Pensiero Meridiano

Il vero scandalo di Rosarno

di Nicola Lo Bianco

Siamo qui a dialogare, a scrivere, a pensare, perché qualcuno un giorno, nella notte dei tempi, usò i due arti anteriori con l’intenzione di costruire qualcosa di utile:la mani e la testa si aiutarono a vicenda e nacque quello che chiamiamo “lavoro”. Cioè quell’abilità riservata solo all’essere umano di costruire con intelligenza e consapevolezza.

Nacque la collaborazione per un fine comune, il fattore primario attorno al quale andò costituendosi la societas.

E così, il lavoro è l’identità stessa dell’uomo, senza di esso è il vuoto, l’inconsistenza, tanto che, ieri come oggi, milioni di persone si trasferiscono da un luogo ad un altro, emigrano, sono disposti a rischiare la vita, a morire, in mare o nelle miniere, a subire l’umiliazione della stupidità xenofoba, a sopportare soprusi ed abusi, a ritrovarsi in condizione di schiavitù, nella condizione cioè di chi non può scegliere, di chi non può dire di no, di chi non può dare certezza di futuro alla propria vita, pena la possibilità stessa di sopravvivere.

Ieri, essere schiavo equivaleva a essere solo uno strumento di lavoro, oggi equivale a essere un oggetto, “un pezzo di ricambio”, di cui servirsi all’occorrenza, e solo se a buon prezzo, dopodiché può andare alla malora.

Conosco un giovane badante rumeno, un ragazzo, che “convive” con due vecchietti per accudirli giorno e notte, così privandosi dell’incoercibile indipendenza connaturata alla forza espansiva della giovinezza.

Conosco un disoccupato cronico, non più giovane, che convive con la depressione, che ogni giorno si mette in cerca di un qualche lavoro, di fare un qualcosa, e gira per la città piangendo.

Non ci riflettiamo mai abbastanza, ma il lavoro, quello tutelato, sottoposto, cioè, all’osservanza delle buone leggi, al di là del sostentamento, è la formazione stessa della personalità, è ordine e costruzione di vita, è relazione sociale.

E’ anche fatica, si capisce, talora spossatezza fisica, ma è fonte di autostima e gratificazione delle proprie abilità, è rispetto e dignità di chi si eguaglia agli altri, è benefico esercizio fisico e mentale, è orgoglio di fare e di appartenere, è amore di sé e degli altri.

Senza il lavoro, si sa, emergono i cattivi pensieri, il malanimo, l’invidia e l’odio, o, anche, l’impulso all’autodistruzione.

Viene in mente il celebre verso di Virgilio “labor omnia vincit” che richiama l’ancor più celebre “amor omnia vincit”: il lavoro come l’amore, l’amore come il lavoro, è capace di superare ogni ostacolo, sono entrambi principio e fine di ogni cosa. Senza il lavoro, sembra dirci il grande poeta latino, il senso dell’amore inaridisce, e, viceversa, l’amore si espande attraverso il lavoro. Probabilmente a questo pensava San Benedetto quando all’ordine da lui fondato dettò la regola dell’ora et labora.

Stavo infatti per intitolare questo scritto "elogio cristiano del lavoro", a voler sottolineare che il lavoro non è un accidente economico, una “cosa” riservata ai cervelli dell’economia, ma è anzitutto, soprattutto, un valore, un valore etico, che dovrebbe stare al centro del cuore e della mente di chi sa e sente il fervore del messaggio evangelico: “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”(Giov. 4,20).

Pensare (e far pensare) che l’economia non abbia niente a che vedere con i princìpi morali, di fatto è un modo di farsi complici del misfatto, è un far finta di non capire che senza questo primo atto d’amore, tutto il resto suona falso e derisorio.

Lo scandalo degli scandali nel nostro paese, e in tanta parte del mondo, è il lavoro, la paura, l’affanno, che domina questo fondamento vitale:il lavoro che non c’è, quello precario, quello che c’è, ma sottoposto alle angherie, alla minaccia costante di essere espulsi con un atto d’imperio burocratico.

Noi che siamo contro la violenza, dobbiamo dire che la violenza non è solo il sasso, il bastone, il colpo di pistola.

C’è una violenza invisibile, non riconosciuta, non contemplata tra i reati più gravi:se non vogliamo parlare dei suicidi, dei morti annegati, dei dispersi nel deserto africano, la disoccupazione, la precarietà, l’avvilimento di elemosinare un lavoro come che sia, non producono sangue, ma colpiscono l’anima, il cervello, e lasciano segni di disgregazione nella famiglia, nell’ambiente, nell’organismo sociale e civile del territorio.

Lo scandalo, per fare solo l’esempio più recente, è la chiusura della FIAT in un luogo dove non ci sono alternative, lo scandalo è la guerra tra i poveri, lo scatenarsi della violenza tra gli ultimi e i dannati della terra.

Il senso tragico dei fatti di Rosarno, di questa ennesima vergogna nazionale, è che lo scontro era inevitabile, cioè implicito e prevedibile, perché tutto accaduto in assenza di legge, di diritti naturali semplicemente umani, di strutture e occasioni d’incontro e di confronto. Gli uni, troppi in rapporto agli abitanti, sono lì portati come bestie da lavoro, scherniti; gli altri sono diffidenti e in apprensione: gli uni e gli altri senza tutela, abbandonati a se stessi.

Chi afferma che i rosarnesi sono razzisti, sottintende l’idea che la colpa è tutta lì, circoscritta in quel luogo, che quello che fu (e perciò che sarà) è un affare “tra loro”, tra la popolazione locale, “razzista”, e gli esasperati lavoratori extracomunitari.

Inquieta, peraltro, il fatto che sulla lacerazione di Rosarno l’unico atto sia stato quello dello “sgombero”: non una parola, da parte di chi ha la primaria responsabilità di governo, che rappacificasse gli animi, che desse spunto, ad esempio , a riunire civilmente attorno a un tavolo poniamo dieci lavoratori extracomunitari e dieci cittadini di Rosarno, per chiarire torti e ragioni guardandosi negli occhi:un primo bendisposto passo per porre rimedio agli errori, alle storture, a una cancrena che rode la coscienza morale e civile.

Ma forse si preferisce scaricare sul territorio problemi di portata nazionale che, ben si sa, la popolazione locale da sola non può risolvere.

E così, siamo costretti a scegliere tra gli schiavi vilipesi e i vilipesi (da sempre) abitanti di Rosarno, della fraterna Calabria: ma scelgo, con tristezza, con sdegno, ma risolutamente, gli schiavi, perché, oltretutto, senza famiglia, senza affetti, senza patria, fuggiaschi, esclusi, senza niente.

Proprio come scriveva alla madre il nostro emigrante del ‘900 nella famosa canzone napoletana di Libero Bovio: "I’ ch’aggiu perso patria casa e onore, i’ so’ carne ‘e maciello, so’ emigrante (io che ho perduto patria casa e onore, io sono carne da macello, sono emigrante).

Nicola Lo Bianco


Inviato dall'autore il 26/02/2010

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