi [16]. Alcuni deputati e generali - Nunziante, Statella, ed il brigadiere Eugenio Stockalper - si riunirono per indurre il sovrano a reagire con la forza.

Il deputato rivoluzionario conte Giuseppe Ricciardi di Camaldoli aveva riunito i ribelli davanti a palazzo Gravina [17]. Gli svizzeri, riusciti ad entrare nel cortile dell'edificio insieme a un drappello di guardie reali comandato dal maggiore Nunziante passarono per le armi quanti si opposero loro e misero in stato di arresto 50 persone. Fatti del genere incominciarono ad accadere dovunque, mentre Castel Nuovo inalberava un drappo rosso, per significare che le truppe erano in allarme attivo, seguito dal Castello del Carmine e poi da Sant'Elmo, ove il maggiore Zanetti prese l'iniziativa di far fuoco. Davanti alla reggia erano pronti due battaglioni della Guardia Reale con la batteria a cavallo. Vi erano nella capitale un totale di 12.000 uomini.

Visto che la situazione continuava a peggiorare, il re diede ordine alle truppe di intervenire. La batteria a cavallo che era davanti alla reggia entrò in azione contro la barricata che era alla fine di via Toledo angolo San Ferdinando. Le barricate furono prese d'assalto dai soldati napoletani. I rivoltosi combattevano strenuamente, e quando si vide che la truppa non riusciva a contenere il loro impeto, il colonnello fiammingo Jieniens diede ordine ai pezzi d'artiglieria di sparare. Diversi palazzi presero fuoco. La calma ritornò, ma non prima che la violenza avesse fatto, secondo le fonti ufficiali, 150 vittime, tra militari e civili e circa 270 feriti: la polizia arrestò 520 rivoltosi. In realtà, le vittime furono almeno 2.000.

Come disse Giustino Fortunato, quel 15 maggio del '48 fu una giornata di sangue non voluta dal popolo né da Ferdinando II. Piuttosto, con Luigi Settembrini, che certamente non era devoto al re, possiamo dire che questa giornata sanguinosa la vollero «i pazzi», mentre «non seppero impedirla i savi».

Ferdinando II di Borbone

Dopo questa grave insurrezione fu sciolta la Guardia Nazionale, fu imposta la legge marziale e molti deputati fuggirono, provocando rivolte in Calabria. Il re richiamò dall'Italia settentrionale le truppe per riprendere la Sicilia. Il 2 luglio Carlo Alberto fu sconfitto a Custoza, mentre a Napoli si riapriva il Parlamento. Per riconquistare la Sicilia, Ferdinando nominò comandante del corpo di spedizione, composto di 20.000 uomini, il generale Carlo Filangieri. Le truppe salparono da Napoli il 30 agosto.

Il bombardamento di Messina

In Sicilia ancora si discuteva su chi potesse sedere sul trono. L’esercito napoletano si era ammassato a Reggio. Messina fu sottoposta per 3 giorni (dal 3 al 6 settembre) ad un feroce bombardamento sia dalle truppe che ancora tenevano in mano la cittadella sia dal mare. Annichilita la città, si procedette allo sbarco e dopo due giorni di combattimento le truppe regie ebbero ragione degli insorti, entrarono nella città e, come sempre succede in questi casi, non mancarono saccheggi e stragi. Le cose cominciavano a volgere al peggio, sia per l’inferiorità numerica delle truppe siciliane sia perché ormai l’ondata rivoluzionaria era sfumata in tutta Europa e un ulteriore spargimento di sangue fu evitato dall’intervento dei comandanti delle navi inglesi e francesi, di stanza nel mediterraneo, che informati dell’accaduto invitarono i loro rappresentanti diplomatici a Napoli a premere perché si arrivasse ad un armistizio impedendo al Filangieri di infierire sulla popolazione.[18]

Carlo Filangieri

L’8 ottobre si arrivò così ad un armistizio di lunga durata. Ma la rivoluzione siciliana era ormai nei fatti conclusa e con il decreto del 28 febbraio 1849 (conosciuto come ultimatum di Gaeta), Ferdinando confermò l’unità del regno delle Due Sicilie con poche concessioni agli insorti. Lo sdegno dei siciliani fu enorme, ci fu un ultimo tentativo di ribellione ma ormai si era allo sfascio e le truppe regie ebbero facile vittoria sugli ultimi focolai di resistenza. Il 22 aprile il governo rassegnò le dimissioni nelle mani della municipalità [19]. Sotto la spinta popolare si ricostituirono le antiche corporazioni e con a capo il barone Riso si costituì un governo delle maestranze che il 1° maggio 1849 offrì la capitolazione al colonnello Nunziante. Una settimana dopo arrivarono le disposizioni del re: resa incondizionata e amnistia generale tranne che per 43 personaggi individuati come i capi della rivoluzione. Costoro, e molti altri, tuttavia avevano preso la via dell’esilio ancor prima che il Filangieri prendesse ufficialmente possesso della città.

1849, Pio IX benedice l'Esercito dal Palazzo Reale di Napoli

Le ripercussioni della rivoluzione

In tutta la vicenda, Ferdinando II aveva compiuto, alla luce degli avvenimenti che seguiranno, alcuni errori di valutazione che segneranno in maniera irreversibile il destino del Regno siculo-partenopeo: la riconquista armata della Sicilia, quando sarebbe convenuto a tutti un trattato che prevedesse l'indipendenza dell'isola da Napoli; l'abbandono della costituzione, nella convinzione che il Regno fosse inattaccabile (difeso dall'acqua di mare e dall'acqua santa, come soleva dire il sovrano) e che la vittoria austriaca del '48-49 potesse fermare il movimento liberale.

Salvatore Vigo

L’espulsione dalla Sicilia della classe dirigente che ne rappresentava, nel bene e nel male, la cultura, le tradizioni, i sentimenti, il cervello in una parola, ebbe come conseguenza lo spostamento del baricentro politico della lotta tra egemonismo napoletano e indipendentismo siciliano, dall’ambito geopolitico meridionale all’ambito geopolitico dell’intera penisola; creò in definitiva le premesse per la disfatta del regno delle Due Sicilie. Senza contare che la diaspora della classe politica e culturale creò un pericolosissimo vuoto. Le migliori menti dell’isola fuggirono e furono ospitate nelle maggiori capitali europee e italiane lasciando un pericolosissimo vuoto culturale e politico nell’isola [20]. La diaspora degli intellettuali siciliani ebbe una grande importanza e consentì che la classe dirigente isolana proiettasse la questione siciliana nella questione dell’unità d’Italia accantonando la propria identità politica per cui si era sempre battuta pur di averla vinta sulla Casa Borbone.

Medaglia in bronzo del 1849 per la campagna di Sicilia (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire.

Medaglia del 1849 in argento dorato coniata a Napoli per la Campagna di Sicilia del 1849. Clicca sull'immagine per ingrandire. Visita la pagina delle medaglie storiche siciliane.

D’altra parte la rivoluzione del ’48 non lasciò indenne nessuno stato europeo. All’apparenza i moti erano stati soffocati ma quella rivoluzione fu uno spartiacque che cambiò la situazione politica in buona parte dell’Europa [21]: la nascita del Regno d’Italia nel 1861, la nascita dell’impero tedesco nel 1870 e la fine del potere temporale della Chiesa cattolica nel 1872.

L’unificazione dei due paesi, Germania e Italia fu fatta su basi diverse: quella tedesca fu di tipo federale con la creazione di due entità statali distinte e separate, una con capitale Berlino e l’altra con capitale Vienna, quella italiana fu invece centralistica e dopo la morte di Cavour, l’unica “bella” mente piemontese assunse sempre più le caratteristiche di conquista che di unione. In verità fino quasi alla vigilia dell’impresa garibaldina l’ipotesi più votata era di realizzare anche in Italia due entità statali distinte federate ma a questa ipotesi si opponevano da un lato Giuseppe Mazzini e il Partito d’azione e dall’altro il rifiuto della Sicilia di rimanere provincia di Napoli. Infine non di poco conto, se non il più importante, fu il ruolo svolto dalla cecità politica degli ultimi di Casa Borbone. Non vollero mai capire la bontà della formula politica di Carlo III: due regni, un unico re e un unico stato federale!

In tutto questo dobbiamo ricordare l’opera svolta nella seconda metà degli anni ’50 dell’800, da Cavour e della sua brillante politica estera che riuscì ad inserire il Piemonte tra le nazioni che gestivano gli equilibri europei e gli consentirono di impadronirsi della Lombardia, della Toscana e dei Ducati dell’Emilia. Per finire, nel bel mezzo di tali avvenimenti di riassestamento, il 25 maggio 1859 morì Ferdinando II a cui successe il giovane Francesco, inesperto e timido e soprattutto non educato, per intenzione non tanto nascosta della matrigna, alla politica. Quando un re muore, così come quando finisce una legislatura, si rimette in discussione la politica. Nel caso del Regno delle Due Sicilie si rimise in discussione sia la politica interna che quella internazionale: la Francia e l’Inghilterra tentarono di riallacciare le relazioni diplomatiche, l’Austria da parte sua cercò di mantenere l’antica alleanza, rinsaldata dal recente matrimonio tra Francesco e Maria Sofia.

Francesco II

Anche Cavour propose a Francesco un’alleanza offrendogli la garanzia dell’integrità territoriale del regno compresa la Sicilia; in cambio chiedeva al Borbone di allinearsi col Piemonte contro l’Austria e il ritorno in vigore della costituzione del ’48, che non era mai stata ufficialmente abrogata [22]. Ma Francesco II rispose che non intendeva tradire la politica del genitore verso l’Austria né cedere ad istanze liberali. La scelta del giovane re fu semplicemente un suicidio politico. Qualche mese dopo ne raccoglierà i frutti anche se dal punto di vista umano, lui e Maria Sofia si riscatteranno con la resistenza, inutile ma romantica, della fortezza di Gaeta.

Fara Misuraca

Alfonso Grasso

maggio 2007


Note

[1] E' ben strano che la polizia borbonica non li avesse arrestati con gli altri.

[2] Dal diario di William Dickinson, vice console inglese, trascritto e tradotto da Liliana Scarlata e pubblicato da DoraMarcus col titolo Patrioti e Galeotti, Sicilia 1848, diario di una rivoluzione, 2003, p14

[3] Patrioti e galeotti, op. cit, pp 57 e seguenti

[4] Patrioti e Galeotti, op. cit.

[5] Oggi ci sono gruppi che si definiscono “duosiciliani” , un neologismo inaccettabile, perché indice di prevaricazioni su uno stato libero e indipendente, quello di Sicilia, e si ritengono legittime certe prese di posizioni da parte del re di Napoli. La lotta che allora fecero i “siciliani” contro il re fu analoga alle rivendicazioni dei gruppi indipendentisti che conosciamo oggi ma che molti “napoletano” a quanto pare non conoscono perché hanno studiato e divulgano solo quella parte di storia che ad essi fa comodo.

[6] Le condizioni per intero si possono leggere nel testo “Memorie” di Fardella di Torrearsa, riportate da Renda in Storia di Sicilia , 2° volume. Pag 932, edizioni Sellerio

[7] Dickinson, Patriotti e Galeotti, op. cit. p. 60

[8] L’atto più importante del Parlamento fu la costituzione, emanata il 10 luglio del 1848, che si ispirava a quella del 1812 e dove tra le altre cose si dichiaravano decaduti i Borbone.

[9] Di quel periodo ci rimangono due monumenti, che in realtà sono due strade: il viale della Libertà, tuttora la più bella strada di Palermo, e corso Alberto Amedeo, in nome di un re inesistente di nome e di fatto.

[10] Fu sempre ostile all'Italia ed al Regno di Napoli. Venceslao Clemente, principe di Metternich Winnerburg, si permise di definire l'Italia una «espressione geografica ». A causa dei moti di Vienna del '48 fu costretto a lasciare la carica che aveva tenuto sin dal 1814. Morì nel 1859.

[11] Vincenzo Gioberti era sacerdote, ma essendo impossibile conciliare il cattolicesimo col suo modernismo filosofico, la Chiesa lo allontanò dalla sua missione sacerdotale. Nemico acerrimo dei gesuiti fece sempre l'impossibile per combatterli, e scrisse Il gesuita moderno. Si riconciliò poi con le autorità ecclesiastiche e morì a Parigi nel 1852.

[12] Scrittore napoletano, lo si ricorda per la sua Storia d'Italia nel Medioevo per alcuni saggi letterari fra cui lo studio dantesco Del Veltro Allegorico di Dante. Morì nel 1858.

[13] Cesare Balbo, insigne statista ed acuto storico, fu tra gli studiosi politici che appoggiarono le massime politiche neoguelfe del Gioberti, ma in opposizione ad altri, escluse qualsiasi federazione di stati italiani con l'Austria. Scrisse la Vita di Dante e un profondo ed erudito Sommario della Storia d'Italia. Morì a Torino nel 1853.

[14] Era un ex capitano della guardia nazionale che, ritornato dall'esilio beneficiando dell'amnistia del re, era divenuto funzionario del ministero degli Interni.

[15] Era l'antico palazzo di Ser Gianni Caracciolo, l'uomo più potente e temuto del Regno di Napoli per essere il favorito della regina Giovanna. Fu acquistato nel 1587 dall'Ordine dei frati Ospedalieri che vi crearono appunto un ospedale: al complesso nel 1629 fu annessa la chiesa della Pace, dedicata all'Assunzione, che fu chiamata così per la pace tra Filippo IV di Spagna e Luigi XII di Francia.

[16] Come avviene i questi casi, la responsabilità per i fatti del 15 maggio è da suddividere tra il re, che non riusciva governare la situazione, ed i liberali radicali, che avevano già ottenuto concessioni ed incarichi, e che non tennero conto che il Regno stava partecipando alla I guerra d'indipendenza d'Italia.

[17] Attualmente è sede della Facoltà di Architettura dell'Università di Napoli.

[18] Si trattava degli ammiragli Parker e Baudin

[19] In quegli stessi giorni, Carlo Alberto, sconfitto a Novara, abdicava in favore del figlio Vittorio Emanuele e veniva firmato l’armistizio con l’Austria.

[20] Francesco Ferrara, uno dei più importanti economisti liberalisti dell’800, finì esule a Torino, padre Gioacchino Ventura, antesignano del liberalismo democratico cristiano a Parigi con lo storico Michele Amari e lo scienziato Stanislao Cannizzaro. Giuristi come Vito D’Ondes ed Emerico Amari andarono ad insegnare rispettivamente a Genova e a Firenze, per non parlare di politici come Crispi, La Masa, Stabile, ecc. In somma bisognerà aspettare i nostri giorni per assistere ad una così imponente fuga di cervelli che lasciò l’isola in mano a pochi aristocratici viziati, gabellati senza scrupoli e banditi di ogni genere. In pochi anni la Sicilia ebbe modo di regredire di qualche secolo.

Francesco Crispi

[21] Non è stato certo casuale che il 1848 è anche l’anno di pubblicazione del Manifesto del partito comunista, di Marx ed Engels. Manifesto che segna la fine di un’epoca, quella del Congresso di Vienna e l’inizio di un’epoca nuova.

[22] Nell’aprile del 1849, Ferdinando II aveva sciolto le Camere che rifiutavano di approvare il bilancio statale. Promise nuove elezioni, che però non si tennero mai, e la Costituzione fu messa in disparte: non ufficialmente abrogata, ma sepolta sotto un velo di oblio.


Bibliografia

  • Dickinson, W., Patriotti e galeotti, Sicilia 1848, Diario di una rivoluzione, trascritto e tradotto da Liliana Scarlata, edizioni DoraMarcus, 2003

  • Di Matteo, S. Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2006

  • Mack Smith, D., Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1970

  • Quatriglio, G., Mille anni in Sicilia dagli Arabi ai Borbone, Ediprint, 1985

  • Renda, F., Storia della Sicilia, Sellerio, 2003

  • Romeo, R., Il risorgimento in Sicilia, Laterza, 1950

  • Trevelyan, R., Principi sotto il vulcano, BUR, 1997

  • Gleijeses, V., La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977


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