Le Pagine di Storia

Lo Steri e l’Inquisizione

di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

 

Palazzo Chiaramonte detto Steri da “Hosterium” (palazzo fortificato) fu fatto edificare dalla potente famiglia Chiaramonte ed è uno dei più importanti monumenti della storia di Palermo e della Sicilia.

Nota il Pitré “le sue vicende sono vicende di Palermo e la sua architettura è architettura di Sicilia” [1]

La costruzione del palazzo ebbe inizio nel 1307, per volere dei Chiaramonte, conti dell'immenso e potente feudo di Modica (detto “Regnum in Regno” per la vastità delle contee e per gli immensi privilegi di cui godeva) [2]. Alla committenza di Manfredi III Chiaramonte si deve inoltre il prezioso soffitto ligneo della Sala Magna [3], che con questa magnifica costruzione volle ostentare la potenza della sua Casata.

I Chiaramonte influenzarono le sorti della Sicilia occidentale in questo periodo storico talmente tanto, da farlo passare alla storia con il nome di “epoca chiaramontana”.

La storia di Palazzo Steri è intessuta di eventi cruenti sia mentre era proprietà dei Chiaramonte sia dopo che venne confiscato, assieme a tutti i beni della famiglia, nel 1392 quando Andrea, l’ultimo dei Chiaramonte, fu sconfitto e decapitato dagli Aragonesi, proprio nello spiazzo davanti al suo palazzo.

Dal 1468 al 1517 fu sede dei re Aragonesi (Martino I d’Aragona e Bianca di Navarra vi abitarono) e in seguito dei viceré spagnoli e fu teatro di numerosi moti popolari…

Concesso nel 1600 al Tribunale dell'Inquisizione del Santo Uffizio, questa terribile istituzione vi si trasferisce nel 1605 per cui l'edificio venne adattato al suo ruolo con la costruzione delle carceri e della sala delle torture al piano inferiore del palazzo mentre, nella antistante piazza Marina, si celebravano gli Auto da Fé (Atto di fede)[4].

Gli Auto da Fé erano grandiose cerimonie pubbliche in occorrenza delle quali venivano approntati palchi per le autorità, per il clero, per l’aristocrazia e platee per il popolo. L’acqualora vendevano acqua fresca, i “semenzari” bruscolini o meloni d’acqua per far passare il tempo al pubblico nell’attesa dello spettacolo vero e proprio. Nei bandi che pubblicizzavano l’avvenimento, si promettevano indulgenze a tutti coloro che avrebbero presenziato e si minacciava “excomunica maiore”, cioè la scomunica a chiunque avesse tentato di aiutare i condannati. Insomma, la presenza agli Auto da Fé era obbligatoria per tutti i fedeli cristiani dai 12 anni in su [5]. Il nome derivava dal fatto che gli accusati potevano contare solo sull'intervento diretto di Dio che, se innocenti, li avrebbe salvati da rogo e torture. Ovviamente, non c'è traccia nella storia di tali interventi divini e chi finiva al rogo, bruciava e moriva.

Da Palazzo Steri si snodava una lunghissima processione, costituita dai notabili della città, dal clero, dagli aristocratici, dal popolo, dal Tribunale dell’Inquisizione al completo e, ovviamente, dai condannati fino al luogo dello svolgimento della cerimonia vera e propria che poteva variare di volta in volta ed essere il Piano della Cattedrale, il Piano dei Bologni, di San Domenico, della Loggia, della Vucciria vecchia.

I roghi si svolgevano al Piano della Marina, di Sant’Erasmo o dell’Ucciardone, le pubbliche fustigazioni si eseguivano girando per le vie della città accompagnate dal rullo dei tamburi.

I disgraziati che subivano l’Auto da Fé, erano detti penitenziati. Tra i penitenziati si distinguevano i riconciliati, coloro cioè che avevano abiurato e gli ostinati e pertinaci, che si rifiutavano di abiurare. I riconciliati scontavano la pena indossando il sambenito, un saio giallo che divenne simbolo di vergogna e di emarginazione per i condannati e per le loro famiglie.

Di solito i riconciliati subivano pubblicamente la pena della frusta (da 20 a 200 “azzottate”) e poi, se sopravvivevano, venivano avviati ai lavori forzati o nelle carceri o, i più fortunati, al disterro, cioè all’esilio. Gli ostinati e pertinaci invece venivano rilasciati al braccio secolare della giustizia per essere bruciati, poiché la Santa Chiesa formalmente abhorret a sanguine (non permette che venga sparso il sangue di nessuno). Quale miglior maniera per evitare lo spargimento di sangue se non un bel fuoco che tutto purifica?

Il carcere comprendeva una ricca tipologia di interni tra cui le “Carceri segrete”, per i detenuti in attesa di giudizio e le “carceri della penitenza”, per i condannati a pene detentive. Le più tristemente famose tra queste erano quelle vicine all’orologio [6], oggi non più esistente, chiamate “Carceri Filippine” in quanto fatte costruire da Filippo III “ per li rei di fellonia [7].

In queste celle non finirono soltanto gli eretici o i colpevoli di atti contro il Santo Offizio ma anche chi commetteva reato di bigamia, di magaria (magia), per “delitto nefando” (omosessualità), per bestemmia ereticale, per atti sacrileghi. In verità era assai facile finire nelle segrete dello Steri, bastava che i beni di qualcuno facessero gola a qualche inquisitore o a qualche “familiare” dell’Inquisizione, una denuncia anonima ed il gioco era fatto!

Durante la sua lunga attività in Sicilia, il Sant’Uffizio inquisì circa 8.000 persone, di cui il 21% donne.

Di costoro solo 714 vennero assolti, 588 vennero condannati al rogo e il resto a pene corporali e coercitive di varia natura [8].

Con l’avvento di Carlo di Borbone, l’attività della SS. Inquisizione venne frenata grazie ad una prammatica che ne limitava i poteri e infine il 12 marzo 1782, dietro suggerimento del viceré Caracciolo, Re Ferdinando I ne ordinò la cancellazione.

Abolita l'istituzione del Tribunale dell'inquisizione, le carceri furono aperte e vennero distrutti gli strumenti di tortura. Vennero purtroppo incendiati in un pubblico rogo anche tutti i documenti relativi all’inquisizione, agli inquisiti, agli inquisitori e tutti i documenti relativi ai “Familiari” dell’inquisizione. Il motivo è palese: evitare eventuali ritorsioni di coloro che avevano subito condanne e la confisca dei beni per la cupidigia di “familiari” della SS. Inquisizione.

Dai primi dell'800 lo Steri divenne sede di uffici giudiziari e nella seconda metà del novecento, dopo parziali restauri, è stato destinato a sede del Rettorato dell'Università di Palermo.

Durante i restauri compiuti nei primi anni del novecento, nel 1906, lo storico Giuseppe Pitrè riuscì a salvare dalla completa distruzione i graffiti lasciati dai prigionieri dell'Inquisizione in alcune celle delle Carceri segrete. Li portò alla luce di persona, lavorando di scalpello giorno e notte.

Tra le scritte, e i disegni, che ricoprono interamente le pareti ve ne sono di ironiche e beffarde.

Allegramenti o carcerati, ch’quannu chiovi a buona banda siti (state allegri, o carcerati ché se piove vi trovate in luogo riparato).

O che rovesciano la visione cristiana della vita

Poco patire

Eterno godere

Poco godere

Eterno patire

Oppure di sfiducia

Maledetto è quell’uom, iniquo e rio

Che confidasi in uom e non in Dio

Se ne trovano anche in latino oltre che in italiano (dell’epoca) e in dialetto. E non mancano sonetti di un certo pregio [9].

Il restauro novecentesco fu assai contestato per la decisione di eliminare alcuni tra i segni fondamentali della storia del Palazzo, come la Scala dei Baroni, l'antico orologio, la piattaforma dei condannati, le gabbie interne, e tutto ciò che in qualche modo potesse ricordare i suoi orribili trascorsi, legati all'Inquisizione.

Il Palazzo, a pianta quadrata e massiccia volumetria, segna il passaggio fra il castello medievale e il palazzo patrizio. La rigorosa cortina muraria esterna è alleggerita da eleganti bifore e trifore con tarsie in pietra lavica.

Ultimamente, durante gli attuali restauri, è stato individuato anche un passaggio segreto che dalle celle conduceva direttamente alla Stanza dell'Inquisitore e l'esistenza di un edificio monumentale sotterraneo di sette metri di lunghezza con una imponente copertura con volte a crociera. L'edificazione di questa struttura si pone nel primo quarto del XIV secolo e all'interno sono stati recuperati reperti e graffiti che nulla hanno a che fare con quelli dei prigionieri dell'Inquisizione (risalgono a tre secoli prima), e non si trova traccia nei documenti storici sulla fondazione dello Steri.

Recentemente, in tre delle celle del piano terra sono venuti alla luce nuovi graffiti completamente sconosciuti, disegni e invocazioni che potrebbero essere stati lasciati dalle prigioniere accusate di eresia, stregoneria o quant’altro. Secondo Pitrè, infatti, proprio nelle celle del piano terra stavano le detenute del Sant'Uffizio, mentre gli uomini erano reclusi in quelle del primo piano, dove si trovano i graffiti portati alla luce dallo storico.

"È incredibile come delle donne non rimanesse traccia di sorta - scrisse - mentre degli uomini balzano fuori prove luminose a profusione".

Quelle tracce invece sono venute fuori, sotto l'intonaco, nel corso dei sondaggi per ulteriori lavori di restauro dell'intero complesso. Tra tutte spicca una scritta straziante in rosso-ocra, scoperta nella seconda stanza:

"Cavuru e fridu sintu ca mi pigla/ la terzuru tremu li vudella/ lu cori e l'alma s'assuttiglia" (Sento freddo e caldo, mi ha preso la febbre terzana, mi tremano le budella).

Nella seconda stanza è pure affiorato parte di un dipinto che raffigura la prua di una nave con una figura umana, e poi parte di un'altra figura umana con un campanaccio in mano, forse un inquisitore.

Nella prima stanza, una scritta ancora da decifrare, nella terza un calvario con tre croci.

I disegni e gli scritti incisi nei muri costituiscono una documentazione storica di grande valore anche per la forza che hanno di ribaltare i ruoli: i condannati diventano gli innocenti e i giudici i colpevoli.

Come il più famoso di essi, Diego La Matina (il frate che uccise il suo aguzzino, Juan Lopez de Cisneros, e a cui lo scrittore Leonardo Sciascia [10] dedicò il suo libro “Morte dell’Inquisitore“) migliaia di uomini e donne furono reclusi nel carcere anche se non colpevoli di efferati delitti: frati e suore, innovatori, scienziati scomodi, poeti, liberi pensatori, nemici dell'ortodossia politica o religiosa, non allineati, ma anche poveracci, falsari, debitori del fisco. Molti di loro lasciarono un segno del loro passaggio nelle segrete prima di sfilare verso il rogo o, più fortunosamente, ricevere cento frustate o subire il taglio della lingua.

Durante il restauro della facciata inoltre sono venuti alla luce i solchi lasciati dalle pesanti gabbie appese dove vennero esposte le teste dei baroni che si ribellarono a re Carlo V. Quei teschi, erano rimasti lì fino all’abolizione dell’Inquisizione nel 1782.

Oggi il monumento compensa in parte la sua triste memoria con la presenza della grande tela, dono del pittore Guttuso, che rappresenta la “Vucciria”: un tripudio di colori, di forme, di…odori, di vita in una parola sola.

Fara Misuraca e Alfonso Grasso

Marzo 2011


Note

[1] G. Pitrè, Del sant’uffizio a Palermo e di un carcere di esso, Edizione on line, Open Library p.4.

[2] La Contea di Modica comprendeva gli attuali comuni di Modica, Ragusa, Scicli, Pozzallo, Ispica, Chiaramonte Gulfi, Comiso, Giarratana, Monterosso Almo (RG). Le signorie di Caccamo (Pa), Castronovo (CL), di Palma di Montechiaro (AG), di Mussomeli (CL) e di Alcamo (TP). Andrea inoltre ereditò dal padre Manfredi il titolo di Conte di Malta e Gozo. Stabilì la propria corte presso il Palazzo Steri a Palermo.

Successore del padre Manfredi III, settimo conte di Modica, Andrea proseguì la politica di lotta agli Aragonesi di Sicilia e quando Martino il Giovane, divenuto re di Sicilia in seguito al matrimonio con Maria di Sicilia, riconquistò militarmente l'isola, i Chiaramonte si ritrovarono insieme ai soli Alagona a fronteggiare l'esercito di Bernardo Cabrera. Andrea, sconfitto e tradito, fu catturato e condannato alla pena capitale. Fu giustiziato per decapitazione il 1 giugno 1392 nel piano davanti al palazzo Steri. Con lui la famiglia Chiaramonte si estinse: i beni furono confiscati e divisi fra Guglielmo Raimondo Moncada e il Cabrera.

[3] Nel soffitto ligneo, decorato da maestri siciliani nel 1377, si svolgono come in un ciclo narrativo una serie di scene ispirate alle avventure cavalleresche.

[4] L’inizio dell’attività della Santissima Inquisizione in Sicilia risale al 1487. Non dipendeva da quella papale ma direttamente da quella spagnola, creata nel 1486 dal primo “Supremo Inquisitore Fra Tomaso Torrecremata, o Torquemada, Confessore dei sovrani d’Aragona (G. E. Di Blasi, Storia cronologica della Sicilia, riportato da Castiglione in Dizionario…p. 216). In Sicilia l’Inquisizione si diffonde in maniera capillare reclutando “familiari”, cioè collaboratori fra la piccola nobiltà, i giureconsulti e i “civili” di provincia. Non sono pochi gli studiosi che vedono nella diffusione capillare dell’Inquisizione una organizzazione e una mentalità che verrà poi sviluppata dalla mafia. In tal modo l’Inquisizione assicura l’assoluta subordinazione del popolo siciliano al potere e alla nobiltà assicura la libertà di sottrarsi alla giurisdizione del Viceré. L’apice della potenza l’Inquisizione la raggiunse sotto gli Asburgo. Con l’avvento di Carlo III di Borbone l’attività della SS. Inquisizione venne frenata grazie ad una prammatica che ne limita i poteri e infine il 12 marzo 1782, dietro suggerimento del viceré Caracciolo ne ordina la cancellazione.

[5] V. La Mantia, Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Sellerio, Palermo, p. 67.

[6] “Lu roggiu di lu San’Uffizio nun cunsigna mai” recita un vecchio detto che sta a significare come difficilmente chi entrava nelle celle dello Steri potesse uscirne.

[7] G. Palermo, Guida istruttiva per potersi conoscere. Edizione on line Google libri.

[8] F.P. Castiglione, Dizionario delle figure, delle istituzioni e dei costumi della Sicilia Storica, p. 465- Sellerio editore Palermo.

[9] Gli affreschi e le incisioni scoperti dal Pitré sono consultabili nel libro Urla senza suono, di Giuseppe Pitré e Leonardo Sciascia, edito da Sellerio.

[10] Sciascia definisce Fra Diego La Matina (Racalmuto 1622, Palermo 1658) un eroe di cui dovremmo essere fieri, per avere saputo sfidare l'inquisizione, istituzione che mortificava la dignità umana e capace di terribili atrocità.

Gli eretici erano torturati affinché ammettessero le loro colpe e ritornassero sulla retta via e non c'è da meravigliarsi se in una di queste "sedute" l'eretico Diego La Matina esasperato si sia difeso e abbia ucciso l'inquisitore.

Quale fosse la sua eresia “originaria”, non è dato sapere giacché i documenti dell’epoca sono andati perduti, anche se Sciascia adombra l’ipotesi di una “rivolta” del frate contro l’iniquità sociale, contro l’usurpazione dei beni e dei diritti che lo avrebbe condotto non alla negazione di Dio, ma all’affermazione che Egli non potesse, “senza essere ingiusto, consentire all’ingiustizia del mondo”. Per quattro volte abiura e per quattro volte viene rilasciato, infine, ribeccato a predicare eresie per la quinta volta, viene arrestato. In prigione uccide l'inquisitore Juan Lopez de Cisneros, fracassandogli il cranio con le manette con cui era legato. Ricostruzione rigorosissima, attraverso i verbali degli interrogatori, le testimonianze di cronisti coevi, e la tradizione popolare.

E' proprio dal dettaglio delle "manette" è ripartita l’indagine (che Sciascia, aveva condotto a partire dai diari del marchese di Villabianca dal ricordo di un quadro d’ignoto autore, bruciato a Palazzo Steri dal viceré Caracciolo, in cui si raffigurava Fra Diego nel momento in cui massacrava Cisneros con le sue manette, immagine riproposta anche da Guttuso) grazie ad uno storico dell’Università di Catania, Vittorio Sciuti Russi, che è riuscito a recuperare un documento di eccezionale valore fra gli scaffali dell’Archivio storico nazionale di Madrid: la lettera inviata dall’altro inquisitore di Palermo, Escobar, all’inquisitore generale Diego de Arce Reinoso, una sorta di relazione sui fatti per informare il "Consiglio della suprema e generale inquisizione" e proporre ai superiori di Madrid la canonizzazione della vittima di Fra Diego, come martire.

La ricostruzione dell’episodio è precisa: Fra Diego uccide il suo inquisitore "con un attrezzo di ferro fra quelli riposti a fianco del tavolo del segretario, fuggito prudentemente dalle scale". Compare così la notizia di un "ferro" che non dovrebbe trovarsi nella sala adibita al colloquio, al recupero dell’anima, come si vorrebbe da un candidato alla santità .

Da Madrid accolgono la proposta di Escobar e scrivono a Francesco De Cabrera, l’ambasciatore della "Suprema" a Roma, dando un assenso formale alla richiesta di canonizzazione di Cisneros da avanzare al pontefice. Ma è lo stesso De Cabrera a prendere tempo, a consigliare di processare di nuovo Fra Diego La Matina e di avviare la procedura di beatificazione soltanto dopo aver giustiziato il reo.

Cauta e prudente decisione. Tempi e tattica rivelano, infatti, la preoccupazione di una possibile inchiesta della Santa Sede con una commissione di vescovi che avrebbe potuto ascoltare lo stesso Fra Diego, ricostruendo "i fatti", compresa la notizia di quel "ferro", insinuando dubbi sui santi propositi di Cisneros.

Questo inedito carteggio rintracciato da Sciuti Russi rivela che il terzo processo al frate di Racalmuto si era concluso nel 1656, con la decisione della "Suprema" di mutare la condanna al rogo in reclusione perpetua, e che gli inquisitori siciliani, irritati dalla revisione, continuavano a trattenere l’eretico nelle segrete di Palazzo Steri, sostenendo la difficoltà di trovare un convento adatto per un personaggio così irrequieto e ribaldo, colpevole di un delitto d’onore, come ufficialmente sostenuto nelle varie fasi del processo e da una tradizione orale ripresa in un romanzo d’appendice da Luigi Natoli. Secondo questa versione, Fra Diego avrebbe ucciso, a Racalmuto, il sovrintendente del Conte del Carretto, per vendicare lo stupro della sorella. Un movente che non convinse Sciascia, portato a privilegiare piuttosto la tesi di una ben celata "eresia sociale", adesso confermata da Sciuti Russi: "Per un delitto d’onore sarebbe stato impiccato dopo dieci giorni. C’e' qualcosa di più, di diverso...". Forse la verità non si scoprirà mai, ma si rafforza l’intuizione sciasciana che, oltre l’imposto cliché dell’assassino, in Fra Diego ci fosse l’uomo di tenace concetto. L’unico dato certo, l’indizio concreto, diremmo oggi, è il "ferro" che non avrebbe dovuto trovarsi su quel tavolo, uno strumento usato o poggiato lì per facilitare l’ammissione, il ricordo, anche il ricordo dei cavalletti e di altre macchine per più pesanti torture, già subite da Fra Diego. Ed è quello strumento che La Matina afferra trasformandolo in arma, ultima ribellione contro un "sequestro" che lo lasciava marcire ancora nelle segrete, bloccandone il trasferimento in un convento. Così, il frate spacca il cranio di Cisneros che negli undici giorni di agonia, stando alle cronache di chi avrebbe voluto santificarlo, riuscì a perdonare l’eretico. Un perdono anch'esso utile, capace di amplificare la sensazione che giustizia si sarebbe compiuta solo con il rogo del frate, a quel punto doppiamente colpevole. (tratto da www.tanogabo.it).


Bibliografia

  • Francesco Paolo Castiglione, Dizionario delle figure, delle istituzioni e dei costumi della Sicilia Storica, Sellerio editore, Palermo

  • Vincenzo La Mantia, Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, Sellerio, Palermo

  • Gaspare Palermo, Guida istruttiva per potersi conoscere. Edizione on line, Google libri

  • Giuseppe Pitrè, Del sant’uffizio a Palermo e di un carcere di esso, Edizione on line, Open Library

  • Giuseppe Pitré e Leonardo Sciascia Urla senza suono, Sellerio editore, Palermo

  • Francesco Renda, L’Inquisizione in Sicilia, Sellerio editore Palermo


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