la Scuola poetica siciliana

 

 

Rosa fresca aulentissima

Cielo d'Alcamo

Federico II

 

a cura di Astrid Filangieri

Si distingue dai rimatori coevi per il lessico, che, pur mantenendo alcuni elementi aulici, tende fortemente al vernacolare. Cielo d’Alcamo è conosciuto per il seguente contrasto giocato fra un pretendente e una ragazza.


                               I

«Rosa fresca aulentis[s]ima ch'apari inver' la state

le donne ti disiano, pulzell' e maritate;

tràgemi d'este focora, se teste a bolontate;

per te non ajo abento notte e dia,

penzando pur di voi, madonna mia.»

                        

                               II

«Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.

Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,

l'abere d'esto secolo tut[t]o quanto asembrare

avere me non pòteri a esto monno;

avanti li cavelli m'aritonno.»

 

                               III

«Se li cavelli arton[n]iti, avanti foss'io morto,

ca'n is[s]i [sì] mi pèrdera lo solacc[i]o e 'l diporto .

Quando ci passo e véjoti,   rosa fresca de l'orto,

 bono conforto donimi tut[t]ore:

 poniamo che s'ajunga il nostro amore.»

 

                                IV

«Ke 'l nostro amore ajùngasi, non boglio m'atalenti:

se ci ti trova paremo cogli altri miei parenti,

guarda non t'ar[i]golgano  questi forti cor[r]enti.

Como ti seppe bona la venuta,

consiglio che ti guardi a la partuta.»

 

                                 V

«Se i tuoi parenti trova[n]mi,  e che mi pozzon fare?

una difensa mèt[t]oci di dumili' agostari:

non mi toc[c]ara pàdreto er quanto avere ha 'n Bari.

Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!

Intendi, bella, quel che ti dico eo? (1)

 

                                 VI

«Tu me no lasci vivere  né sera né maitino.

Donna mi so' di pèrperi, d'auro massamotino.

Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino,

e per ajunta quant'ha lo soldano,  

toc[c]are me non pòteri a la mano.»

 

                              VII

«Molte sono le femine c'hanno dura la testa,

e l'orno con parabole l'adimina e amonesta:

tanto intorno procàzzala fin ch'ell' ha in sua podesta.

femina d'orno non si può tenere:

guàrdati, bella, pur de ripentere.»

 

                            

                            VIII

«K'eo ne [pur ri]pentésseme?  davanti foss'io aucisa

ca nulla bona femina per me fosse ripresa!

[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa.

Aquìstati riposa, canzoneri:

le tue parole a me non piac[c]ion gueri.»

 

                            IX

«Quante sono le schiantora  che m'ha' mise a lo core,

e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!

Femina d'esto secolo tanto non amai ancore

quant'amo teve, rosa invidiata:

ben credo che mi fosti distinata.»

               

                            X

«Se distinata fosseti, caderia de l'altezze,

ché male messe fòrano in teve mie bellezze.

Se tut[t]o adivenìssemi, tagliàrami le trezze;

e consore m'arenno a una magione,

avanti che m'artoc[c]hi 'n la persone.»

 

                            XI

«Se tu consore arènneti donna col viso cleri,

a lo mostero vènoci e rènnoti confleri:

per tanta prova vencerti fàralo volonteri.

Conteco stao la sera e lo maitino:

besogn'è ch'io ti tenga al mio dimino.»

 

                              XII

«Boimé tampina misera, com'ao reo distinato!

Geso Cristo l'altissimo del tut[t]o m'è airato:

concepìstimi a abàttare in omo blestiemato.

Cerca la terra ch'este gran[n]e assai,

chiù bella donna di me troverai.»

 

                               XII

«Cercat'ajo Calabr['i]a, Toscana e Lombardia,

Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,

Lamagna e Babilonia [e] tut[t]a Barberia:

donna non [ci] trovai tanto cortese,

per che sovrana di meve te prese.»

 

                             XIV

«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[ c]ioti meo pregheri

che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri,

Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,

e sposami davanti da la jente;

e poi farò le tuo comannamente.»

 

                            XV

«Di ciò che dici, vitama, neiente non ti bale,

ca de le tuo parabole fatto n'ho ponti e scale.

Penne penzasti met[t]ere, sonti cadute l'aIe;

e dato t'ajo la bolta sot[t]ana.

Dunque, se po[t]i, téniti villana.»

 

                            XVI

«En paura non met[t]ermi di nullo manganiello:

istòmi 'n esta groria d'esto forte castiello;

prezzo le tue parabole meno che d'un zitello.

Se tu no levi e va'tine di quaci,

se tu ci fosse morto, ben mi chiaci.»

 

                             XVII

«Dunque vor[r]esti, vitama, ca per te fosse strutto?

Se morto essere déb[b]oci od intagliato tut[t]o,

di quaci non mi mòs[s]era se non ai de lo frutto

lo quale stao ne lo tuo jardino:

disiolo la sera e lo matino.»

 

                            XVIII        

«Di quel frutto non àb[b ]ero conti né cabalieri;

molto lo dis'ia[ro]no marchesi e justizieri,

avere no'nde pòttero: gir' onde molto feri.

Intendi bene ciò che bol[io] dire?

men'este di mill'onze lo tuo abere.»

 

                            XIX

«Molti so' li garofani, ma non che salma 'nd'ài:

bella, non dispregiàremi s'avanti non m'assai.

Se vento è in proda e gìrasi e giungeti a le prai,

arimembrare t'ao  [e]ste parole,

ca de[n]tr'a 'sta animella assai mi dole.»

 

                               XX

«Macara se dolè[s]eti che cadesse angosciato:

la gente ci cor[r]es[s]oro da traverso e da llato;

tut[t]'a meve dicessono: ' Acor[r] esto malnato'!

Non ti degnara porgere la mano

per quanto avere ha 'l papa e lo soldano. »

 

                             XXI

«Deo lo volesse, vìtama, te fosse morto in casa!

L'arma n'anderia cònsola, ca dì e notte pantasa.

La jente ti chiamàrano: 'Oi perjura malvasa,

c'ha' morto l'omo in càsata, traìta!'

Sanz'on[n]i colpo lèvimi la vita.»

 

                             XXII

«Se tu no levi e va'tine co la maladizione,

li frati miei ti trovano dentro chissa magione.

[...] be.llo mi sof[f]ero pérdici la persone

 ca meve se' venuto a sormontare;

parente néd amico non t'ha aitare.»

 

                             XXIII

«A meve non aìtano amici né parenti:

istrani' mi so', càrama, enfra esta bona jente.

Or fa un anno, vìtama, che 'ntrata mi se' ['n] mente.

Di canno ti vististi lo maiuto,

bella, da quello jorno so' feruto.»

 

                             XXIV        

«Di tanno 'namoràstiti, [tu] Iuda lo traìto,

como se fosse porpore, iscarlato o sciamito?

S'a le Va[n]gele jùrimi che mi si' a marito,

avere me non pòter'a esto monno:

avanti in mare [j]ìt[t]omi al perfonno.»

 

                            XXV

«Se tu nel mare gìt[t]iti, donna cortese e fina,

dereto mi ti mìsera per tut[t]a la marina,

[e da] poi c'anegàs[s]eti, trobàrati a la rena

solo per questa cosa adimpretare:

conteco m'ajo a[g]giungere a pec[c]are.»

 

                           XXVI

Segnomi in Patre e 'n Filio ed i[n] santo Mat[t]eo:

so ca non ce' tu retico [o] figlio di giudeo,

e cotale parabole non udi' dire anch'eo.

Morta si [è] la femina a lo 'ntutto,

pèrdeci lo saboro e lo disdotto.»

 

                          XXVII

«Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare.

Se quisso non arcòmplimi, làssone lo cantare.

Fallo, mia donna, plàzzati, ché bene lo puoi fare.

Ancora tu no m'ami, molto t'amo,

sì m'hai preso come lo pesce a l'amo.»

 

                          XXVIII

«Sazzo che m'ami, [e] àmoti di core paladino.

Lèvati suso e vatene, tornaci a lo matino.

Se ciò che dico fàcemi, di bon cor t'amo e fino.

Quisso t'[ad]imprometto sanza faglia:

te' la mia fede che m'hai in tua baglia.»

 

                           XXIX

«Per zo che dici, càrama, neiente non mi movo.

manti pren[n]i e scànnami: tolli esto cortel novo

Esto fatto far pòtesi inanti scalfi un uovo.

Arcompli mi' talento, [a]mica bella,

ché l'arma co lo core mi si 'nfella.»

 

                           XXX

«Ben sazzo, l'arma dòleti, com'omo ch'ave arsura.

Esto fatto non pòtesi per null' altra misura:

se non ha' le Vangel[i]e, che mo ti dico 'jura',

avere me non puoi in tua podesta;

inanti pren[n]i e tagliami la testa.»

 

                          XXXI 

«Le Vangel[i]e, càrama? ch'io le porto in seno:

a lo mostero présile (non ci era lo patrino).

Sovr' esto libro jùroti mai non ti vegno meno.

Arcompli mi' talento in caritate,

ché l'arma me ne sta in sut[t]ilitate.»

 

                         XXXII

«Meo sire, poi juràstimi, eo tut[t]a quanta incenno.

Sono a la tua presenz[i]a, da voi non mi difenno.

S'eo minespreso àjoti, merzé, a voi m'arenno.

A lo letto ne gimo a la bon' ora,

ché chissa cosa n'è data in ventura.»


(1) In questa strofa l'autore si riferisce con ironia ad una legge emanata da Federico II nell'ambito di alcune norme dettate in favore delle donne. In particolare la disposizione stabiliva che una donna molestata non fosse obbligata ad un matrimonio riparatore (che in pratica, poteva ritenersi una condanna anche per la donna oltraggiata), ma doveva essere punito solo il molestatore col pagamento di un'ammenda. Lodevole iniziativa quella dell'Imperatore, dettata certamente da buone intenzioni e da una mentalità aperta e moderna, ma, di fatto, si rivelò una sorta di immunità per i cattivi soggetti, specie quelli abbienti. Essi potevano permettersi di pagare senza che la cosa pesasse sulle loro finanze, o, meglio, grazie alla loro influenza e potere, riuscivano a non farsi comminare neppure la multa.


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