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La rinascita del “Che”

Con "I diari della motocicletta" di Walter Salles la leggendaria avventura di Ernesto Guevara conquista il pubblico. E se il guerrigliero viene attaccato, è la sua stessa storia rivoluzionaria a difenderlo. A Cuba e nel mondo.

Gianni Minà

Il successo nei cinema de I diari della motocicletta di Walter Salles e il gradimento televisivo del mio documentario In viaggio con Che Guevara, trasmesso domenica sera in prima serata su Raitre, e nei prossimi giorni disponibile in dvd in tutte le librerie, ripropongono prepotentemente le idee di Ernesto Che Guevera, medico e guerrigliero assassinato nel 1967, per ordine della Cia, in Bolivia, dove inseguiva l'utopia di liberare non solo quel paese, ma tutta l'America Latina dall'ingiustizia, dalla miseria, dalla sopraffazione. Il film di Walter Salles sulla gioventù del Che, già venduto in tutto il mondo (negli Stati uniti lo distribuirà la Focus che ha pagato 6 milioni di dollari per assicurarselo) è già uscito in Brasile dove in due weekend è stato visto da 500mila persone e in Italia dove, in un solo fine settimana, ha già registrato nelle sale più di 100mila presenze, secondo solo a Troy col divo Brad Pitt e a Van Helsing. Sorte non meno felice tocca a In viaggio con Che Guevara dove Alberto Granado, 82enne, ripercorre, cinquant'anni dopo i luoghi di quella leggendaria avventura in motocicletta con l'amico fuser (el furibundo Serna) attraverso l'America Latina. Sono 26 i paesi che l'hanno richiesto finora.

Perché succede questo fenomeno con Che Guevara? "Perché - come afferma Eduardo Galeano - il Che ha questa pericolosa abitudine di continuare a nascere?" Il saggista uruguaiano ha una tesi: "Quanto più lo insultano, lo manipolano, lo tradiscono, più il Che nasce. Anzi, è quello che nasce di più di tutti. Non sarà perché disse quello che pensava e ha fatto quello che diceva? Qualcosa di straordinario in un mondo dove le parole e i fatti raramente si incontrano e se si incontrano non si salutano perché non si conoscono". Il Che infatti è un caso unico nel nostro secolo che ha divorato i suoi protagonisti e non ha avuto pietà. spesso, neppure dei più meritevoli, condannandoli ad un rapido oblio. Per il medico argentino che insieme a Fidel Castro, in un'esperienza rara nel continente, contribuì a far trionfare una rivoluzione popolare a Cuba e successivamente, prima di cadere in Bolivia, tentò, senza successo di tenere in vita ilm ovimento di liberazione del Congo dopo l'assassinio di Lumumba, non è mai arrivato invece l'oblio e nemmeno il disprezzo delle sue idee e delle sue azioni, salvo alcuni recenti tentativi, senza esito, dell'intellettuale francese Regis Debray che tanto lo aveva cantato in passato ed ora forsa è attanagliato dai rimorsi di aver contribuito, magari senza volerlo, ma per sicura inettitudine, a far individuare e catturare Guevara dai rangers boliviani in quel tragico ottobre del 1967.

Il Che dunque non è un'icona come, con un po' di fastidio, affermavano poco tempo fa alcuni intellettuali cosiddetti riformisti. Non sono riusciti a renderlo tale i manager più o meno in buona fede che fanno mercato dei ricordi e hanno cercato di trasformarlo in un gadget, in un'immagine stampata su una maglietta, e nemmeno alcuni studiosi progressisti ora assaliti da molti dubbi. Quattro munumentali biografie, uscite nel 1997, hanno addirittura tentato una lettura con il distacco storico che dovrebbe accompagnare l'interpretazione delle azioni e del pensiero di chi ha lasciato un segno non superficiale nei sentieri del mondo. Che Guevara ha superato l'esame dell'americano John Lee Anderson, malgrado lo abbia definito un avventuriero e un volontarista, ed ha superato anche l'analisi del francese Kalfon e del messicano Paco Ignacio Taibo II che ha scritto l'opera forse più appassionata e di maggior successo nel mondo. Il Che è stato bocciato solo da Jorge Castaneda, sociologo messicano, piuttosto disinvolto, con grande seguito in Florida. Castaneda, poi diventato ministro degli esteri messicano ed ora addirittura in corsa per la successione di Vicente Fox, l'amico di "Rancho" di George W. Bush, avrebbedovuto lavorare insieme a Paco Ignacio Taibo II, ma dopo alcune sedute di studio insieme Taibo ha deciso che era meglio andare ognuno per la propria strada. "Jorge aveva una tesi precostituita e ostile a Guevara e al suo rifiuto dell'ipocrita mondo che viviamo. Ma era una tesi gradita a molti dei suoi lettori nordamericani ed in particolare di Miami - mi ha spiegato Paco Ignacio - così ho pensato che, per non litigare, era meglio dividersi. Uno storico non può avere pregiudizi".

Castaneda purtroppo ne aveva molti dovendo far dimenticare forse la sua disponibilità a "vender l'anima" come scrisse una volta Manuel Vasquez Montalban. Da giovane, per esempio, quando era marxista aveva avuto la debolezza di lavorare proprio per i "servizi cubani" tanto che nella prima visita di stato di Castro a Città del Messico (quando ancora le antiche relazioni di amicizia fra i due paesi erano buone) proprio il comandante al presidente Fox che gli presentava il suo ministro degli esteri aveva risposto ironico: "lo conosciamo bene, lo conosciamo bene".

Non sorprende quindi che il libro di Taibo abbia avuto più seguito di quello di Castaneda perfino in Messico, in Argentina e negli Stati uniti. Sorprende invece che proprio all'unico chiacchierato storico del Che abbiano dato credito, in momenti diversi, colleghi come Merlo e Zincone, sul fatto che il Che non era umano "mansueto" come si racconta o come appare nel film del brasiliano Salles, prodotto da due nordamericani Robert Redford e Michael Nozik, sceneggiato da un portoricano, Josè Rivera, supervisionato da Granado stesso, un argentino.

Nell'opinione di Zincone il Che era addirittura spietato, come il vicepresidente degli Stati Uniti Cheney, secondo una famosa definizione di un altro campione di democrazia, Henry Kissinger ("Cheney è l'uomo più spietato che io ho conosciuto nella mia vita"). E non si capisce nemmeno come, secondo l'editorialista del Corriere, il Che potesse essere "spietato ma in buona fede". No, Zincone, il Che non era come i contractors italiani che vanno in Iraq per difendere gli interessi di chi vuole rapinare delle sue ricchezze l'antica Mesopotamia.

In un riquadro, inserito nell'impaginato dell'articolo c'è scritto pure che Ernesto Che Guevara "fu ucciso dai governativi, in Bolivia, nel `67". In verità il Che, catturato vivo ma ferito, fu "finito" l'indomani dal caporale Mario Teran, dopo un ordine in tal senso arrivato agli alti comandi militari boliviani dal capo stazione della Cia in Bolivia Felix Rodriguez, che si vantò in un libro di quel "consiglio" trasmesso al governo di La Paz. Una confessione che rende praticamente grottesca ogni possibilità di attribuire, come da sempre fanno gli anticastristi di Miami (ripresi da molti opinionisti "democratici"), la responsabilità della fine del Che al "geloso" Fidel Castro, nello stile di un fosco dramma elisabettiano.

"Quelli convinti che mio padre adesso, se fosse vivo, lotterebbe contro la rivoluzione che aveva contribuito ad affermare non conoscono il Che e non rispettano la sua famiglia - mi ha dichiarato Aleida, figlia di Ernesto Guevara, pediatra all'ospedale William Soler dell'Avana e presente alla proiezione del film di Salles a Cannes - mia madre è stata più volte deputata al parlamento e noi quattro figli superstiti siamo completamente integrati nella rivoluzione del nostro paese. Chi scrive queste cose afferma praticamente che noi avremmo accettato di vivere in un paese che ha tradito il Che. È semplicemente indecente ed è chiaro il tentativo di svilire la sua storia e il suo stesso insegnamento".

Proprio pensando a questo quadro e all'immorale inasprimento delle sanzioni economiche e politiche contro Cuba deciso, senza alcun motivo, in questi giorni dal governo di Bush junior e passate sotto silenzio dalla cosiddetta stampa libera, ho pensato all'attualità di quanto Manuel Vasquez Montalban scriveva, pur con legittime critiche, sull'orgoglio di Cuba e sul ritorno in auge delle idee del Che. "Ernesto Che Guevara è come un incubo per il pensiero unico, per il mercato unico, per la verità unica, per il gendarme unico. Il Che è come un sistema di segnali di non sottomissione, una provocazione per i semiologhi o per la santa inquisizione dell'integralismo neoliberale. E causa questo disagio non come profeta di rivoluzioni inutili, ma come scoraggiante (per il potere) proclama del diritto a rifiutare che, fra il vecchio e il nuovo, si possa scegliere soltanto l'inevitabile, e non il necessario. Insomma la libertà fondamentale di rivendicare il necessario".


Il Manifesto 26 maggio 2004

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