Pensiero Meridiano

 

L'ideologia del forzaleghismo

di Edmondo Berselli

Dev'essere all'opera uno dei grandi e ricorrenti paradossi italiani se una delle più squinternate iniziative politiche mai lanciate nel nostro paese, la rivolta fiscale architettata da Umberto Bossi, è diventata un tema sociale e politico di primo piano. Il paradosso è che la ribellione contro le tasse avviene nel paese dell'evasione. D'altronde non si può dimenticare che, sotto la guida del suo insostituibile leader, la Lega ha lanciato nel tempo diverse altre iniziative insensate, dal parlamento di Mantova al governo padano, dalle elezioni del Nord nei gazebo alle minacce di secessione e di spartizione "federale" dell'Italia.

Quindi non c'è da stupirsi se Bossi proietta nel cielo della politica agostana una provocazione delle sue: semmai ci sarebbe da mettere a fuoco che l'estate è costellata di clamorosi casi di evasione o elusione fiscale, a cominciare dall'affaire che coinvolge il londinese "residente non domiciliato" Valentino Rossi. Sicché si ha la sgradevole sensazione che dietro l'appello all'insurrezione antitasse si nasconda una mobilitazione di alcuni ceti contro gli altri, i "liberi di evadere" contro gli obbligati al pagamento.

Si capisce in questo senso la totale sintonia che Silvio Berlusconi ha confermato al suo principale alleato, proprio lui Bossi. Non dovrebbe sfuggire infatti, e lo confermano le prese di distanza da parte di Alleanza nazionale e dell'Udc, che la ventilata insurrezione contro la fiscalità generale è un tipico tema del "forzaleghismo", cioè dell'ideologia profonda della Casa delle libertà, di quel nordismo sbrigativo che accomuna il mondo della Lega con l'insediamento politico ed elettorale di Forza Italia.

Sono settori del commercio, della piccola impresa, parte del tessuto imprenditoriale, professionale e in generale del lavoro autonomo, in sostanza quell'universo sociale che rifiuta antropologicamente la sinistra, non vuole saperne di parole come redistribuzione, e considera le tasse semplicemente come un prelievo insopportabile, a cui sottrarsi ogni volta possibile. Che questo discorso non tocchi il lavoro dipendente privato e pubblico, il quale non ha la minima possibilità di sottrarsi alla tassazione sul reddito, è la dimostrazione di quanto sia ideologica la forzatura di Bossi, vale a dire di come sia legata alla nozione di un'autentica lotta di classe (dichiarata, come si vede, dalla parte avvantaggiata).

Per questo vanno prese sul serio le parole con cui Walter Veltroni ha commentato l'appello di Bossi ("Se passa il principio che chi perde le elezioni smette di pagare le tasse, questo paese ha finito di esistere"); anzi, vanno semmai approfondite, proprio in quanto la rivolta fiscale non minaccia di inceppare soltanto il funzionamento dello Stato, ma costituisce la premessa di un confronto sociale durissimo, virtualmente capace di spaccare in due parti la società italiana, e di progettare la politica come la vendetta dei privilegiati su tutti gli altri.

"Prodi deve andarsene", dice Bossi, "perché così vuole la gente". Sbaglia, volutamente, per eccesso: pretende la caduta del governo un certo tipo di "gente", quella che immagina di poter trarre ricavi consistenti dai principi politici e fiscali del forzaleghismo. E in questo senso, se si capiscono quali interessi sono in gioco, diventa meno surreale la discussione se sia giusto, o doveroso, pagare le tasse. Diventa meno bizzarro che il segretario di stato vaticano, monsignor Tarcisio Bertone, avverta il bisogno di annunciare al meeting di Rimini che davanti a "leggi giuste" pagare le tasse è un dovere.

Non è il caso di prendere sul serio le dichiarazioni di Roberto Calderoli, che ha visto nelle parole del cardinale un sostegno alle posizioni leghiste. In effetti se le leggi sono ingiuste, come pensa Calderoli sulla base del dogma bossiano, è giusta la ribellione. C'è solo il problema di individuare chi sia, e in base a quali norme, a decidere se le leggi sono giuste o sbagliate.

Per la verità, monsignor Bertone si è limitato a stabilire un criterio di pura ovvietà. Non è poco, dal momento che quando il povero Prodi espresse la propria meraviglia perché nelle omelie domenicali non si sentono spesso inviti alla correttezza fiscale, ci furono risposte piuttosto risentite. Giulio Andreotti dichiarò che quelle parole non gli erano piaciute, e quindi praticò la piccola rappresaglia di votare contro il governo al Senato. Il settimanale dei paolini "Famiglia cristiana" rispose che pagare le tasse è un dovere, ma aggiungendo la clausola insidiosa che quando poi si assiste allo sciupio delle risorse pubbliche, quel dovere appare un'imposizione arbitraria: senza che molti mettessero in rilievo che questo è il tipico sofisma paraleghista dell'evasore: "pagherei le tasse se lo Stato non sprecasse i miei soldi".

E dunque bisognerebbe salutare le parole del segretario di stato Bertone semplicemente come un omaggio all'ovvio. Ma di questi tempi anche l'ovvietà, nella politica italiana, sembra esprimere una salutare controtendenza. Quindi viene voglia di ringraziare le ovvietà del cardinale: almeno per quel poco o quel tanto che contribuiscono a ripristinare condizioni di equità fra le due Italie del fisco, quella che paga automaticamente in silenzio e quella che invece può permettersi di aderire alla rivolta fiscale o di fomentarla. E talmente squilibrato il rapporto fra queste due porzioni di società che ogni parola a conforto risulterà consolante, e non solo per il governo Prodi.


La Repubblica, 20 agosto 2007

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