Una premessa necessaria
L’altro giorno (11 aprile 2012), i giornali locali hanno sbattuto in
prima pagina la notizia dell’arresto, a Porto Empedocle, di un
pericoloso latitante scovato dai carabinieri, dopo dieci mesi di
ricerche anche all’estero, dentro un’intercapedine della propria
abitazione. Come dire: il ricercato non si era mai allontanato da
casa sua. Succede. E successo tante volte. Specie con i grandi
latitanti di mafia, di camorra. Perciò uno si aspetta di vedere
uscire un pericoloso boss della criminalità organizzata.
Invece… Invece, è uscito Armandino Lo Cascio, resosi latitante a
seguito di una condanna per “stalking” ossia per molestie a danno di
una signora.
Sconoscendo i termini della triste vicenda, non desidero entrare nel
merito delle inchieste e dei relativi processi, confidando, fino a
prova contraria, nell’operato delle forze dell’ordine e nell’oculato
giudizio della magistratura.
Tuttavia, confesso che mi risulta problematico vedere nei panni di
un molestatore maniacale quel ragazzino, esile e un po’ introverso,
che conobbi, a metà degli anni ’50, come figlio e collaboratore
dell’uomo che ha portato il cinema a Joppolo Giancaxio, il mio
paese.
Ovviamente, tale pregio non lo assolve per gli eventuali errori
commessi in anni successivi. D’altronde, fra la vicenda attuale (di
cui è vittima una signora per bene) e i suoi trascorsi joppolesi non
c’è alcun legame. Se li ricordo, è solo per il loro valore umano,
evocativo e anche per dire quali contorti percorsi può imboccare la
vita di ognuno. Ciò che mi preme evidenziare è l’apporto culturale
che, mediante il cinema, la famiglia Lo Cascio ha dato alla grama
realtà del paesino.
Il cinema, infatti, dischiuse le porte di un mondo a noi ignoto,
affascinante che si svolgeva sul filo della realtà e della fantasia.
Perciò, sono andato a rispolverare l’appunto seguente che pubblico,
in forma ancora grezza, sul mio blog: Montefamoso. blog spot.com
1. Incrocio il signor Gianni
mentre scende per via Atenea, sottobraccio alla moglie, signora
Tanina. Li rivedo dopo tanti anni. Sono due vecchietti ancora
arzilli, figli di un’altra epoca.
La nostra generazione, la prima del secondo dopoguerra, visse a
cavallo fra l’epoca passata e quella da poco iniziata, fra un’Italia
contadina, provinciale e fascista, e un’Italia democratica del
miracolo economico, della scuola media e delle comunicazioni di
massa. Nel fervore di quegli anni, molti, i più anziani, rimasero al
di qua di tale linea, i più giovani tentarono di oltrepassarla,
anche cercando all’estero una soluzione di vita. Anche nei borghi di
campagna giunsero, per quanto lenti e sfigurati, gli echi e i
rudimenti della vita nuova.
Il cinema, per esempio, di cui ci occuperemo in questo scritto,
arrivò a Joppolo Giancaxio nel 1954, a sessant’anni circa dalla sua
invenzione da parte dei fratelli Lumiere.
Anch’esso attirato dal benessere improvviso creato dalla presenza
degli americani della Gulf Oil Company che cercavano “l’oro nero”
nelle viscere argillose di Montefamoso. Ricordo quel biennio in cui
ci siamo illusi. Ci fu lavoro per tutti e, per la prima volta, i
nostri contadini videro la busta-paga. Con i salari arrivarono le
radio e i giradischi e quindi la musica moderna, l’allegria, e le
notizie di fatti lontani. Il petrolio attirò cantastorie,
illusionisti e imbonitori di sogni e di colorate mercanzie.
Scene da “nuova frontiera” che presto svaniranno perché sotto
Montefamoso non si trovò petrolio ma un fiume d’acqua amara. Certo,
fu solo un miraggio ma ci fece vivere la nostra porzione di
felicità.
2. Il cinema lo portò il signor
Gianni Lo Cascio da Palermo. Giunse un pomeriggio di settembre a
bordo un camioncino, pluridecorato di madonne e cavalieri saraceni,
che trasportava, stipata in cabina, una famigliola bionda e un
ammasso di mobili, masserizie e una vespa grigia. Erano il signor
Gianni e la moglie Tanina e i loro due bambini: Armando, esile e un
po’ introverso, e Franco, il suo contrario, paffutello ed espansivo.
Stavamo giocando in piazza, a piedi nudi, con una palla di pezza e
subito corremmo a curiosare intorno al camioncino dal quale
scaricarono, per ultima, una cassa grande di faggio bianco che
trattavano con molta cura come se contenesse la reliquia di un
santo.
Per frenare la nostra invadente curiosità, il signor Gianni ci svelò
l’arcano: nella cassa c’era il “cinema” ossia l’attrezzatura per
impiantare il cinematografo.
“Vi abbiamo portato il cinema, la settima arte”-
esclamò. “Una cosa mai vista a Giancaxio! ”.
Quanto tempo è passato! I giochi, gli amori, la gente, i volti, i
nomi, i soprannomi, i paesi… tutto sbiadito, svanito. Solo immagini
sfocate, figure incerte che identifichi da quel che sono stati.
Per me, i Lo Cascio sono il cinema e null’altro. Soprattutto il
signor Gianni, l’operatore, non riesco ad immaginarlo in altra
veste. È l’uomo delle meraviglie, colui che ha portato il cinema a
Giancaxio.
Oggi, quella sala, ricavata da un magazzino, non esiste più. È stata
demolita, col resto della casa dove la famigliola prese alloggio,
per creare un passaggio verso alcuni terreni edificabili altrimenti
inaccessibili. Uno sventramento che qualche buontempone del Comune
ha osato chiamare via Empedocle.
Forse per stabilire una colleganza impropria col famoso “vallo” che
il filosofo fece scavare sul contrafforte naturale di Akragas per
far entrare il vento di tramontana e prosciugare le paludi, a valle,
infestate dalla malaria. Nel nostro caso, è stato creato un
corridoio spoglio attraverso cui, più che gente, passa il gelido
vento di tramontana che, d’inverno, disturba il passeggio nella
piazza principale.
3. Eccoli, dunque, i due
vecchietti del nostro cinema, quello delle grandi passioni d’amore,
delle esilaranti risate delle pellicole di Totò e di Ridolini e
degli indomiti cow boy, scendere a braccetto per questo budello di
vetrine dove si riflettono i desideri insoddisfatti degli
agrigentini. Nonostante l’età avanzata, il signor Gianni è sempre
lui. Smilzo e biondo nel fisico, cortese e composto nei modi e ben
curato nel vestire: giacca e cravatta e pantaloni con la riga ben
tirata, scarpe lucide come quei radi ciuffi di capelli impomatati.
Sul viso l’unica novità degna di nota è un paio d’occhiali chiari
con la montatura in oro.
Queste poche pennellate credo che bastino per presentarvi il signor
Gianni ovvero “l’uomo delle meraviglie”. In quel borgo di braccianti
poverissimi, prima del cinema non si era visto nulla di così
eccitante. A parte la gigantesca sonda, eretta dagli americani sulla
cima di Montefamoso al centro dell’immenso cratere, che poteva
essere vista da luoghi lontani, specie di notte, quando bruciava la
sua lingua di fuoco che accendeva in noi la speranza del progresso e
della libertà.
Qualcuno la paragonò alla torre Eiffel che a Parigi attirava milioni
di turisti e a Giancaxio avrebbe attirato migliaia di tecnici e di
operai.
Quella torre era il nostro totem a cui chiedemmo un miracolo forse
troppo impegnativo: fermare l’emigrazione e far rientrare i
joppolesi sparsi per i continenti più remoti. E così, senza volerlo,
diventammo adoratori di nuovi idoli pagani e del fuoco eterno,
simili a neoadepti della religione di Zarathustra.
4. A quel tempo, a Joppolo,
quasi si sconoscevano le forme del moderno spettacolo. Si
ricordavano i saltimbanchi e i teatranti vagabondi che, di tanto in
tanto, venivano durante gli anni tristi della guerra. Non erano vere
compagnie ma famigliole d’artisti improvvisati e/o decaduti,
disperati e affamati che scappavano dalle città bombardate a cercare
rifugio nei miseri borghi dell’interno (che la guerra fortunatamente
trascurava) dove barattavano le loro prestazioni per un tozzo di
pane o per qualche uovo fresco.
Andava “forte” il vecchio varietà nel quale protagonista obbligata
era la donna tuttofare ossia la moglie del titolare, di giorno madre
professa e di notte attrice, cantante, ballerina di can can e
assistente del maldestro marito-mago che non sempre riusciva ad
incantare il pubblico. Specie quando dal cilindro il coniglio non
fuoriusciva. L’uomo la sgridava ma per finta, per giustificarsi agli
occhi dell’irrequieto pubblico. L’improvvido illusionista sapeva di
non potere illudere nessuno giacché il coniglio se l’erano mangiato
il giorno prima. Tanta era la fame!
Valletta e ballerina, talvolta, dopo lo spettacolo, si adattava a
fare qualche altro indicibile servizio. Per arrotondare. Storie di
antica miseria che la guerra aveva ingigantito.
L’unico canale di comunicazione, l’unico filo che collegava Joppolo
con il mondo erano quei quattro o cinque apparecchi radio che
gracchiavano nelle case di talune famiglie facoltose che, di fatto,
detenevano il monopolio dell’informazione. Chi possedeva una radio
si atteggiava come padrone delle notizie che selezionava,
manipolava, a suo piacimento, e centellinava nelle conversazioni al
circolo, dal barbiere o nei crocicchi in piazza. E nessuno l’avrebbe
potuto smentire.
Il cavalier Amerigo restò famoso per aver saputo amministrare il suo
“potere” mediatico con una dovizia davvero proverbiale, quasi che le
notizie le fabbricasse lui.
Di tanto in tanto, giungeva anche un cantastorie con i suoi
“lamenti” per le ingiustizie patite dal popolo silente. Solo lamenti
e pianti. Niente progresso per i siciliani, ancor meno rivoluzione.
“Munnu ha statu e munnu è”, soleva ripetere l’arciprete che
temeva qualsiasi turbamento o, peggio, mutamento delle coscienze dei
suoi parrocchiani.
Con l’arrivo della democrazia e dell’inattesa libertà (il verbo è
esatto, poiché democrazia e libertà arrivarono da fuori, non
nacquero sul posto) vi fu un po’ di confusione anche nelle
tradizioni. Taluni cantastorie giunsero a scambiare i carnefici con
le vittime.
Emblematico fu il caso del “lamento per la morte di Turiddu
Giulianu” portato in giro dal bravo Cicciu Busacca che, forse
involontariamente, contribuì ad accreditare, agli occhi dei
contadini, la favola del brigante buono anche se a Portella aveva
fatto strage di tanti di loro.
5. A Giancaxio, il cinema fu la
vera rivoluzione, poiché rompeva la cappa opprimente d’ignoranza e
di rassegnazione che, per secoli, aveva informato e nutrito la
cosiddetta “cultura contadina”. Una bella invenzione dei furbetti
dei piani alti del potere che, sotto la scorza della cultura,
brigavano, anche con le parole, con le tradizioni, per mantenere
schiavi popoli interi.
Il cinema sconquassava il vecchio mondo e ne apriva altri
sconosciuti; faceva sognare, fantasticare, viaggiare, conoscere
altre città, altra gente. C’erano i cinegiornali che illustravano il
fervore e i progressi della “ricostruzione” economica della nazione.
E poi i colossal di guerra e di storia antica, le avventure di
Zorro, di Tarzan. Il cinema, non Cristoforo Colombo, ci fece
scoprire l’America.
Soprattutto quella “bona” cioè gli Usa così detta per distinguerla
dalle altre Americhe centro-meridionali, evidentemente non buone. Le
“americanate” (western, drammoni d’amore, le comiche di Stanlio e
Ollio, i polizieschi) ambientate fra New York, Chicago e Los Angeles
ci trasportavano in mondi nuovi, scintillanti verso i quali, da
Giancaxio, molti erano partiti e altri erano pronti a partire.
Il signor Gianni proiettava quello che passava il convento ossia il
distributore di Agrigento. La signora Tanina stava alla cassa. I
prezzi dei biglietti oscillavano fra le 20 lire (adulti) e 10 (per
donne e bambini). Alle donne era concesso lo sconto per
incoraggiarne la frequentazione. Solitamente la sala era affollata
soltanto da uomini adulti e rumorosi ragazzini.
6. Rare le donne che andavano al
cinema (cinamu) e sempre in compagnia del marito o di altro intimo
congiunto. Il giorno preferito era la domenica di prima serata nella
quale il signor Gianni proponeva una pellicola rasserenante e
divertente: una comica di Totò o un drammone strappalacrime con
Rossano Brazzi, Amedeo Nazzari, Anna Magnani. I film un po’ osé o di
pura violenza li dava nei giorni feriali.
Il cinema era anche la scoperta della vamp cosciona, dei baci
appassionati, dei tradimenti… L’uomo di Giancaxio, gli stessi i
ragazzini scoprivano così una donna nuova, bella, conturbante e
disinibita che nemmeno in sogno potevano immaginare.
Sì, perché per manifestarsi anche i sogni hanno bisogno di un
modello cui ispirarsi. E nel nostro immaginario collettivo non
esisteva un modello femminile così fascinoso ed attraente. Dopo
un’ora e mezza di proiezione, si usciva dalla sala con la testa
confusa, in preda a un turbinio di ardori sessuali che non si sapeva
come, e dove, andare a sfogare.
Il cinema, insomma, ci fece scoprire un altro universo femminile da
cui si originò l’impietoso confronto fra le donne nostrane, modeste
e litigiose, e le favolose bellezze di Hollywood e di Cinecittà che
tanti dissidi ingenerò nelle famiglie.
Le mogli, sfatte dal lavoro e dalle privazioni, non capivano cosa
stesse succedendo ai loro mariti, improvvisamente, divenuti esigenti
e lamentosi. Nei suoi infuocati sermoni, il prete indicò nel cinema
la causa di tale scompiglio; quei palermitani avevano portato lo
scandalo che minava la pace e l’unità delle famiglie. Le afflitte
donne che dal cinema erano escluse non potevano, anche a volerlo,
imitare quelle vamp che turbavano i mariti, i quali, non trovando in
casa la soluzione, ripresero la via del casino ora sostituito con i
postriboli di via Gallo.
7. Nella tarda mattinata, il
signor Gianni rientrava dal capoluogo, a bordo della sua “Vespa”
grigio perla, con le “pizze” e la pubblicità.
Dopo pranzo, scendeva nella via, sorridente e speranzoso, per
esporre sulla parete esterna della sala i manifesti (uno piccolo,
l’altro formato “elefante”) inchiodati su due riquadri in faesite.
Noi attendavamo impazienti di apprendere per primi il titolo e il
cast della nuova programmazione e un po’ fantasticare sulle foto che
lasciavano intravedere le più belle avventure. Potevamo farlo
giacché noi, ragazzini delle elementari, eravamo il primo pubblico
che sapeva leggere e un po’ anche scrivere.
Ogni sera un nuovo titolo. Solo il sabato e la domenica il signor
Gianni proponeva la stessa pellicola; solitamente un colossal o un
molto lacrimevole drammone che attiravano le famiglie al gran
completo. Ci premeva sapere i nomi del cast, soprattutto “u
picciottu” (il protagonista maschile) e “a picciotta” (la
protagonista femminile), per informarne i “grandi” al loro rientro
dalla campagna. La domanda era sempre uguale: “Chi cinamu fannu
stasira? Cu ci travaglia?…”
Con il verbo “travagliari” i nostri contadini equiparavano il ruolo
dei protagonisti di quelle scintillanti pellicole al loro lavoro
ingrato e massacrante. Il nome del “picciottu” era evidenziato sul
manifesto a caratteri cubitali e con una foto, perciò era agevole
individuarlo. Qualche problema insorgeva quando nel film c’era un
co-protagonista.
Chiariva tutto il signor Gianni in persona il quale s' improvvisava
critico cinematografico e ci propinava, nella sua gradevole parlata
palermitana, commenti sempre positivi ed invitanti: “Una
cannonata, ragazzi! Ditelo a casa, mi raccomando!”
A quei tempi, nonostante fosse stata sperimentata la terrificante
bomba atomica, era ancora il cannone l’arma più potente. E, dunque,
cannonate a destra e a manca.
8. Tiravano assai i film di
guerra, di battaglie memorabili e crudeli, di stragi fra bande di
gangster, di pistoleri, di pugni e ossa spezzate. Insomma, sangue a
fiumi e prepotenze a volontà per le nostri menti sgomenti e
divertite. Le “sparatine” divennero così familiari che la gente
scambiò per western l’unica sparatoria (vera) svoltasi nella piazza
del paese. C’era un uomo a terra crivellato, ma tutti pensarono
all’intrepido John Wayne, ai “coiboi” del signor Lo Cascio.
Alcuni attori interpretavano ruoli fissi pertanto era facile
prevederne le azioni e gli esiti. Amedeo Nazzari era sempre l’eroe
positivo, Paul Muller quasi sempre l’odiato “traditore”. Sì, perché
nel film ci dovevano essere, e quasi sempre c’erano, uno o più eroi
e un “traditore”, come nella vita reale o immaginata.
I personaggi del cinema entrarono nella nostra vita, nel nostro
immaginario. Ognuno s’identificava con il suo attore preferito e ne
imitava le gesta anche le più spericolate. Si restava incantati
davanti all’abilità del “picciottu” che scalava la ripida parete di
un castello, di una roccia a strapiombo sul mare. Nessuno ci aveva
informato che nella rischiosa scena l’attore era sostituito da uno
stuntman.
A furia d’imitare, nasceva l’atteggiamento. Si finiva per far parte
di un catalogo umano che si definiva secondo i ruoli cinematografici
prediletti. Per indicare un giovane aitante, coraggioso si diceva “uno
spadaccino di Francia, un moschettiere”; un uomo forzuto era
“Ursus” o “Ercole”. E poi tanti “Carnera”, “coboi”.
Rossano Brazzi, tombeur des femmes, era l’idolo da tutti
amato e anche un po’ invidiato.
In genere, il film non finiva in sala, con quell’amaro “the end”, ma
si replicava fuori, nei giorni seguenti. Le pellicole avevano,
infatti, una coda che si allungava fin dentro le botteghe del sarto,
del barbiere, del sellaio e così via. Nelle piovose serate
d’inverno, in questi luoghi privilegiati della socialità si
raccontava, si commentava il film della sera prima, a beneficio di
quelli che non l’avevano veduto.
Chiodo scaccia chiodo. Così il cinema stava progressivamente
sostituendo, anche dentro le botteghe artigiane, il ruolo dei poeti
dialettali e degli affabulatori, le loro improvvisazioni e le
schermaglie poetiche, i loro lenti racconti di guerra e
d’emigrazione.
Un esercizio collaterale nel quale ognuno re-interpretava le
sceneggiature secondo il suo personale temperamento, adattandole
alle circostanze e all’uditorio. Si enfatizzavano le azioni più
cruente per impressionare, col sangue, le menti dei più semplici o
le spacconate più stupide per suscitare ilarità. Nelle scene d’amore
scattava una sorta di autocensura. Per intrinseco pudore e per non
scandalizzare i ragazzini. Allo scabroso episodio solo un accenno,
lasciando all’ascoltatore la facoltà d’interpretarlo, d’immaginarlo.
Le trame dei film più innocui erano raccontate anche in casa, ai
piccoli e alle donne, usando tutti gli accorgimenti per non turbare
le loro menti impreparate. Insomma, la pellicola continuava a
girare, a essere “proiettata” negli anfratti più reconditi del
borgo. Così, i personaggi del cinema divennero popolari, noti anche
a chi non li aveva mai visti recitare.
Nulla si sapeva dei sentimenti delle donne. Le poche che andavano al
cinema non potevano esternarli in pubblico, poiché l’identificazione
con un’attrice famosa le avrebbe bollate come donne di facili
costumi. E addio matrimonio.
9. Per tanti di noi, soprattutto
ragazzini e giovani, il cinema era diventato un bisogno necessario,
come il pane e l’acqua. Non volevamo perdere una pellicola. Ogni
sera lo stesso problema: trovare le venti lire del biglietto o
qualcosa di sostitutivo da barattare. Facevamo salti mortali per
racimolare la fatidica cifra, ma non sempre gli sforzi erano
coronati dal successo. Si piativa in casa presso le madri che,
poverette, non potevano. Indi si andava dalle zie, dalle nonne e
qualcosa si grattava. In casi estremi, si ricorreva anche a vendite
clandestine di prodotti sottratti dal magazzino familiare: un chilo
di grano o di fave, una pettorinata di candido e morbido cotone.
L’assalto non risparmiava nemmeno la cucina dove, ogni tanto,
spariva un pentolino di rame o d’alluminio che vendevamo, per poche
lire, a mastru Caliddru, il rigattiere, che vivacchiava di questi
miserabili commerci. Talvolta, anche un uovo si poteva barattare per
un biglietto d’entrata, però solo a proiezione iniziata. La signora
Tanina era severa, difficilmente s’inteneriva.
Dall’abbaino della proiezione, il signor Gianni osservava la scena
con preoccupazione giacché temeva che il rifiuto della moglie
avrebbe indotto i suoi giovani clienti a riversarsi al cinema
improvvisato e casto dell’oratorio. Sì, perché il prete, temendo che
i suoi parrocchiani, specie quelle ciurme di bambini, si avviassero
sulla via della perdizione, aveva comprato, in quattro e
quattr’otto, un proiettore e ogni sera dava un film delle Paoline.
L’entrata era gratis, per tutti quelli che frequentavano
regolarmente il catechismo.
Nonostante la pelosa gratuità, pochi guardavano le pellicole
dell’arciprete: troppo caste e noiose. L’oratorio era dirimpetto al
cinema del signor Gianni, a poco più di 50 metri. Le due sale si
fronteggiavano, si sfidavano all’ultimo spettatore.
Ogni sera, la stessa scena, la stessa attesa. Il prete si rodeva il
fegato nel vedere quei ragazzini dietro la porta della “palermitana”
che imploravano per farsi ammettere in quel postribolo. Non aveva
dubbi: il cinema è un’arte malefica, sovvertitrice che devia e
corrompe la gioventù ed anche quegli zoticoni con i piedi incretati.
Il cinema, con tutte quelle bagasce in celluloide, stava svuotando
le chiese.
Prima di dare il via alla proiezione, il prete attendeva l’esito
delle nostre trattative con la signora. Sperando che qualcuno,
indignato, tornasse nella casa del Signore. Ma solo raramente questo
accadeva.
10. D’altra parte, il signor
Gianni, più tenero di cuore o forse più calcolatore della moglie,
pensava che “Ogni lassatu è pirduto” e che conveniva prendere
quel poco che i ragazzini offrivano. “State boni e muti, ci parlo
io con la signora”. Quella, gelosa del suo ruolo, non amava che
il marito s’intromettesse negli affari di cassa. Anche perché era
convinta che con i suoi rifiuti avrebbe insegnato a quei piccoli
villani le buone maniere, fra le quali quella di pagare il biglietto
per intero.
La signora veniva dalla capitale e mal sopportava quella baraonda di
petulanti dietro la porta. “Signù, signù mi fa trasiri cu deci
liri? Dumani ci portu u restu. Signù mi fa trasiri cu du ova? Sono
frischi, frischi, di stamatina.”
Ogni sera la stessa litania. Non ne poteva più e ci scaricava una
sequela di colorite parolacce palermitane che, certo, non esaltava
la sua signorilità. Alla fine, quasi sempre, la porta si apriva e
correvamo a sederci per terra, davanti le prime file.
Qualche volta, la cassiera s’impuntava e non ci ammetteva nella
sala. Per noi, era questo il lato più triste del cinema. L’ultima
speranza era affidata al sopraggiungere di un parente ritardatario,
stracarico di pruviglia (cipria) e brillantina, che t’interrogava:
“A tia chi fa ccà?”. Lo intuiva ma gli piaceva umiliarti per,
poi, accoglierti fra le spire della sua magnanimità.
“Nenti, mi mancanu cincu liri”
“Veni ccà, veni cu mia ca ti fazzu trasiri”.
Correvi verso di lui, cogli occhi bassi come un cane bastonato, ma
intimamente rinfrancato perché sapevi saresti entrato. Poteva
capitare, addirittura, che ti offrisse il biglietto interamente a
sue spese e così ti restavano in saccoccia le lirette per una
gassosa che vendeva Bastianazzu nell’intervallo. Il film e la
bibita, era questo il massimo binomio cui poteva aspirare un
ragazzino.
Quando si restava fuori erano dolori, struggimenti. Sentivi scorrere
la pellicola, il suo fruscio tipico, le note della colonna sonora
che filtravano da sotto il portone. Una sorta di supplizio degli
esclusi. Non capivi perché non potevi esser dentro, con i tuoi amici
già sotto il telone e con cogli occhi sbarrati.
Durante la proiezione, specie nelle prime file, avvenivano le cose
più bizzarre. Gli spettatori interagivano con le diverse scene.
C’era chi, atterrito, serrava gli occhi per non assistere al truce
assassinio e pregava il vicino di avvisarlo quando il cadavere
sarebbe sparito; chi si esaltava all’”arrivo dei nostri”,
solitamente la cavalleria, e scoppiava in un urlo liberatorio più
forte di quello degli assediati nel fortino; chi si lasciava
trasportare dalla passione d’amore dei protagonisti e l’accompagnava
con un movimento frenetico della mano…
C’erano anche quelli che, per protestare contro una soperchieria
cinematografica, tiravano, all’urbina (da orbo), un fiotto di saliva
contro gli spettatori che provocava le urla inferocite del
malcapitato. Anche questo era il cinema, a Giancaxio. Una copia di
quello che abbiamo visto in “Nuovo cinema Paradiso”, il
bellissimo film di Giuseppe Tornatore. *
11. L’esercizio andava bene. La
sala era quasi sempre piena. La famigliola del signor Lo Cascio
crebbe di numero. I ragazzi presto s’integrarono a scuola e nel
paese. Li vedevamo con una punta d’invidia perché non dovevano
pagare il biglietto d’entrata e perché figli del “cinema” ossia del
signor Gianni che per noi era il cinema in persona.
Qualche problema cominciò ad avvistarsi agli inizi degli anni ’60,
con l’avvento della televisione che a Giancaxio fece il suo timido
ingresso nelle case dei pochi benestanti e di qualche impiegato, che
comprava a rate. Chi non poteva permettersi un televisore andava dai
parenti o dai vicini, dove si entrava senza biglietto e senza uova.
Soprattutto il sabato e la domenica sera c’erano sempre un programma
di canzoni o uno sceneggiato che incatenava gli spettatori per mesi
e mesi.
Per altro, i programmi della Tv erano rassicuranti per grandi e
piccini. Non potevano esserci sgradite sorprese. Così, anche le
donne poterono accedere allo spettacolo, furono ammesse alla platea
televisiva. La Tv provocò una sorta di rivoluzione culturale di
massa.
Con la diffusione del televisore (anni ’70) per il cinema iniziarono
i veri problemi, specie per le sale di campagna. La crisi bussava
alle porte. Tuttavia, il geometra Lari non udì il suo impeto,
sommesso ma inesorabile, e decise di aprire un' altra sala giù al
Castello.
Un “signor cinema”- si vantava Lari- a due piani: sotto
un’ampia platea popolare con sedie di ferro fissate al pavimento per
evitare che fossero usate come “corpi contundenti” durante le
frequenti risse, e sopra una comoda tribuna, dotata di poltrone di
legno, per le famiglie benestanti.
La pubblicità era eloquente e polemica: “Finalmente un vero
cinema a Giancaxio: il cinema Castello. Spettacoli per grandi e
piccini”.
Il signor Gianni, indignato per quella pubblicità sleale e
supponente, rispose con forti sconti e con una programmazione più
vivace, talvolta, addirittura, osé. La signora Tanina malediceva, da
mattina a notte fonda, quel geometra e il prete che lo finanziava.
Fra i due locali si scatenò una spietata concorrenza, senza rendersi
conto che il vero nemico comune era quella scatola magica che
entrando nelle case stava svuotando le sale. Nel giro di un paio
d’anni, chiusero entrambi. Così finì la breve storia del “cinema” a
Giancaxio. Sono passati quasi sessant’anni e nessuno l’ha più
resuscitato.
Per il signor Gianni fu un vero dramma: rimase senza lavoro e con
una famiglia numerosa a carico. Fu costretto a cambiare mestiere e
ad abbandonare il paese, definitivamente. Solo la signora Tanina,
che più lo disprezzava, vi è tornata. Da morta però. Perché ad
Agrigento non si trovò per lei una confacente sepoltura.
Agostino Spataro
A proposito del film del premio Oscar di Bagheria mi resta una
piccola curiosità. Il paese non tanto immaginario (Palazzo Adriano)
di Tornatore si chiama Giancaldo, mentre il nostro di chiama
Giancaxio ed è l’unico, in Sicilia, che può vantare una quasi
omonimia, una somiglianza che va ben oltre la comune radice.
Differiscono, infatti, soltanto le tre lettere finali (xio e ldo).
Domanda: Tornatore ha inventato il suo Giancaldo partendo dal nome
Giancaxio?
Ovviamente, qualunque dovesse essere la risposta, non cambierebbe
nulla. La mia è solo una curiosità di cittadino.
Agostino Spataro
Joppolo Giancaxio, 15 aprile 2012
Articolo
inviato dall'autore al Portale del Sud nel mese di aprile 2012 |