Le mille città del Sud


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Terra d'Otranto

Galatina

 

Origini e Storia della Città

Delle sue origini greche, testimoniate anche dal nome e dallo stemma, restano poche tracce, e gli studi di ricerca storica sono avviati in tale direzione.

Galatina avrebbe come origine etimologica il termine "Galathena" che a sua volta deriva dall'etimo greco gala-gàlactos, cioè latte, questo perché la zona intorno era feconda, fertile e produttiva di pascoli e di latticini.

Secondo altri studi si ritiene che il toponimo "Galatina" derivi dal nome greco Galatos.

Altri ritengono che le origini di Galatina le si debba ai Tessali e che per questo il toponimo è legato al nome di Galatena, la città di provenienza di quel popolo. Altri ancora sostengono che le origini etimologiche del nome Galatina discendano dal nome di Galata, figlia di Teseo.

Lo stemma di Galatina (foto 1) comprende tre parti: la civetta, che è un simbolo risalente all'epoca della fondazione della cittadina, mostra che la cittadina sia stata sotto la dominazione greca, fu una colonia dedicata alla dea Minerva, la civetta è il simbolo di questa dea, protettrice di Atene

Poi vi sono le Chiavi del Vicario di Cristo: fu scelta dai papi Marziano III e Urbano VI in qualità di centro di affermazione della Santa chiesa romana e del rito latino.

Infine la corona, in cima allo stemma, concessa a Galatina, nel 1793, per volere di Ferdinando IV di Borbone, grazie a tale concessione Galatina si elevò al grado di "città" e le vennero conferiti i privilegi di "baronia".

Il primo documento storico che parla di Galatina è un atto notarile del 1178 in cui viene citato il casale Sancti Petri in Galatina. La tradizione vuole infatti che l'apostolo San Pietro si fosse fermato in questo luogo nel suo viaggio da Antiochia a Roma. Solo dopo l'Unità d'Italia, nel 1861, la città riprese il suo nome originario di Galatina.

Carlo D'Angiò assegnò il feudo (contea) di San Pietro in Galatina prima alla nobilissima famiglia Del Balzo e poi al conte di Nola, Niccolò Orsini, marito di Maria Del Balzo. Durante il periodo orsiniano Galatina si estende territorialmente, tanto da essere cinta nel 1355 da nuove mura (foto 2), e gode di numerosi privilegi. Il periodo di maggiore splendore di tale politica si ha con Raimondello Orsini Del Balzo, il quale, per i servigi resi al Papa Urbano VI in difesa della fede, ottiene il permesso per la costruzione della Chiesa di Santa Caterina con l'annesso convento e ospedale (foto 3 e 4).

La bellissima chiesa, di rito latino, contrapposto al rito greco esistente in loco, ed affrescata da maestranze di scuola veneta e toscana (foto 5 e 6) , è oggi Monumento Nazionale.

L'ospedale invece si arricchisce nel tempo di lasciti e donazioni di feudi che lo portano al centro di continue liti tra i Francescani prima e gli Olivetani poi, da una parte, e l'Università di Galatina dall’altra, che pretende di esercitare il suo controllo.

Alla morte del principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo figlio di Raimondello, la città si era così ingrandita da essere elevata a ducato nel 1485 quando fu data dal re di Napoli Ferrante d'Aragona a Giovanni Castriota Scanderbeg per i servizi resi nella lotta di successione agli Angioini. Giovanni, figlio di Giorgio Castriota Scanderbeg, e suo figlio Ferrante furono il primo e secondo duca di Galatina. I Castriota con la loro politica di vessazioni e tasse non riscuotono molta simpatia nei galatinesi che li osteggiano apertamente. Accanto a questo aspetto negativo che porta ad un impoverimento economico della città, fiorisce invece nel palazzo ducale (foto 7 e 8) da loro costruito e tuttora esistente, una vita di corte elegante e ricca culturalmente da non avere eguali in Puglia per quel periodo nel quale si ebbe comunque una fioritura culturale; videro i natali il "canzoniere" di Vernaleone, il cui figlio fu amico di Tommaso Campanella, il mistico Pietro "Galatino", i filosofi Marcantonio Zimara, Francesco Cavoti, gli scultori Nicola Ferrando e Nuzzo Barba e il misterioso pittore Lavinio Zappa.

Il ducato di Galatina a seguito di matrimoni o cessioni per debiti vari, passò dai Castriota Scanderbeg ai Sanseverino, agli Spinola fino ai Gallarati Scotti di Milano (ultimi feudatari di Galatina) tutti mai presenti sul posto se non per brevi periodi, così la compattezza civica che si era creata fin dal tempo dei Castriota ha modo di farsi valere e di ottenere diversi privilegi.

 

La vita seicentesca e settecentesca è quella di una città tranquilla e non segnata da particolari presenze e attività culturali. Il patriziato riversa la sua ricchezza nell'edilizia con la costruzione di palazzi gentilizi con balconi, portali e stemmi che ancora oggi abbelliscono la città tanto da considerare il centro storico galatinese uno dei più interessanti del Salento (foto 9, 10 e 11). Anche l'architettura religiosa, come quella civile, fa mostra della cultura tardo-barocca che ha un'impronta tutta particolare nella penisola salentina. La presenza di materie prime, quali la pietra leccese, il cuoio e il legno che si prestano per la loro duttilità alla lavorazione artigianale e artistica, fa nascere in loco scuole di intagliatori, decoratori e scalpellini. Si giunge così alla fine dell'antico regime e dell'età borbonica. Con il periodo francese la gestione borghese porta all'annessione di diversi feudi tanto da raddoppiare l'intero distretto. La trasformazione della ricchezza, da privata in pubblica, diventerà idea sociale solo con l'avvento di Garibaldi e con l'aiuto di una borghesia illuminata e liberale. Il resto è storia attuale.

Dal 20 luglio 1793 si fregia per regio decreto del titolo di città.

Il Tarantismo: la Cappella di San Paolo, mistero di un pellegrinaggio tra sacro e profano

La chiesetta di San Paolo (foto 12), a pochi passi dalla piazza principale della città e dalla Chiesa Matrice (foto 13), dedicata ai Patroni Santi Pietro e Paolo, è stata dal medioevo e sino alla fine degli anni '50 del XX secolo, teatro di fenomeni misteriosi legati al "tarantismo".

 

Si racconta che gli apostoli Pietro e Paolo, durante il loro viaggio di evangelizzazione, sostarono a Galatina e che San Paolo, riconoscente della calda ospitalità ricevuta da un pio galatinese nel proprio palazzo, ove ora è ubicata la Cappella, in via Garibaldi n. 7, diede a lui ed ai suoi discendenti il potere di guarire coloro che fossero stati morsi da ragni velenosi, detti in dialetto "tarante". Sarebbe bastato bere l'acqua del pozzo (foto 14) posto all'interno della casa (attualmente murato per motivi igienici) e tracciare il segno della croce sulla ferita.

Da qui l'annuale ricorrenza, il 29 giugno, di un rito esorcistico che, per le donne pizzicate (talvolta erano anche gli uomini) dalla taranta nelle campagne durante la raccolta del grano, iniziava nelle proprie abitazioni e si concludeva con la "liturgia" nella casa del Santo, dove venivano accompagnate da musicanti provvisti di tamburelli, violini, armoniche e organetti, per ringraziarlo della grazia ricevuta o per invocarla (foto 15).

Solo dopo aver bevuto l'acqua miracolosa ed aver vomitato nel pozzo, la grazia si poteva ritenere ottenuta. Accadeva che le "tarantate", dopo essere state morse da uno di questi ragni, entravano in uno stato di confusione e agitazione o piombavano nella depressione, dal cui torpore si destavano solo al suono di una musica che le costringeva a ballare convulsamente, rotolandosi e contorcendosi per terra, arrampicandosi sui muri. Con "la pizzica", mimando la danza della taranta, nella quale si identificavano per portarla allo sfinimento e alla morte, le donne, perdendo la propria identità, si potevano liberare dal veleno e guarire dal morso. Per liberare le tarantate dalla possessione demoniaca, i musicisti-terapeuti facevano ronda attorno alla vittima aggressiva ed isterica e impiegavano ore e ore per portare a termine il rituale, che si concludeva con la morte simbolica della taranta a la rinascita a nuova vita della donna. L'esorcismo, quindi, si concludeva con il pellegrinaggio a Galatina, dove davanti alla chiesetta di San Paolo il rituale si ripeteva, richiamando folle di curiosi.

Oltre alla musica e la danza, il terzo elemento magico del rito erano i colori. A volte ignare persone che indossavano abiti con colori accesi richiamavano l'attenzione morbosa delle tarantate. Ancora oggi durante la festa patronale di giugno su qualche bancarella si trovano le cosiddette zagareddhre, nastri colorati, legati anche ai tamburelli, che venivano agitati intorno alla tarantata, per identificare il colore odiato, e quindi strapparlo e gettarlo via per farla guarire.

Questo culto, nel quale il ragno è simbolo carico di significati positivi, per la laboriosità di tessere la tela, e negativi, per il pizzico ed il veleno, per alcuni studiosi affonda le sue radici nel mondo della Dea Madre che, con la forza di antichi riti pagani, faceva riaffiorare gli istinti primordiali, riscattando la donna non solo dalla sua condizione contadina, ma anche subalterna, sociale e sessuale. Riti riportati poi dalla Chiesa nell'alveo del cristianesimo, del Dio Padre, tramite il culto di San Paolo, protettore di tutti coloro che vengono pizzicati da un animale velenoso.

Uno degli studi più importanti condotti sul Tarantismo lo dobbiamo all’insigne antropologo napoletano Ernesto De Martino, che nell’estate del 1959 giunse nel Salento con un équipe composta da un medico, uno psichiatra, una psicologa, uno storico delle religioni, un’antropologa culturale, un etnomusicologo e, infine, un documentarista cinematografico per studiare come nessuno aveva mai fatto prima il complesso fenomeno delle “tarantate“. Il risultato del suo lavoro fu un libro “La terra del rimorso”.

Testo ed immagini della pagina trasmessi dal Sig. Roberto Spongano, che ringraziamo. Pubblicazione Internet febbraio 2014.

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