Siamo qui a dialogare, a scrivere, a pensare, perché
qualcuno un giorno, nella notte dei tempi, usò i due
arti anteriori con l’intenzione di costruire qualcosa di
utile:la mani e la testa si aiutarono a vicenda e nacque
quello che chiamiamo “lavoro”. Cioè quell’abilità
riservata solo all’essere umano di costruire con
intelligenza e consapevolezza.
Nacque la collaborazione per un fine comune, il fattore
primario attorno al quale andò costituendosi la
societas.
E
così, il lavoro è l’identità stessa dell’uomo, senza di
esso è il vuoto, l’inconsistenza, tanto che, ieri come
oggi, milioni di persone si trasferiscono da un luogo ad
un altro, emigrano, sono disposti a rischiare la vita, a
morire, in mare o nelle miniere, a subire l’umiliazione
della stupidità xenofoba, a sopportare soprusi ed abusi,
a ritrovarsi in condizione di schiavitù, nella
condizione cioè di chi non può scegliere, di chi non può
dire di no, di chi non può dare certezza di futuro alla
propria vita, pena la possibilità stessa di
sopravvivere.
Ieri, essere schiavo equivaleva a essere solo uno
strumento di lavoro, oggi equivale a essere un oggetto,
“un pezzo di ricambio”, di cui servirsi all’occorrenza,
e solo se a buon prezzo, dopodiché può andare alla
malora.
Conosco un giovane badante rumeno, un ragazzo, che
“convive” con due vecchietti per accudirli giorno e
notte, così privandosi dell’incoercibile indipendenza
connaturata alla forza espansiva della giovinezza.
Conosco un disoccupato cronico, non più giovane, che
convive con la depressione, che ogni giorno si mette in
cerca di un qualche lavoro, di fare un qualcosa, e gira
per la città piangendo.
Non ci riflettiamo mai abbastanza, ma il lavoro, quello
tutelato, sottoposto, cioè, all’osservanza delle buone
leggi, al di là del sostentamento, è la formazione
stessa della personalità, è ordine e costruzione di
vita, è relazione sociale.
E’ anche fatica, si capisce, talora spossatezza fisica,
ma è fonte di autostima e gratificazione delle proprie
abilità, è rispetto e dignità di chi si eguaglia agli
altri, è benefico esercizio fisico e mentale, è orgoglio
di fare e di appartenere, è amore di sé e degli altri.
Senza il lavoro, si sa, emergono i cattivi pensieri, il
malanimo, l’invidia e l’odio, o, anche, l’impulso
all’autodistruzione.
Viene in mente il celebre verso di Virgilio “labor
omnia vincit” che richiama l’ancor più celebre “amor
omnia vincit”: il lavoro come l’amore, l’amore come
il lavoro, è capace di superare ogni ostacolo, sono
entrambi principio e fine di ogni cosa. Senza il lavoro,
sembra dirci il grande poeta latino, il senso dell’amore
inaridisce, e, viceversa, l’amore si espande attraverso
il lavoro. Probabilmente a questo pensava San Benedetto
quando all’ordine da lui fondato dettò la regola dell’ora
et labora.
Stavo infatti per intitolare questo scritto "elogio
cristiano del lavoro", a voler sottolineare che il
lavoro non è un accidente economico, una “cosa”
riservata ai cervelli dell’economia, ma è anzitutto,
soprattutto, un valore, un valore etico, che dovrebbe
stare al centro del cuore e della mente di chi sa e
sente il fervore del messaggio evangelico: “chi non
ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che
non vede”(Giov. 4,20).
Pensare (e far pensare) che l’economia non abbia niente
a che vedere con i princìpi morali, di fatto è un modo
di farsi complici del misfatto, è un far finta di non
capire che senza questo primo atto d’amore, tutto il
resto suona falso e derisorio.
Lo scandalo degli scandali nel nostro paese, e in tanta
parte del mondo, è il lavoro, la paura, l’affanno, che
domina questo fondamento vitale:il lavoro che non c’è,
quello precario, quello che c’è, ma sottoposto alle
angherie, alla minaccia costante di essere espulsi con
un atto d’imperio burocratico.
Noi che siamo contro la violenza, dobbiamo dire che la
violenza non è solo il sasso, il bastone, il colpo di
pistola.
C’è una violenza invisibile, non riconosciuta, non
contemplata tra i reati più gravi:se non vogliamo
parlare dei suicidi, dei morti annegati, dei dispersi
nel deserto africano, la disoccupazione, la precarietà,
l’avvilimento di elemosinare un lavoro come che sia, non
producono sangue, ma colpiscono l’anima, il cervello, e
lasciano segni di disgregazione nella famiglia,
nell’ambiente, nell’organismo sociale e civile del
territorio.
Lo scandalo, per fare solo l’esempio più recente, è la
chiusura della FIAT in un luogo dove non ci sono
alternative, lo scandalo è la guerra tra i poveri, lo
scatenarsi della violenza tra gli ultimi e i dannati
della terra.
Il senso tragico dei fatti di Rosarno, di questa
ennesima vergogna nazionale, è che lo scontro era
inevitabile, cioè implicito e prevedibile, perché tutto
accaduto in assenza di legge, di diritti naturali
semplicemente umani, di strutture e occasioni d’incontro
e di confronto. Gli uni, troppi in rapporto agli
abitanti, sono lì portati come bestie da lavoro,
scherniti; gli altri sono diffidenti e in apprensione:
gli uni e gli altri senza tutela, abbandonati a se
stessi.
Chi afferma che i rosarnesi sono razzisti, sottintende
l’idea che la colpa è tutta lì, circoscritta in quel
luogo, che quello che fu (e perciò che sarà) è un affare
“tra loro”, tra la popolazione locale, “razzista”, e gli
esasperati lavoratori extracomunitari.
Inquieta, peraltro, il fatto che sulla lacerazione di
Rosarno l’unico atto sia stato quello dello “sgombero”:
non una parola, da parte di chi ha la primaria
responsabilità di governo, che rappacificasse gli animi,
che desse spunto, ad esempio , a riunire civilmente
attorno a un tavolo poniamo dieci lavoratori
extracomunitari e dieci cittadini di Rosarno, per
chiarire torti e ragioni guardandosi negli occhi:un
primo bendisposto passo per porre rimedio agli errori,
alle storture, a una cancrena che rode la coscienza
morale e civile.
Ma forse si preferisce scaricare sul territorio problemi
di portata nazionale che, ben si sa, la popolazione
locale da sola non può risolvere.
E
così, siamo costretti a scegliere tra gli schiavi
vilipesi e i vilipesi (da sempre) abitanti di Rosarno,
della fraterna Calabria: ma scelgo, con tristezza, con
sdegno, ma risolutamente, gli schiavi, perché,
oltretutto, senza famiglia, senza affetti, senza patria,
fuggiaschi, esclusi, senza niente.
Proprio come scriveva alla madre il nostro emigrante del
‘900 nella famosa canzone napoletana di Libero Bovio: "I’
ch’aggiu perso patria casa e onore, i’ so’ carne ‘e
maciello, so’ emigrante (io che ho perduto patria
casa e onore, io sono carne da macello, sono emigrante).
Nicola Lo Bianco
Inviato
dall'autore il 26/02/2010