Le Pagine di Storia

Federico II di Svevia

La presenza in Calabria ed alcune considerazioni sull’operato dell’imperatore

di Francesco Rizza

Dal Rotulo dell'Exultet

Federico imperatore

Era il 22 novembre del 1220 quando nella Basilica di San Pietro a Roma, Onorio III incoronava imperatore Federico II di Svevia. Si trattava di una concessione straordinaria che il sommo Pontefice attribuiva al "Puer Apuliae" (“Puer Siciliae”) non trasferibile agli eredi, in cambio della quale Onorio III aveva avuto rassicurazioni relativamente alla partecipazione di Federico di Svevia alle Crociate per la riconquista di Gerusalemme. Proprio tale incoronazione focalizza l’attenzione degli storici sul complicato rapporto fra lo stesso Federico di Svevia ed il Papato. Evidentemente, per il tempo in cui l’avvenimento è inserito, è facile immaginare che per chi volesse fare politica a certi livelli fosse davvero difficile prescindere dal rapporto con lo stesso Papato, ma riteniamo di non aggiungere nulla di nuovo alla storiografia dicendo che il rapporto fra Federico di Svevia e la Chiesa del suo tempo andarono ben oltre alla “Real Politik”. Ciò nonostante una certa storiografia abbia voluto nei secoli strumentalizzare le criticità fra la Chiesa e l’Imperatore svevo che, mentre da alcuni veniva descritto come “l’imperatore dei preti”, secondo altri era addirittura l’Anticristo vissuto ben oltre la sua morte ufficiale dopo la quale si sarebbe lungamente nascosto in una grotta nei pressi dell’Etna in cui avrebbe ucciso l’ostrogoto Teodorico da Verona.

Il conflittuale rapporto col Cattolicesimo

I pessimi rapporti fra la Chiesa del tempo e Federico II di Svevia, sono prevalentemente collegati alla sua concezione dello Stato messa in campo anche in Italia e nel Regno di Sicilia e nella riorganizzazione di quello che già allora era uno dei maggiori Stati della Penisola italiana. I principi ispiranti della politica di Federico II, come osserva fra gli altri il medievalista Pasquale Corsi, “furono elaborati in maniera sempre più organica, quale nel Liber Auguralis si configurava ad un complesso di alta espressività. Le norme federiciane esprimono una visione dello Stato che parte dalla tradizione giustinianea e si arricchisce degli apporti più vari, non escluse le consuetudini locali, in un amalgama sapientemente calibrato, perché inserito entro una visione concreta del potere imperiale e dello Stato, quale fonte razionale della giustizia, dell’ordine, della pace”.[1]

Federico e la Calabria

Per quanto riguarda la Calabria ed il Cattolicesimo calabrese, uno dei momenti più noti è la partecipazione dell’Imperatore svevo alla riconsacrazione della Cattedrale di Cosenza del 1222. Oltre a tale partecipazione, anche semplicemente per il territorio calabrese, le numerose donazioni dello stesso Federico II di Svevia ad alcuni Ordini religiosi, come quello Cistercense della Sambucina di Luzzi, dei Florensi di Gioacchino da Fiore e della stessa Cattedrale di Cosenza all’interno della quale fu sepolto Enrico, lo sfortunato figlio di Federico morto, forse suicida, in seguito ad una caduta dal ponte di Carpenzano.

Quello che divenne lo stesso Regno di Sicilia sotto il governo di Federico II che oltre ad essere un politico ed amministratore oculato fu un filosofo e fine letterato, è sotto gli occhi di tutti gli storici. Nelle sue Costituzioni (1221), i giudici, i politici ed i funzionari regi sono chiamati a svolgere il proprio ruolo non solo nel nome dello stesso Regno, ma quasi come fossero rivestiti di una certa sacralità come è attestato dal giuramento di agire fra le altre cose con uno spirito di equità. Lo stesso monarca deve essere garante e sacerdote del culto della pace. Nelle stesse Costituzioni vengono previste severe pene per i ministri che, nell’esercizio delle proprie funzioni, si discosta dal mandato ricevuto.

La regolamentazione dell’usura

Altrettanto forte è inoltre, la lotta federiciana all’usura. Particolarmente nelle città di Napoli e di Bari, esistevano quartieri ebraici in cui, dal tempo di Costanza d’Altavilla, proprio gli ebrei prestavano denaro chiedendo alti interessi. Federico, con le Costituzioni di Melfi (1231), decise di ricondurre le attività economiche degli Ebrei sotto il controllo pubblico e tale decisione fu la prima di questo genere in Occidente. Da un lato, ai banchieri del “Popolo del Libro” veniva offerta la protezione regia e quelle garanzie offerte a tutta la popolazione, ma stabilì nel contempo un tasso massimo del 10%. Inoltre, per quanto riguarda la lavorazione della seta, allora appannaggio appunto degli Ebrei, trasformò i tradizionali monopoli ebraici della sete e della tintoria in un monopolio dello Stato. Tale decisione, come molti altri atti politici di ogni tempo, hanno diverse chiavi di letture. Da una parte ci fu chi ritenne che il riconoscere l’attività bancaria degli Ebrei fosse un riconoscimento ad una popolazione che ancora fino al Concilio Vaticano II era accusa di “deicidio” mentre dall’altra ci fu chi ritenne che la legislazione delle Costituzioni di Melfi rappresentarono un limite dalla stessa usura.

Altrettanto duplice lettura ebbe, a ben vedere, l’ospitalità nella Corte palermitana di numerosi filosofi appartenenti, per religione e per nazionalità, all’Islam. Se ciò poteva essere visto come un oltraggio nei confronti del Cristianesimo, è pur vero che proprio l’apertura federiciana all’Oriente mussulmano rappresentò un arricchimento per la cultura occidentale, rappresentando una lezione di apertura mentale ancora oggi attuale in un’Europa malata di becera xenofobia e velato razzismo.

Francesco Rizza

Postfazione

di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

L’atteggiamento di Federico II verso Ebrei e mussulmani non fu lo stesso nel tempo come nello spazio. Nella dieta di Messina (1221) furono promulgate leggi apparentemente secondarie, di poca importanza: ci si occupò di regolamentare la vita degli attori, dei giullari, delle prostitute, dei bestemmiatori … e degli Ebrei. Il problema degli ebrei era serio: in uno stato cristiano essi erano tenuti ai margini della società, ma tuttavia erano artigiani e finanzieri ineguagliabili ed il loro ruolo era fondamentale! In Germania gli ebrei erano proprietà del regio demanio e quindi protetti dallo stato e Federico II non poteva inimicarsi i grandi elettori, ma in Sicilia non usò lo stesso metro, non aveva oppositori e li equiparò ai musulmani: fu fatto loro obbligo di farsi crescere la barba e di portare, tutti, maschi, femmine, vecchi e bambini, un marchio giallo sui vestiti così come era stato deciso dal Concilio Laterano del 1215 (niente di nuovo sotto il sole!). Chi non ubbidiva subiva la confisca dei beni, se ricco, ed il marchio a fuoco sulla fronte, se povero (Kantorowich) E i musulmani? Il problema era più grande, perché i musulmani erano numericamente più degli ebrei ed il loro controllo non era facile, anche perché buona parte di loro, come gli ebrei, si era “convertita”, erano diventati “marrani”; in pubblico, cioè, si professavano cristiani ed in privato officiavano riti islamici o ebraici.

Ma non c’era solo il marranismo, in quel periodo c’era anche “l’irredentismo” perché gli arabi di Sicilia, dopo due o tre secoli di permanenza si sentivano siciliani, così come oggi si sentono americani o australiani i nipoti degli emigrati dei primi del Novecento. E poi non esisteva neanche una pretesa superiorità della civiltà cristiana. Gli arabi di Sicilia erano sicuramente più civili e colti dei cristiani venuti dal nord! La pretesa “cristiana” di prevaricare gli arabi era pertanto solo “violenta” e non c’erano più i “furbi” normanni, capaci di volgere a loro favore le attività delle “ormai” minoranze musulmane ed ebree rispettandole ed integrandosi ad esse.

Ai tempi di Federico si era venuto a creare una sorta di stato entro lo stato e l’imperatore non aveva scelta, poteva solo perseguire un obiettivo “exterminare de insula Saracenos” (Riccardo di San Germano, in Renda). Non fraintendete, “exterminare” non significa sterminare, uccidere, ma “portare fuori dai confini”. Ma persone che almeno da due secoli vivevano in Sicilia, “erano” siciliani e nell’isola avevano tutti i loro beni ed i loro parenti, potevano andarsene? Ed infatti non lo fecero: si riunirono e decisero di rispondere alla guerra con la guerra. La guerra fu dura, crudele e difficile, durò più di 25 anni e si concluse con la vittoria dell’imperatore a prezzo di stermini (questa volta veri, fisici; in senso moderno), schiavizzazioni (di donne e bambini) e deportazioni, la più celebre è quella a Lucera.

Con la vittoria di Federico, imperatore e non re di Sicilia, la Sicilia cessò di essere quella perla plurietnica, plurireligiosa, plurilinguistica, multiculturale che tanto aveva dato allo stesso Federico per diventare un enorme serbatoio di feudi spopolati, da regalare a emigranti lombardi (termine con cui si intendevano francesi, tedeschi, piemontesi...) fedeli all’imperatore.


Note

[1] Pasquale Corsi “Federico II di Svevia. Problemi e prospettive”. Bari 1996.


Articolo inviato dall'autore a Il Portale del Sud nel mese di novembre 2012

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