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Sotto un cielo che presto diventerà azzurro

di Fausto Altavilla

Guida

 

Dalla prefazione di Domenico De Masi

La lettura del bel libro di Fausto Altavilla è per me inquietante. Prima di tutto perché è pervaso di religiosità. Io, invece, sono profondamente laico: credo che non sia stato Dio a creare l’uomo, ma siamo stati noi uomini a inventarci Dio e il suo paradiso per dare corpo alle nostre umane illusioni, per sperare in qualcosa di immortale, essendo noi mortali; a qualcosa di giusto, essendo ingiusto il mondo da noi costruito; a qualcosa di bello, essendo spesso bruttissimo tutto ciò che ci circonda.

La seconda cosa che mi differenzia dalle tesi di Altavilla è il suo rimpianto per il mondo contadino, che io invece reputo felicemente e definitivamente accantonato. Semplicità, bontà, saggezza, felicità, tutti valori che vengono generalmente attribuiti alla comunità rurale, a me paiono assai più presenti nella società postindustriale. La vita contadina era brutale, spietata, bigotta, onnivora. Schiava della tradizione, della scarsità, dell’emotività, dell’ignoranza. Non che l’attuale vita cittadina sia il migliore dei mondi possibili, ma certamente è il migliore dei mondi esistiti finora.

Ciò che invece mi accomuna alle idee di Altavilla è l’attenzione per il nostro Mezzogiorno e l’incapacità di spiegarne i paradossi. La nostra terra è al centro del pianeta: nel crocevia tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest. Ha un clima invidiabile. Ha un patrimonio storico e artistico tra i più densi del mondo. Eppure il suo reddito pro-capite è la metà di quello piemontese o lombardo. Perché? Non lo sappiamo.

Nitti ha dato la sua spiegazione politica, Salvemini la sua spiegazione geografica, Gramsci la sua spiegazione classista, De Martino la sua spiegazione antropologica. Ma, tutte insieme, queste spiegazioni non riescono a rendere conto dell’autolesionismo, della bellicosità, della fatuità meridionali: di questa nostra incapacità ad elevarci sopra tutto ciò che è effimero, mediocre, caotico.

Secondo Pasquale Turiello (Governo e governati in Italia del 1882), il nostro sottosviluppo economico e civile dipende dalla “scioltezza eccessiva degli individui (...) radice unica di più disordini che appariscono in forme e colori diversi”. E il termine “scioltezza” significa mancanza di legami, di leggi, di nomos tra i cittadini; equivale cioè proprio a quel concetto di anomìa che ha fatto la fortuna di Durkheim. Ne consegue che “individui così naturalmente e socialmente disciolti pregiano più le virtù solitarie che le civili e, tra queste, più quelle in cui si patiscono cose forti che quelle in cui si operi fortemente”.

Una nazione di individualisti vive nel vuoto anarcoide di tutte le istituzioni, tranne una: la famiglia. Ed ecco anticipata, così, l'altra famosa tesi – quella di Banfield – secondo cui ciascuno, nel profondo Sud, agisce in vista del bene immediato e materiale proprio e del proprio ristretto nucleo familiare dando per scontato che anche gli altri facciano altrettanto. “Dalla lotta viva tra gli individui così mobili ed esuberanti – scrive Turiello – fuori della famiglia nasce la diffidenza, in ogni convegno, in ogni società pubblica. L'ordine singolare che li fa egregi negli scontri di uomo contro uomo, come è rilevato da chiunque li conosca, cessa nel Napoletano quando gli bisogni procedere associato (...) Onde è che, fuori della famiglia, non trovi quasi altri legami morali”.

Come dargli torto?

L’altra tesi, quella sostenuta da Pasquale Villari, vuole dimostrare che il carattere dei cittadini non è che l'occasione prossima dei mali meridionali perché, a loro volta, essi discendono da cause storiche e strutturali, e perché esiste un continuo rapporto di causa-effetto tra la struttura e la cultura di un sistema sociale. “Al prof. Turiello – scrive Villari – sembra che la camorra sia conseguenza come in parte anche il brigantaggio, della ‘scioltezza’ e ‘indisciplina dell'individuo italiano’ che è ancor più sciolto e indisciplinato nel Napoletano. Noi cercammo invece di provare che la causa principalissima della camorra è la grande miseria, il grande avvilimento di una parte della plebe napoletana”.

Come dargli torto?

Discuteremo per sempre se è nato prima l’uovo del carattere e dell’antropologia meridionale o la gallina della sua condizione strutturale. Resta il fatto che entrambi cospirano contro lo sviluppo e il progresso, levantinamente lenti nel Sud.

In un suo studio insuperabile su Napoli e la questione meridionale, Nitti individua (siamo nel 1903) quattro punti dolenti, che restano tuttora cruciali: la depressione economica, per cui il PIL della città è decisamente inferiore a quello di Roma o di Milano; la debolezza finanziaria per cui le banche e la borsa di Napoli sono ridotte a una funzione gregaria rispetto a quelle di altre piazze; la patologia dei rapporti sociali, per cui la solidarietà e la vivacità descritte da Goethe sono ormai degenerate in diffidenza, malumore ed aggressività; la vita pubblica avvelenata dal disimpegno politico, dalla rissosità amministrativa, dalla carenza di progettualità, da ritardi operativi, dall’asservimento della sfera pubblica da parte dei politici faccendieri, degli speculatori economici, della criminalità associata.

Il libro inizia così: “Napoli, la grande città che era ancora qualche secolo fa la seconda in Europa per popolazione, che nel 1860 soverchiava per importanza tutte le città italiane; Napoli, la città che Sella chiamava ‘cospicua’ e che aveva almeno fino a poco tempo fa alcune apparenze di ricchezza, Napoli muore lentamente sulle sponde del Tirreno. Tra tanto cielo e tanto mare, tutto un grande dramma umano si svolge”. E così finisce: “Quando a Napoli io vedo questi volti di operai che la povertà ha reso anemici, questa immensa turba che vorrebbe lavorare e non può, io sento che l’anima mi dice di osare: di osare contro l’ignoranza che avvelena e contro il pregiudizio che uccide”.

A ripercorrere le vicende del secolo che ci separa dal libro di Francesco Saverio Nitti, si ha l’impressione che, pur nel progresso generale, Napoli abbia ulteriormente perso terreno rispetto a Milano e Roma e che, se non si ridesta, rischia di perdere il treno postindustriale così come, all’epoca di Nitti, perse quello industriale. Forse allora vi erano gli uomini necessari ma le circostanze erano avverse; oggi le circostanze sono favorevoli però mancano gli uomini capaci di coglierle: non solo in campo politico ma anche in campo economico.

Perché, a mio avviso, le attuali circostanze generali sarebbero favorevoli allo sviluppo del Mezzogiorno? Perché, dopo aver perso per ben tre volte il treno dell’industrializzazione, un nuovo treno epocale passa accanto a Napoli e al Sud: il treno della società postindustriale. E il Sud rischia di non accorgersene, tanto più che, questa volta, non c’è un ‘Nitti del Duemila’ capace di pungolare il Governo centrale e quello locale con un’analisi altrettanto inoppugnabile di quella elaborata dal ‘Nitti del Novecento’.

Ma cosa è questa società postindustriale? Non è soltanto una nuova struttura economica, né soltanto un nuovo ordinamento sociale o una cultura inedita, o un nuovo complesso di miti e di valori, o un'economia basata su nuovi fondamentali, o una forma di neo-capitalismo, o una nuova antropologia, o una nuova inclinazione psicologica delle masse. È tutte queste cose messe assieme, ed altro ancora.

Dopo soli due secoli dall’avvento della società industriale, e con un'irruenza assai più tumultuosa, nella seconda metà del Novecento è arrivata una nuova ondata di novità tecnologiche, politiche, culturali. Con la nascente società, che per comodità chiamo “postindustriale”, si sono diffuse una nuova struttura e una nuova cultura, poco decifrabili in un primo momento ma poi via via sempre più chiare ed egemoni.

Alcuni tratti di questa nuova società sono ormai ben noti: nella società postindustriale la produzione di servizi prevale sulla produzione di beni materiali; la classe professionale e tecnica prevale su quella esecutiva; la conoscenza teorica precede l'esperienza empirica; le “tecnologie intellettuali” di tipo digitale prevalgono su quelle tradizionali di tipo analogico.

Nella società postindustriale una serie di fenomeni, che vanno dall'informatizzazione alla robotizzazione, dalla manipolazione genetica alla prevalenza dell'invenzione sulla scoperta, investono l’individuo, la famiglia, il lavoro; ristrutturano il tempo e lo spazio, demassificano la cultura; rimodellano il rapporto tra individuo, gruppi, movimenti, istituzioni, collettività. La posta in gioco non consiste più nell’appropriazione del plusvalore economico ma nella capacità di programmare il futuro e imporre la propria programmazione a tutti gli altri.

Il mercato internazionale del lavoro va assumendo un nuovo assetto basato sulla divisione dei Paesi in tre blocchi: da una parte le nazioni che coltivano, attirano, monopolizzano le intelligenze per produrre brevetti tramite la ricerca scientifica e per produrre arte tramite la ricerca estetica. Dall'altra le nazioni costrette a tradurre i brevetti in beni e servizi tramite le fabbriche manifatturiere che ormai rendono poco economicamente e inquinano molto ecologicamente. Infine, i Paesi condannati a fornire sottocosto le braccia, le materie prime, le basi militari e la subordinazione politica in cambio della sopravvivenza e, nel migliore dei casi, in cambio di una lentissima espansione dei propri consumi.

Nella società industriale la leadership toccava ai paesi in possesso delle materie prime e dei mezzi di produzione; nella società postindustriale la leadership tocca ai paesi in possesso della materia grigia, dei laboratori scientifici, delle banche-dati, dei provider, dei centri di produzione cinematografica e televisiva. Insomma, della creatività ben coltivata.

All’inizio del Novecento Nitti rimproverava Napoli per essersi ridotta a consumare acciaio e macchine comprate altrove senza produrle, incapace di cogliere l’occasione epocale della nascente industria. All’inizio del Duemila è possibile rimproverare Napoli e il Mezzogiorno di essersi ridotti a consumare non solo merci, ma anche saperi, linguaggi, informazioni, valori, simboli, estetiche importate dall’esterno, incapaci di produrne autonomamente sfruttando l’occasione epocale dell’avvento postindustriale. Per produrre nella Napoli di cento anni fa i beni materiali occorreva l’Ilva; per produrre nella Napoli attuale i beni immateriali occorrono università, laboratori di ricerca, atelier, business school, centri di creatività scientifica ed estetica, parchi tecnologici, strutture per il tempo libero, per il turismo, per il benessere globale. Agli inizi del Novecento, eccetto le poche industrie pubbliche, c’era qualche concia di pelle, qualche piccola fabbrica chimica e poche altre imprese del genere. Agli inizi del Duemila, eccetto i laboratori universitari quasi sempre obsoleti, le imprese di Pistorio, di Perna e di Ercolino, ci sono pochissimi altri nuclei di ricerca scientifica, gastronomica, estetica.

Da alcuni decenni, in tutti i paesi avanzati, si assiste a uno spostamento sempre più accelerato del baricentro del mercato del lavoro. Gli esuberi dell’agricoltura, dove i contadini furono sostituiti dai trattori automatici e dai concimi chimici, si spostarono nell’industria. Poi gli esuberi dell’industria, dove gli operai e buona parte degli impiegati furono sostituiti dall’automazione e dall’elettronica, si spostarono nel commercio e nei servizi tradizionali. Poi gli esuberi dei servizi, dove i commessi, gli impiegati e i piccoli esercizi furono sostituiti dai distributori automatici (si pensi al bancomat) e dai supermercati (ogni shopping center, per un posto di lavoro che crea, sette ne distrugge), si spostarono nei call center, nella manutenzione e nella gestione delle ICT. Da ultimo gli esuberi delle ICT, dove l’automazione, il telelavoro, la concorrenza dell’India e di altri paesi emergenti sono riusciti a svuotare persino la Cisco nella Silicon Valley e la Kodak a Boston, tentano di riconvertirsi all’industria del benessere globale: cliniche, palestre, turismo, festival, cultura, sport, intrattenimento, formazione permanente, moda, design, architettura d’interni e di giardini, arredamento, eno-gastronomia, estetica e manutenzione del corpo, arricchimento dello spirito.

Se l’industria ridisegnò la geografia economica svuotando i paesi di montagna, installando stabilimenti siderurgici in paradisi naturali come Bagnoli, tracciando ferrovie e autostrade, mettendo in secondo piano l’estetica, la soggettività, l’emotività rispetto alla pratica, all’organizzazione, alla razionalità; la società postindustriale sta disegnando una nuova mappa del pianeta in cui le capitali del lavoro – da Detroit a Torino – cedono il passo alle capitali della cultura, dell’intrattenimento, del sapere, della bellezza, del gioco, dell’ozio creativo dove i talenti inclinano a trasferirsi e dove sono meglio coltivate l’accoglienza, la tolleranza, la sensualità, l’allegria, l’interclassismo, la creatività, la flessibilità, l’estroversione, la socievolezza, la donazione di senso, la tranquillità, la convivialità, il rispetto della privacy.

Per ben tre volte Napoli e il Mezzogiorno hanno tentato, senza riuscirci, di diventare un grande polo industriale. Ci sono oggettive possibilità che essi diventino oggi un grande polo postindustriale?

Ai tempi di Nitti le condizioni erano talmente diverse da quelle attuali che mai il grande sociologo lucano avrebbe potuto pensare al benessere come prodotto da creare e da vendere. In quegli anni il futuro era l’industria. Ma oggi siamo in tutt’altra situazione e Nitti, se dovesse riscrivere Napoli e la questione meridionale, certo non punterebbe più sull’industria pesante ma prenderebbe in più seria considerazione, accanto a tutte le attività intangibili, anche quelle che riguardano la qualità della vita, non escluso il turismo.

Infatti, un fantasma si aggira per il mondo: il fantasma del tempo libero. Mentre un numero sempre più esiguo di forzati della fatica, soprattutto manager, si chiude in difesa delle proprie dieci ore di lavoro al giorno, e se le tiene strette, senza cederne ai disoccupati neppure una briciola; mentre questi forzati della fatica coltivano con tenace sollecitudine il mito del lavoratore indefesso, tutto ufficio e azienda, sul cui vessillo è scritto a caratteri d'oro il motto "lavoro, guadagno, pago, pretendo"; mentre questi forzati della fatica puntano tutto sulla competitività, sulla lotta per il potere, sull'incremento di valore della propria azienda, cioè sull'arricchimento dei loro padroni; una massa crescente di beneinformati ha preso coscienza che la vita nei paesi ricchi è sempre più fondata sul tempo libero, sullo svago, sull'ozio, sulla valorizzazione delle vacanze proprie molto più che sulla pianificazione delle vendite e degli investimenti altrui.

Siamo alle soglie di una società oziosa, il cui solo pensiero manda in bestia i forzati della fatica, i masochisti del dovere operoso, nevroticamente dediti alle loro riunioni di lavoro, alle loro trasferte di lavoro, alle loro colazioni di lavoro.

Ma oggi, se andiamo al sodo, che cosa fa girare l'economia? quale settore tiene il primato nella determinazione della ricchezza nazionale? quale ramo assicura agli azionisti il giro d'affari più redditizio? Forse l'industria siderurgica? o quella bellica? o quella automobilistica? o quella elettronica? o i servizi finanziari? Nossignori: ormai il banco è tenuto dall'industria del cosiddetto "entertainment": lo svago, l'intrattenimento, il tempo libero, l'ozio!

Se ormai la maggior parte della nostra vita, a dispetto dei forzati del lavoro, è fatta di tempo libero, occorre prepararsi a capitalizzare l'ozio, ora che la civiltà di riferimento non è più la Seattle di Bill Gates, dove la corsa al successo produce una società squilibrata e infelice, ma l'Atene di Pericle, dove l'ozio creativo consentiva equilibrio e bellezza. Sotto questo aspetto, la Bahia di Caetano Veloso può insegnare assai più del Veneto di Benetton.

E il Mezzogiorno, se finalmente consapevole delle sue qualità e libero dei suoi difetti, potrebbe vantaggiosamente collocarsi tra Atene e Bahia.

Su questo, ne sono certo, anche Fausto Altavilla è d’accordo con me.

Domenico De Masi

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