Note e Versi Meridiani

 

 

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Furturella

Saggio sulla canzone di Renato Gargiulo

 

Il successo clamoroso di ’O marenariello fa ottenere a Salvatore Gambardella la piena fiducia dell’editore Bideri, il quale, per mettere pienamente a frutto il talento di questo incolto “orecchiante”, incarica il maestro Achille Longo del Conservatorio di San Pietro a Maiella di trascrivere sul pentagramma le composizioni del brillante giovanotto. In questo modo Gambardella si avvia a diventare oltre che il fiore all’occhiello della scuderia Bideri, anche uno dei padri fondatori della canzone napoletana classica. E, infatti, dopo appena un anno da ’O marenariello, siamo nel 1894, sforna una nuova perla: Furturella [1]. Stavolta a comporre i versi c’è un poeta di ben altra stoffa rispetto ad Ottaviano: si tratta di Cinquegrana.

I

Tien’’a vetella

comm’’a vucchella

(Furturè)

peccerenella,

peccerenella,

Furturè!...

Che dice, che faje,

che pienze m’’a daje,

Furturè?...

Io mo moro pe tte!...

Eh! eh! eh!

Uh quant’è bello a ffa ammore cu tte!...

Ah! ah! ah!

Uh quanta vote te voglio vasà!

                II

’Sta bella schiocca

de rose scicche,

(Furturè)

ca tiene mmocca,

chi sa a chi attocca!...

Furturè!...

Che dice, che faje, ecc. ecc.

                III

Sta bionda trezza

chien’’e bellizze,

(Furturè)

me fa ascì pazzo,

guardà nun pozzo,

Furturè!...

Che dice, che faje, ecc. ecc.

Pasquale Cinquegrana appartiene al quel gruppo di poeti definiti da alcuni studiosi come “canzonieri”, perché legati quasi esclusivamente alla produzione canzonettistica, ambito nel quale il nostro autore realizza il meglio della sua produzione.

Si tratta in realtà di un autore dotato di un animo sensibile e schietto capace sovente, nelle composizioni di carattere sentimentale, di esprimere con parole semplici ed efficaci sentimenti ed emozioni comuni e, quindi, di immediato impatto popolare. Le nitide e vivaci immagini che egli sa creare, la spontaneità e la genuinità dei temi sviluppati, il linguaggio colorito e saporoso utilizzato, espressione questo del vero idioma dialettale, affondano le loro radici più tipiche nel canto popolare. Perciò, Costagliola, guardando forse solo ai momenti particolarmente felici della produzione canzonettistica del nostro autore – momenti nei quali egli si dimostra certamente il miglior paroliere vernacolare del suo tempo – afferma, con evidente esagerazione, che «non di rado contende il passo allo stesso Di Giacomo». In realtà, Cinquegrana spesso non riesce a sollevarsi oltre il piano della mediocrità specie quando si lascia trasportare nei versi da suggestioni educative. Queste non infrequenti cadute del nostro autore vengono spiegate da alcuni critici ritenendo che il poeta, proprio perché un istintivo, sia portato a fallire là dove si trova imbrigliato in forme metriche complesse (sonetto e poemetto) che vincolano la sua naturalezza, mentre ciò non accade quando opera nella forma più libera e flessibile della canzone, nella quale non occorre eccessiva elaborazione e ci si può esprimere in modo più spontaneo ed immediato.

Ma il Cinquegrana più amato, ed apprezzato dal popolo non è tanto quello sentimentale, quanto quello allegro e spiritoso. Perché egli è capace di comporre versi pieni di arguzia, brio e ironia, pur nella sobrietà e nell’eleganza dell’espressione. E di canzoni egli ne compone veramente tante, baciate spesso dal successo (’A cura ’e mammà, ’E bersagliere, Frunnell’’e rosa, Furturella, Margarita de Parete, Muntevergine, Napule bello!, Ndrighete ndrà!..., Rosa rusella!, Serenata profumata, Tuppete tuppete, ...). In molte di esse si dimostra un vero maestro nell’uso dei mottozzi provenienti dalla tradizione popolare (tiritìppete, tiritàppete, lariulì, lariulà, ndrighete ndrà, ...). Queste parole prive di senso gli sono d’aiuto non solo per comporre la rima, ma anche per dare ai testi un significato enigmatico pervaso di allusioni osé, non esplicitate ma ambiguamente lasciate intendere. Così per esempio, cosa viene proposto alla ventenne Rusinella in ’A cura ’e mammà? Una «cura» solo sentimentale o anche fisica? L’ebrezza del fidanzamento o i “piaceri” del matrimonio? E cosa significa – nella stessa canzone – quell’avvertimento sibillino e straordinariamente gustoso secondo il quale senza la suddetta «cura» per Rusinella piglia sotto ’o rraù (cioè il ragù si attacca al fondo del tegame bruciandosi e rovinando la salsa)?

Questo spirito scherzoso ed arguto ci restituisce un’immagine di Cinquegrana diversa da quella pubblicamente conosciuta. Il poeta sembra possedere quasi una doppia personalità: persona schiva e riservata nella vita, autore irriverente e spregiudicato, ma mai volgare, nelle canzoni umoristiche. Le sue notevoli doti ironiche e satiriche insieme alla sua capacità di cogliere dei tipi dal vivo, rappresentandoli in modo prodigioso, lo rendono un’eccellente autore di macchiette (Comm. Cav. Uff., Don Saverio, Il Conte Malatesta, Il fatalista, Il figlio del tenore, Il marito moderno, La zitellona, Monsignor Perrelli, ’O bizzuoco fauzo, ’O cafè Calzona, ’O jettatore, ’O mbriaco, ’O rusecatore, ’O sbruffone, ’O tramviere, ...).

L’incontro tra Gambardella e Cinquegrana non viene baciato dal gossip e, quindi, non sappiamo se il secondo si sia recato anch’egli alla ferramenta del Di Chiara, né quante ore abbia impiegato il nostro autore a comporre la musica e nemmeno quanti giorni dopo il “parto” la canzone sia stata eseguita in pubblico. Gli amanti del pettegolezzo potranno, però, consolarsi sapendo che il primo interprete di Furturella è Diego Giannini al Teatro Eldorado[2].

Se sconosciuta per noi è la genesi della canzone, possiamo, invece, facilmente verificare che ci troviamo di fronte ad un prodotto di qualità davvero notevole, pur se non universalmente conosciuto come 'O marenariello. Il merito, ancora una volta, va quasi esclusivamente al “grande orecchiante” perché il Cinquegrana, in questo lavoro, non ha saputo esprimersi allo stesso livello di altre sue canzoni. Il testo poetico, infatti, appare, appena dignitoso, se non decisamente mediocre, con uno sviluppo alquanto ripetitivo: primi quattro versi di ogni strofa descrivono una bellezza di Furturella e tutto il resto viene riproposto uguale. È un componimento, quindi, non bello, pur non mancando di una certa freschezza, che riesce ad evitare le pastoie della stucchevolezza col rinunziare alla tentazione di lungo elenco delle grazie di Furturella. Il testo, in definitiva, trova una sua giustificazione soltanto come canzone, non avendo gambe sufficientemente solide per aspirare al ruolo di poesia. Cinquegrana qui appare incapace di sopperire con la tecnica ed il mestiere alla carenza di ispirazione e non riesce a nascondere i limiti del suo prodotto. Pur tuttavia il testo di Furturella sembra quasi perfetto per questa canzone perché la leggerezza dell’impianto poetico lascia ampi margini di libertà all’estro creativo del musicista e le abbondanti esclamazioni Eh! eh! eh!, Ah! ah! ah!, contribuiscono a dare brio alla variopinta girandola sonora del ritornello. Quel pizzico di pepe, contenuto nel doppio senso (m’’a daje, Furturè?...), e che verrà ripreso 59 anni dopo nella macchietta La pansé, per quanto ripetuto in tutte le strofe assume un ruolo alquanto marginale perché l’attenzione della musica si focalizza tutta su quella meravigliosa scala cromatica che accompagna i versi Io mo moro pe tte!... scala che prepara lo spumeggiante ritornello. Su di essa scrive C. Conti «Gambardella, con un’intuizione che sorprese molti colleghi musicisti di professione, introduce una ripetizione nel punto in cui spesso si collocano le progressioni armoniche ascendenti e la melodia si avvicina al suo acme, alla massima estensione cioè prima del ritornello. Qui troviamo in corrispondenza al basso di una scala ascendente armonizzata, un chiaro esempio di unità minima che, con una direzionalità opposta scende sempre di grado sulle parole "io mo moro", quasi come se la voce si spegnesse a poco a poco».

Se con 'O marenariello Gambardella rivela quella componente della sua anima romantica, gioiosa ma sensibile al rapimento estatico, alla leggera trama del sentimento amoroso, con Furturella, invece, manifesta l’altra componente della sua personalità, quella di scugnizzo napoletano smaliziato, ironico, scherzoso, provocatore, irriverente, ricco di spunti comici e disincantati e sempre pronto, quando serve, alla pernacchia, allo sfottò, al ferbone[3]. «Tutto è piedigrottesco in lui: la genialità etnica, l’allegra risata che brilla e canzona, il fascino scugnizzesco, il clamore e l’abbandono, il reclamismo e il sentimento, il trillo del mandolino nella notte di luna ...» (F. Cangiullo). Ma la musica Gambardelliana è multanime, marce, ballabili, duettini, tarantelle, barcarole, canzoni allegre, canzoni tristi, sentimentali, appassionate, macchiette, è un poeta della melodia quasi estemporaneo, dall’estro prorompente, dalla vena inesauribile. Egli rappresenta, assimila, elabora tutte le componenti dell’anima borghese di Napoli, componenti che, però, si badi vengono spacciate per sentimento popolare. «Per la vena di Gambardella, ogni fiore trova la sua espressione in un messaggio d’amore, ogni oggetto diventa un sacro pegno d’affetto, ogni nota diventa voce del popolo» (A. Pugliese).

Furturella è un’esplosione di gioia, è un’incredibile, fantasmagorica composizione degna dei più illustri e preparati musicisti. Presenta, su di una dinamica di "crescendo", una scala cromatica discendente che sorprende anche un genio del valore di Puccini. Questi dopo averla ascoltata, canticchiata da Ernesto Murolo nella sede della casa editrice Ricordi, si mostra sorpreso dal fatto che fosse opera di un "orecchiante", tanto da esclamare «la canzone ha una progressione musicale discendente degna del più grande musicista classico»! Mentre Pietro Mascagni ne rimane così estasiato da affermare: «Nessun musicista al mondo ha risolto in maniera tanto ardita una scala semitonale come l’incolto popolano che ha fatto il ritornello di Furturella».

Puccini apprezzando il talento di Gambardella, e, in considerazione dello stato di indigenza in cui questi versa, gli regala un pianoforte consigliandogliene lo studio. Questa leggenda metropolitana (finalmente!) continua raccontando che il nostro autore, lusingato si impegna nello studio ma paradossalmente la conoscenza della musica in senso accademico fa perdere spontaneità alle sue canzoni e da allora egli riesce a pubblicare a malapena pochissimi altri brani di successo, tra cui Quanno tramonta 'o sole (1911). In realtà Gambardella è un istintivo e forse proprio la sua ignoranza musicale gli permette di essere uno spirito libero capace di estrarre dal suo animo, musicalmente geniale, le più splendide ed equilibrate melodie.

Furturella è un piccolo gioiello nel panorama della canzone classica napoletana. Per descriverne le caratteristiche si può ricorrere con profitto alle indicazioni di Achille Longo relative all’interpretazione ed estenderne il significato al contenuto emotivo del brano: la malizia delle proposte amorose richiede infatti uno stile vocale leggero, e la definizione di Allegretto spigliato esprime efficacemente la natura vivace e disinvolta di questa briosa composizione frutto di una spigliata vitalità giovanile di un animo estroverso capace di comunicare esuberanza e gioia di vivere. Il tempo di 6/8 conferisce al materiale melodico un carattere danzante di schietto sapore popolare e la scala cromatica discendente si ispira alla tradizione belcantistica settecentesca: un’ornamentazione quasi eccessiva di una melodia che non trascura la bellezza fisica del suono. Questo passaggio prepara un ritornello dai colori vivissimi, che irrompe trascinante e carico di brio in un vortice di note, una spirale ammaliante che inevitabilmente e irresistibilmente trasporta l’ascoltatore nel ruolo di seduttore-spasimante di Furturella. La gradevole, fresca e spontanea ispirazione di questo brano ad un settecento galante e libertino potrebbe far ritenere la canzone una composizione salottiera esempio di musica galante suonata nei salotti napoletani di fine ’800, come intrattenimento della nobiltà e della borghesia amante del "bel canto". Ma sarebbe ingiusto tale giudizio perché la canzone, malgrado qualche difficoltà di esecuzione, è un vero successo in tutta la città, amata e cantata da tutte le classi sociali.

Furturella è un brano fantasioso e "policromo", di tono raggiante e luminoso, di una ricchezza immaginativa sorprendente per un autore dilettante; è un’esplosione di edonismo su un’armonia semplice e funzionale, è una melodia le cui pretese di libertà e di virtuosismo si sviluppano secondo uno slancio interno con modulazioni che sono astuzie facenti parte del corteggiamento e della seduzione. Ne risulta un pezzo brillante e spensierato che trascina con brio irrefrenabile, sfavilla in risa e si agita, ingegnoso e bugiardo e, adulando, insidiando, seducendo con garbo, vagheggia, allude, progetta, si agita per cogliere o non cogliere una carezza, un bacio o, forse, le grazie della ragazza.

Furturella è una canzone che richiede una certa abilità nel fraseggio oltre che propensione al brano lirico o anche brioso ed allegro e perciò non la troviamo nel repertorio di quei cantati che hanno una vocalità impostata verso una dimensione teatrale. Non sono molti i cantanti di estrazione lirica che l’hanno incisa (Parisi, Venturini, Daddi, Franco Ricci, …), sebbene Caruso non l’abbia trascurata dandone un’interpretazione di tono popolaresco. Tra i cantanti “leggeri” mancano buona parte dei big napoletani della seconda metà del ’900. Oltre che da Murolo è stata incisa altri due cantanti chitarristi, Mario Maglione ed Egisto Sarnelli, ed inoltre anche da Sergio Bruni, Fausto Cigliano, Giacomo Rondinella, Massimo Ranieri.

L’Archivio Sonoro della Canzone Napoletana, quando era ancora consultabile «in rete», proponeva per questa canzone l’ascolto di una vera chicca: l’interpretazione fatta con rara sensibilità e con delicato fraseggio di uno degli ultimi e più famosi posteggiatori napoletani Giorgio Schottler [4].


Note

[1] vezzeggiativo di Furtura che è una variante plebea di Furtuna, cioè Fortuna. Quindi Furturella significa Fortunella, Fortunatina

[2] L'Eldorado-Santa Lucia, al Borgo Marinari, era un immenso stabilimento balneare con annesso teatro estivo e un dancing. Tutt'attorno, una corona di ristoranti che si chiamavano Palummo, Pastafina, Starita, Zì Teresa, Bersagliera.

[3] ferbone: il termine inizialmente indicava un cappellaccio, poi con comprensibile passaggio, il gioco degli scugnizzi di far cadere il cappello ai passanti con una manata o col lancio di qualcosa.

[4] «Giorgio Schottler, cantante, era figlio d'arte. Suo padre Raimondo era stato un noto posteggiatore, invitato in Francia e Gran Bretagna. Giorgio aveva voce duttile, morbida, adatta a far risaltare le ombre e le luci d'una canzone, i toni sommessi e le sonorità aperte. Guardò «il nemico» negli occhi; cantò alla radio, il mezzo tecnologico che stava decretando la fine di concertini e postegge. Per dieci anni, la voce di Schottler fu diffusa dai microfoni di Radio Napoli. Nel 1932 partecipò al primo Festival di Sanremo, che in realtà fu una rassegna di canzoni napoletane, organizzata da Murolo e Tagliaferri. Era il febbraio del '38 quando lo chiamarono da Roma per cantare a villa Savoia, per il re e la regina. Elena di Montenegro chiese il bis di «'I te vurria vasà». Col famoso cantante Vittorio Parisi, Schottler interpretò, incidendola su disco, una memorabile «Luna nova» di Di Giacomo e Costa. La sua voce su disco è una rara, preziosa testimonianza del canto dei posteggiatori.» (M. Liguoro, I posteggiatori napoletani).

Renato Gargiulo


Pubblicazione de Il Portale del Sud, giugno 2016

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