Le pagine della cultura

 

Due Storie

di Umberto Caluri

Vincenzo Gemito. Napoli, museo Pignatelli

 

Mai, ci si era abituata. A quell'afrore rancido. A quel tanfo di corpo sudicio. A quell'odore di stoffa ruvida e lercia, Al puzzo del sudore della suora della camerata, quella che, con occhi aguzzi e maligni, osservava lei e le altre bambine quando si spogliavano per andare a dormire. E nella luce grigia della camerata, quando la suora della notte scivolava silenziosa accanto ai letti, sorvegliando che non ci fossero movimenti sospetti sotto le lenzuola, l'aveva odiata. Come aveva odiato il risveglio triste, quel caffellatte grigio e quel pane avaro, triste promessa del pranzo insipido che le sarebbe stato proposto. Non mi piace, aveva detto qualche volta. Mangia, devi fare un fioretto a Gesù. O alla madonna. Ma perché poi doveva fare un fioretto. E cos'era un fioretto. Una punizione che si doveva amare, secondo quelle troie di suore. Oddio l'aveva pensata quella parola. Come confessarla? Ma vai, non c'è più il padre confessore. Quello al quale dovevi dire tutti i peccati che avevi fatto – no- che avevi pensato di poter fare. E l'ansia di quella domanda, inevitabile: hai commesso atti impuri? Che la metteva sempre in imbarazzo. Sempre aveva detto che lei, quelle cose non le faceva, a quella figura di prete. Lo aveva sempre ingannato. E non sapeva invece che il prete lo sapeva benissimo. E che, magari, una erezione l'aveva, quando formulava la domanda. E lei sapeva appena, si e no, cos'era l'erezione. Se ne favoleggiava, nei rari momenti di confidenza con le altre. E ora stava abbandonando tutto questo, la coperta arida della sua costrizione. Nulla c'era da rimpiangere, di quell'edificio triste e cupo, nel quale stava intristendo la sua pubertà, mentre fuori gli odori, i sapori e la luce accecante della Calabria la invitavano ad inebriarsi di loro. Ma non si poteva. Per via del fioretto alla madonna. Ciononostante un'ansia sottile c'era. Si c'era. Si voltò indietro e mentalmente sputò contro quel greve macigno schifoso che le aveva nascosto e rubato gli anni e i mesi dell'infanzia, che sono i più lunghi della vita. Che ne sarà di me? Che ne sarà di noi? La domanda l'avrebbe inseguita per tutta la vita. Ma erano state le oscure presenze evocate dalle suore a marchiare a fuoco la sua mente. Suore che però erano state una delle poche certezze della sua giovane vita. E adesso non c'erano neppure quelle. Una nuova enigmatica presenza s'avanzava. La nuova donna del padre. Quella che avrebbe dovuto sostituire la figura della mamma, che non c'era più, e per la quale, a causa della sua scomparsa, ne era derivata la reclusione. Chi era? Ed eccolo, il paese, il suo paese. Un paese, come ce ne sono molti sulla costa del Tirreno, diviso in due: la “marina” e il “paese”. La “marina proiettata verso il mare, il “paese” arroccato in se stesso, protetto, chiuso, là sulla collina. E la gente ripeteva questi caratteri: aperta, solare o chiusa, ombrosa. Il borgo marinaro era costituito da una fila di piccole case, coi muri ingrigiti e scrostati dalla salsedine, i portoncini azzurri. Fili tirati da un balcone all’altro creavano una parata di bucato steso al sole. Per la strada polverosa, un tempo neanche asfaltata, erano “parcheggiate” sui paranchi, le barche, appena più grandi di un guscio di noce, utilizzate per la pesca locale. Quante storie aveva sentito raccontare, da bambina, sui pescatori che sfidavano il mare, nelle notti di tempesta. E, separata appena da un muricciolo, c’era la spiaggia dove, nei pomeriggi di ogni stagione, i pescatori riparavano le reti e i bambini giocavano, confondendo le loro grida con gli stridii dei gabbiani che volavano radenti le onde. Il “paese” era davvero un piccolo presepe: le case erano talmente addossate le une alle altre che le vie erano poco più di un sentiero e il sole riusciva a penetrare nell’odore di muffa e piscio di gatti solo quando era alto nel cielo. E tuttavia le case, più vecchie di quelle della “marina”, conservavano l’idea di un’antica nobiltà. Tale era riservatezza dei “paesani” che potevi attraversare l’abitato senza incontrare anima, quasi un paese di fantasmi. Sul punto più alto, un terrazzo, la piazza della chiesa. Nelle notti serene le stelle erano lì, appese al nero profondo, poco più in alto del campanile. E i giorni, tuffati nell'oro dei profumi, dei fiori, E le notti, e le stelle cadenti che sfrecciavano per ogni dove. Le barche oscillanti, nell'onda spumosa, e gli uomini forti. Venne anche il tempo dell'amore baldo dell'adolescenza, degli ormoni fluenti, delle pene d'amore lancinanti; un presagio del tempo che sarebbe venuto. E la scuola. Era adolescente, ora. Sapeva, confusamente che c'era del ribellismo, a giro. Sapeva che c'erano tanti giovani, in tanti posti del mondo che volevano.. Già, cosa volevano? Buttare all'aria un mondo ingiusto, fin qui ci arrivava. E dopo? E non sapeva che un paio di generazioni sarebbero riuscite, sì, a buttare all'aria un ordine ingiusto, senza assolutamente avere la minima idea di cosa fosse un ordine giusto. Si disse, di loro, con verità, che non sapevano cosa volevano, ma lo volevano subito. Tutto e subito. Anche lei, ribelle di natura, voleva tutto e subito. Ma non sapeva cosa voleva. Gli anni della scuola, del Liceo, vissuti intensamente. E gli uomini, i ragazzi, le avventure, il sesso giocoso. Cresceva però l'insofferenza, verso un mondo che le prometteva solo una vita brulla, confinata in un ruolo di femmina sottomessa agli usi del sud. Che lei non perdonava e rifiutava. Alla prima occasione se ne sarebbe andata. Scorrevano lenti quei giorni, scanditi dai litigi con la figura familiare che aveva sostituito quella della madre. Su quel treno che la portava verso una città del Nord, viaggiavano con lei le speranze e le ansie di una generazione intera. E alla fine scese, quella ragazza bella e sensuale del Sud. Preda. E cacciatrice. Subito, gli uomini. La nebbia, al contempo minaccia e riparo. E quel sesso che era sempre stato una componente essenziale del suo farsi donna, farsi persona. Quel sesso voluto, goduto e talvolta, in seguito, storpiato. Un matrimonio forzato e costruito in modo artificioso, proprio come quello di un altro uomo, che avrebbe conosciuto alla fine di questa storia. Pigmalione alla rovescia. E poi, feroce e imparziale come solo il destino sa essere, la tragedia. In una notte d'ospedale nasceva una bambina che mai avrebbe potuto essere guardata come era, e sarebbe stata, guardata la madre, e moriva un matrimonio. Cominciava la Via Dolorosa. In fondo, lo temeva, il Calvario. La crocifissione. Che arrivò, quasi per caso. Non ad un dolore. Peggio: ad un amore. Le sembrò un risarcimento danni ed era la somma dei danni. Le sembrò l'unica cosa bella che la vita le potesse ancora riservare, una via di scampo alla quotidiana sofferenza. Perchè uno dei bracci della croce alla quale era inchiodata era il dolore di una vita familiare straziata, contorta. Come accadeva agli appesi alla forca, giunse il colpo di lancia nel costato. L'amore, al quale era stata crocifissa, di dileguava nell'ombra, lasciandole l'onta di un cuore stuprato. E adesso non c'era più nulla. Solo maree di dolore, che si rinnovavano ogni minuto, ogni passo. Onde di dolore liquido che inghiottiva ad ogni respiro. Che la soffocavano. Un turbine di nera disperazione, un vortice di smarrimento. Buio assoluto, e nemmeno un cerino in tasca. De nihilo tenebrisque. Il nulla e le tenebre.

Per noia, per stanchezza, per curiosità, aveva iniziato a navigare nel web. Con moderato interesse, leggeva i commenti, su fatti sociali e di politica. Uno, le piacque. Cliccò un “mi piace” Era il commento, sarcastico, di un tizio con la barba, con un lieve sorriso tra l'ironico e l'intrigante. Finì lì, per quella sera. Lo trovò ancora, il tipo con la barba. Commentava sapidamente. E lei approvava. Fu chiesto il contatto. Concesso. Lui scriveva. Glielo disse e le chiese se voleva dei racconti, di politica, di etica, umoristici. Che furono inviati. Scriveva bene quel tipo. Divertente. Poi, un lungo intervallo. Talvolta, commentava qualche suo scritto. Ma si ritrovarono. Una sera nella chat si esploravano vicendevolmente. Così, quasi per caso, lei disse della sua bambina. Svenuto?, chiese, vedendo che il tizio non rispondeva. E non sapeva che il poveraccio stava scrivendo, a velocità folle, la storia delle sue sventure, che gli avrebbe elencato quella sera e rovesciato addosso nei giorni successivi. Più gravi delle sue. Era un rapporto strano, quello che si era venuto a creare tra di loro. Che aveva cominciato ad occupare anche un po' del suo tempo e dei suoi pensieri. E un po' di tempo e di pensieri da parte di lui. Vennero anche le telefonate. Tante. E la posta, quasi quotidianamente. Si raccontarono, si scrissero, si scambiarono notizie così intime che nessuno dei due aveva mai raccontato ad anima viva e mai più avrebbero raccontato. Condividendo il dolore, i ricordi, i rimorsi, si liberavano poco a poco, pian piano, dei fantasmi e degli incubi di un passato troppo brutto per essere sopportato in solitudine. E il disvelarsi delle proprie sofferenze, le elideva. Volavano veloci, le dita di lui sulla tastiera, come polpastrelli che avrebbero voluto esplorare il corpo di lei, il suo viso, i suoi capelli, la sua bocca. Una sensazione quasi erotica. Fatalmente, e lo avevano capito entrambi, arrivò quel “ti voglio bene” già insito nelle cose. Un “ti voglio bene” già detto ad altra donna, in altra occasione, con conseguenze perigliose, da parte di lui. Detto con timore, ma anche sentito. “La sventurata rispose”. Si incontrarono. Pranzarono in un ristorante lungo un fiume azzurro. Un errore. Lui si sorprese a ricordare un altro fiume, altri momenti passati con l'altra. E non scoccò la scintilla del contatto. Neppure i baci che ci furono accesero alcunché. E un bacio è più coinvolgente di un rapporto sessuale. Lei, gli ricordava una antica relazione precedente. Ma in qualche modo si vollero bene. Confessioni liberatorie. Si aiutarono anche. Lei cresceva. E infine decisero di scrivere una storia. Questa. Sensazione strana, quella di scrivere una storia che era anche la fine della storia stessa. Come un impiccando che intreccia la corda con la quale verrà appeso. E il tempo ora ruggiva. Ma lui aveva promesso di finirla, la storia, e lui manteneva. Sempre. E adesso siamo davvero alla fine. Ora lei era cresciuta, era più libera e più forte. Lui la spinse dolcemente fuori del nido dove si era riparata per tanto tempo, in quel ginepraio che era stato la sua vita, rondine venuta dal sud. Come un uccellino che tenta il primo volo, aprì le ali che credeva tarpate, buone solo per proteggere la sua piccola rondinella malata, e si slanciò. Nella nebbia, ancora; ma verso l'alto. Volava. Si volse, e lui non c'era più. Era già un ricordo. I ricordi non dicono addio, ai ricordi non si dice addio, i ricordi non conoscono la parola fine. Lei ebbe un piccolo brivido e continuò il suo volo, nell'azzurro ora, perché la nebbia, che aveva forato, si stava dissipando in bianca lanugine, sotto il sole di Lombardia, preso a prestito da quello della Calabria. Ne aveva fatta di strada quell'uccellino tenero. Aveva ricevuto tanti graffi profondi, in quel ginepraio. Ma stavano guarendo. Un frullo d'ali. Adesso sapeva di poter volare di nuovo. Poteva essere ancora felice, si.


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