La canzone che adesso esamineremo è Marechiare pubblicata nel
1885 dall’editore Ricordi su versi di Salvatore di Giacomo e musica
di Francesco Paolo Tosti. Ne dò subito il testo così come è
riportato dallo spartito di Ricordi in Canti Napoletani d’autore
dell’Ottocento (1835-1898) alle pagg. 91-95 (nel libro di poesie
edito da Mondadori il testo presenta alcune piccole differenze nella
grafia delle parole).
I
Quanno sponta la luna a Marechiare
Pure li pisce ’nce fann’a l’ammore,
Se revotano l’onne de lu mare,
Pe’ la priezza cagneno culore.
Quanno sponta la luna a Marechiare.
A Marechiare ’nce sta na fenesta,
La passione mia ’nce tuzzulea,
Nu carofano addora int’a ’na testa,
Passa l’acqua pe’ sotto, e murmulea:
“A Marechiare ’nce sta na fenesta.”
Ah! Ah!
A Marechiare, a Marechiare,
nce sta na fenesta.
II
Chi dice ca li stelle so’ lucente
Nun sape st’uocchje ca tu tiene ’nfronte,
’Sti ddoje stelle li saccio io sulamente,
Dint’a lu core ne tengo li ponte.
Chi dice ca li stelle so’ lucente.
Scetate, Carulì, ca l’aria è doce,
Quanno maje tanto tiempo aggio aspettato?
P’accumpagna’ li suone co’ la voce
Stasera na chitarra aggio portato.
Scetate, Carulì, ca l’aria è doce!
Ah! Ah!
O scetate, o scetate,
scetate, Carulì, ca l’area è doce.
Anzitutto, cominciamo dal titolo. Marechiare è quello che
campeggia sullo spartito Ricordi. Invece, nelle varie raccolte delle
poesie digiacomiane il titolo che si legge, voluto probabilmente
dallo stesso poeta, è A Marechiare.
Il brano nasce non come canzone, ma come poesia e pertanto non ha la
tipica articolazione delle canzoni: tre strofe seguite da
ritornello. La struttura originale della lirica prevede quattro
stanze pentasiche (cioè di cinque versi ciascuna) di endecasillabi a
rima alternata dove l’ultimo verso di ogni stanza ripete esattamente
il primo verso.
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Salvatore Di Giacomo(Napoli, 12 marzo 1860 - il 5
aprile 1934) |
Di Giacomo afferma di aver composto la poesia senza conoscere
l’incantevole località che descriveva. Il luogo, una ristretta
insenatura lungo la costa di Posillipo, al tempo del nostro poeta
era un piccolo borgo noto ed apprezzato già dal tempo dei romani.
Pare che il suo nome, Marechiaro, derivi non dalla limpidezza
delle acque dalla loro calma: mare planum cioè mare-piano.
Secondo altri il nome mare planum sarebbe dovuto alla
presenza di un esteso bassofondo (la secca della Cavallara),
pericoloso per le navi di notevole stazza. Questa secca viene oggi
segnalata da una meda, una specie di piccolo faro galleggiante,
perché nel 1911 vi si insabbiò il grande incrociatore San Giorgio
[1]. Mare
planum diventa poi in dialetto napoletano Mare chiano e
quindi Marechiaro. Anticamente, il luogo era denominato Santa
Maria del Faro dal nome di una chiesetta esistente fin dal XIII
secolo costruita su un antico edificio romano di cui restano
visibili tratti della murazione ed alcuni frammenti. Il nome di
Marechiaro comparve nella toponomastica stradale soltanto nella
metà dell’Ottocento. Comunque il borgo di Marechiaro, ancor prima di
essere celebrato dalla notissima canzone, era da già tempo
immortalato in quadri e gouache ed era inoltre meta di gite in barca
(si pensi per esempio a quanto viene raccontato nella canzone
Napule ca se ne va!...). Però, sebbene il luogo fosse abbastanza
frequentato sia nel ’700 che nel primo ’800 fu solo dopo il successo
internazionale della canzone che divenne una rinomata meta
turistica.
Dunque, Carolina, la finestra e quant’altro citato nella lirica
sarebbe tutto frutto della fantasia di Salvatore Di Giacomo, mai
stato, per sua ammissione, a Marechiaro prima del 1885, anno di
pubblicazione della canzone. Questa fu voluta da Francesco Paolo
Tosti, autore di splendide romanze da salotto, che letto i versi
decise di acquistarli per apporvi la musica. Così nacque
Marechiare, una canzone che molti critici ritengono possa essere
considerata al pari di ’O sole mio, un vero e proprio inno
napoletano. Secondo il grande E.A. Mario, l’idea della canzone
deriverebbe da un libretto settecentesco di Francesco Cervone
musicato da Giacomo Insanguine, detto Monopoli: L’osteria di
Marechiaro.
Su Marechiaro Di Giacomo racconta un aneddoto che, se fosse
vero, ci dimostrerebbe come una canzone possa diventare
nell’immaginario collettivo «più vera del vero». Il poeta afferma di
essersi recato sul posto solo molti anni dopo aver scritto la
celeberrima lirica per accompagnarvi una studentessa inglese. In un
articolo per un giornale scrive «In
un giorno d’aprile, una piccola navicella a vela mi portò per la
prima volta laggiù, su quei lidi che, senza conoscerli, avevo
cantato e celebrato». E riferisce che lì, a Marechiaro,
trovò una trattoria con una finestra ornata da una pianta di
garofano mentre nel locale, a servire ai tavoli, c’era una cameriera
di nome Carolina. Il proprietario del locale, non conoscendo Di
Giacomo, ebbe l’ingenuità di raccontargli quanto segue: «Un
giorno il poeta venne qui a colazione, vide la finestra, vide i
garofani, vide Carolina e mise tutto nella canzone».
Marechiare è una serenata nonostante che il titolo ed i versi
iniziali facciano pensare ad una laude celebrativa per un luogo (qui
Marechiaro piuttosto che Napoli intera). La laude, però, si
esaurisce dopo i primi quattro versi che servono solo a creare
l’ambientazione per il parlante: quattro versi soltanto ma più che
sufficienti per esaltare in modo impareggiabile le bellezze del
posto. Il carattere celebrativo del canto è, quindi, solo
accidentale: come in tutte le canzoni napoletane composte prima del
’900, il luogo è associato ad una donna, vero nucleo intorno al
quale si articola il componimento. La canzone, perciò, è realmente
una serenata, una serenata che potremmo definire felice in quanto lo
stato d’animo di chi canta è sereno, è speranzoso e forse anche
scherzoso (Scetate Carulì). Ma la serenata è solo
immaginata: Carolina non è una donna reale ed inoltre i
versi inizialmente non sono destinati alla musica.
La poesia utilizza quel dialetto ricreato poeticamente dall’autore e
che non corrisponde a quello effettivamente utilizzato dal popolo.
Così abbiamo la luna, la priezza, la passiona, la voce invece
di ’a luna, ’a priezza, ’a passiona, ’a voce, poi li
pisce, li stelle, li pponte, li suone, invece di ’e pisce, ’e
stelle, ’e pponte, ’e suone, ed ancora lu mare, lu core,
invece di ’o mare, ’o core. Un’espressione come fanno all’ammore
è usata al posto di fanno ammore, scétete (che si
trova nel libro di poesie) viene usata al posto di scétate,
murmulea invece di murmuleia, ecc.
Sul giudizio critico per la composizione grava come un macigno
l’atteggiamento di rigetto dell’autore: Di Giacomo non amava questa
canzone perché il grandissimo successo riscosso da essa oscurava la
fama di altre sue composizioni a suo giudizio più meritevoli. In
effetti, i versi, che non sono tra i migliori del poeta, ad una
prima superficiale osservazione (la finestra sul mare col vaso di
garofani, gli occhi di Carolina più lucenti delle stelle, la
fanciulla che dorme, i pesci tra le onde del mare inebriati dalla
luna, l’innamorato che canta un’appassionata serenata) sembrano
elementi improntati ad un trito sentimentalismo di marca
pseudoromantica e borghese pieni di luoghi comuni di gusto
cartolinesco non senza qualche banalità fin troppo melensa.
Innumerevoli sono stati infatti i verseggiatori che hanno ripetuto
nei secoli temi come questi; ma i versi di Salvatore Di Giacomo
hanno l’impeto delle cose nuove, immuni dal peso della tradizione.
Ad una più attenta analisi infatti ci si accorge che, malgrado la
limitatezza dell’insieme, la bellezza della poesia risiede nei vari
particolari, nella qualità raffinata delle immagini articolate su di
un linguaggio tenue e spigliato, tutto un proporsi e un guizzare di
accenti, di vocaboli, che si risolve spesso nel suono delle parole
stesse (si pensi alla bellezza di termini quali se revotano,
priezza, tuzzulea, delle vere e proprie chicche!) e che si
tramuta in un ritmo di melodia, con un testo che si muove su colori
e sfumature squisitamente solari, non mai crepuscolari o intimiste.
Si avverte nella composizione un’esuberanza di canto lieto, una
specie di gioia bacchica per l’incanto marino e passionale, dietro
alla quale traspare un temperamento amoroso con tratti tristi e
malinconici: l’autore è un artista incredibilmente sensibile che
partecipa, commosso, alla realtà circostante; è un’anima che
s’imbeve del colore del cielo e del mare componendoli in un
meraviglioso paesaggio immaginario che di Marechiaro ha solo il
nome; è un’alchimista capace di trasfigurare liricamente le immagini
di una realtà incolore e indifferente in versi gai e leggeri in un
prodigio di un edonismo sensoriale, in un godimento dell’anima. I
suoi sentimenti si accendono in una festa di scintillio: la piccola
insenatura è illuminata da un fascio di luce lunare che rende il
mare fosforescente. La luminosità è anche negli occhi di Carolina:
brillano più di due stelle le cui punte hanno trafitto il cuore
dell’innamorato. Nel paesaggio luci ed ombre si affollano, si
rincorrono e si sovrappongono tanto da far esclamare il poeta,
riguardo le onde, che pe’ la priezza cagneno culore. Ed è
proprio nella semplicità dell’ispirazione, nella capacità di
evocazione poetica degli aspetti più elementari e usuali della vita
popolare, che Di Giacomo, autore colto, riesce ad incontrarsi con
l’animo ed i costumi umili del popolo!
Nella prima parte la serenata si sviluppa sullo sfondo di un
delizioso quadretto marino, colorito e dinamico ricco di immagini
vigorose e suggestive. Il canto esprime, con una singolare vivacità
e spontaneità di accenti, la ricchezza di suoni e di luci immaginata
per quell’angolo di Posillipo nel quale il mare è visto nella
perfetta felicità di sogno paradisiaco. Il fascino della natura
suggerisce a Di Giacomo accenti di poesia che sembrano riunire in
essenza i colori scuri della notte con i chiari della luna e delle
stelle, il concerto del fraseggio delle onde con le note della
chitarra, la fragranza del garofano con l’odore del mare; una
serenata capace di combinare in un unicum sogno, realtà e fantasia.
Ognuno di questi particolari viene assaporato dall’autore con animo
estatico: la poesia nasce gioiosa e fresca nella brezza carica di
essenze, nell’abbraccio ritmico tra acqua e scogli svelandoci
l’aspetto poetico delle pulsioni di un luogo visto come una creatura
palpitante. Il testo, di evidente e spiccato gusto pittorico, si
presenta, nello stupore di un quadro incantato, impreziosito,
specialmente nella prima parte, di belle immagini di immediato
impatto emotivo: pesci ammaliati, mare tripudiante, amore che si
materializza bussando alla finestra...
Nella seconda parte segue all’esaltazione della bellezza dei luoghi,
quella degli occhi di Carolina nel mentre il protagonista chiarisce
e interpreta il suo ruolo di cantatore. Qui la poesia perde un po’
di efficacia, ma sorge lieto e appassionato l’invito dell’uomo
all’amata, Scetate Carulì... una invocazione fatta con la
voce spiegata a distesa con un’intonazione nella quale confluiscono
l’amore, la saggezza, il trasporto ma anche l’ironia di un
innamorato risentito per gli attimi che si stanno sprecando,
desideroso di gustare l’adorato sorriso, di bearsi del dolce
incontro e che in questa trepidante attesa unisce alla ovvia
impazienza una sfuggente nota di nostalgia. Scetate Carulì...:
la frase sentenziosa è sì un invito ad incontrarsi ma anche un
invito a godere di ogni attimo della vita, e si può intravedere in
essa forse anche un vago rammarico (ma qui certamente solo casuale)
per la brevità dell’esistenza. Nell’incitamento a Carolina di godere
dell’aria dolce c’è tutto lo slancio di ogni parola così che forse
la lirica digiacomiana non è stata mai più gioiosa, più entusiastica
di quanto appaia qui, in questo invito all’amore. Siamo in presenza
di uno dei momenti più ottimistici e vitalistici della sua
produzione poetica. Così centrale è questa esortazione che tutto ciò
che la precede e che la segue pare serva solo da preparazione e da
conclusione: il punto focale della canzone è qui, è tutto incentrato
su quest’unica frase che si imprime nel cuore e nella mente
dell’ascoltatore. Chi mai conoscendo solo poche parole del testo
ignora proprio queste? E chi cantando qualche quartina salta proprio
questa? L’esortazione all’amata è il fulcro che monopolizza la
composizione tanto che la canzone potrebbe tranquillamente
intitolarsi Scetate Carulì. La frase è finita per entrare
finanche nel linguaggio comune dei napoletani, diventando una
pittoresca espressione rivolta a chi ha la testa tra le nuvole, un
modo di dire che va a intersecarsi con l’espressione proverbiale
«chi dorme non piglia pesci».
Come abbiamo detto, questi versi colpiscono il compositore Francesco
Paolo Tosti che decide di acquistarli per poterli musicare.
Anzitutto per dare alla composizione una forma più di canzone divide
la lirica in due parti a cui assegna la stessa musicazione. Ad ogni
parte poi dà due diversi periodi musicali, uno per i primi cinque
versi e l'altro per i successivi cinque. In questo modo viene
recuperato il ritornello. Ogni ritornello viene infine completato da
un vocalizzo e dalla ripetizione degli elementi essenziali presenti
nel primo verso del ritornello stesso (Ah!......................
A Marechiare, a Marechiare, nce sta na fenesta).
Ma è l'introduzione, che fa anche da ponte, il vero gioiello
musicale della canzone. È una melodia scoppiettante, piena di brio,
di verve, di fascino, orecchiabile ma non banale che unisce qualcosa
di operistico a stilemi tipicamente popolareggianti. Questa parte,
sviluppata in tonalità di Re-, presenta nell'armonia gli stereotipi
il tipico abbassamento del secondo grado (Mi♭)
con conseguente seconda eccedente che conferisce alla musica un
carattere squisitamente tradizionale. L'accompagnamento sul basso,
molto regolare, sempre di quattro crome, simula la chitarra
alternando al basso due note, Re e La, secondo uno stereotipo
largamente presente in molte canzoni napoletane. Lo spunto per
questa introduzione sembra sia provenuto da un oscuro posteggiatore
che ogni sera in una modesta trattoria di via Toledo prima di
iniziare il suo lavoro, ripeteva sul suo flauto «stonato» la
frasetta che troviamo nell'introduzione della canzone.
Nello sviluppo del canto, Tosti legge ed enfatizza le poche efficaci
pennellate verbali del poeta con una musica fresca e appassionata
che inserisce sonorità della tradizione popolareggiante in un
contesto raffinato, capace di esaltare a tutto tondo la priezza
del quadretto ambientale. Il musicista propone un modello di
serenata diverso dal solito, una specie di esplosione di gioia, un
personalissimo racconto del mondo magico dei sentimenti che riesce a
trasmettere sensazioni di stupore e di novità. Tosti è attento a
colorare di popolaresco questa musica ricorrendo ad un uso sapiente
dell'alternanza del modo minore e del modo maggiore, insistendo
sull'intervallo di seconda eccedente, ricorrendo ad ornamentazioni
tipiche del melodizzare tradizionale e inserendo una sesta
napoletana nella ripetizione del primo verso del ritornello. In
tutto questo il ritmo si mantiene semplice (sempre la successione di
quattro crome) e l’armonia facile.
Quanto visto per l'introduzione si ripete nella coda sulla cui una
melodia la voce intona un Ah!, che evoca una cantilena
marinara. Il risultato è veramente eccellente capace di sintetizzare
tutti gli aspetti poetici e coloristici della canzone partenopea:
una melodia piacevole, allegra e vigorosa, ben articolata nello
sviluppo di frasi stilisticamente equilibrate e compiute che trova
compimento in una cantilena suggestiva e passionale. È una canzone
contemporaneamente sensuale e ardente, estatica ed emotiva,
vigorosamente colma di vita e di traboccante edonismo.
Tosti realizza una corrispondenza stretta tra poesia e musica,
usando su un linguaggio espressivo nel quale fa incontrare
felicemente le radici popolari con una notevole sapienza musicale.
La melodia penetra, descrive, sottolinea il sentimento del poeta: il
musicista esprime con gusto prezioso e raffinato, il piacere di
capire e interpretare le immagini eteree ed incantate del testo,
attraverso morfologie musicali dal piglio vivace e dall’accento vivo
e frizzante, il tutto con una maestria unica nell’appoggiarsi alla
musicalità del verso, nel coglierne gli accenti per far
corrispondere ad essi la tensione melodica adatta. La musica
trascina i verbi avvolgendoli come un in manto e rinnovando le
sensazioni e le disposizioni d’animo del poeta, così da creare una
perfetta armonia tra testo e musica.
La canzone si risolve in un continuo brioso anche nelle immagini più
tipicamente estatiche; ciò potrebbe sembrare contraddittorio ma in
effetti non lo è perché quello che la melodia descrive è il
sentimento dell’artista verso la situazione. Con questo non sono
esclusi elementi di pathos che però passano attraverso una variegata
gamma di colori: il sentimento diventa musica e questa si trasforma
in colore. E così, la musica, arrivata al nome della donna,
rallenta appena soffermandosi quanto basta su di esso per
conferire al verso Scètate, Carulì ca ll’aria è doce! la
valenza di un richiamo lontano per la fanciulla che non vuole
saperne di svegliarsi. Subito dopo, però, le note si sprigionano di
nuovo veloci, piene di energia, ritornano a zampillare con guizzi
fantasiosi come gli spruzzi dei marosi con un fraseggio elegante
dall’incredibile impatto emotivo. Questo atteggiamento allegro
genera in chi ascolta una leggerezza gioiosa, una spinta al canto:
la luminosità del paesaggio notturno attira l’ascoltatore in un
gioco festoso di suoni, quasi un omaggio alla natura, che non manca
di contagiare.
La canzone diventa subito una delle più popolari dell’epoca, nota in
breve in Europa, in America e anche altrove. Conquista una celebrità
tale da essere tradotta in molte lingue, persino in latino.
Quest’ultima cosa è così curiosa che vale la pena di riportarne
l’incipit:
Luna cum Claris Maris exstas undis
aestuant pisce furiis amoris:
pura perlabens variat micantes unda colores
(Quanno sponta la luna a Marechiare / pure li pisce ’nce fann’a ll’ammore,
/ Se revòtano l’onne de lu mare, /Pe’ la priézza cágneno culore,).
C’è chi ritiene che Di Giacomo si sia ispirato per l’incipit di
Marechiaro a un canto popolare riportato sia da Casetti-Imbriani (Canti
popolari delle provincie meridionali, II, 403) che da Molinaro
Del Chiaro (Canti popolari raccolti in Napoli, n. 481, p.
310).
Ecco il confronto:
Quanno sponta la luna a Marechiare S’è aperta na cantina miezo
mare
Pure li pisce ’nce fann’a l’ammore, E ghiusto di rimpetto a
Morveglino
Li pisce
là se vanno decreare.
Se questa corrispondenza può sembrare un po' generica limpida
appare, invece, quella che si rileva per l'ultima stanza di
Marechiare (là dove l'esecutore della serenata invita Carolina a
svegliarsi avendo egli portato con sé una chitarra). Di Giacomo
mostra di essersi ispirato a un canto leccese (riportato dal
Casetti-Imbriani, II, 337):
Scetate, bella mia, lu tiempu è quetu;
e a uno di Merine (Otranto) (ib., II, 124):
Alzati, Ninna mia, te ’nfaccia e sienti,
[...]
sutta alla tua finescia stau prisenti.
La chitarra sse ferma.
Grazie alla canzone il borgo di Marechiaro è entrato a far parte
dell’iconografia classica napoletana. Ma in ciò bisogna riconoscere
forse un po’ di merito anche all’idea di quell’oste di ricostruire
fedelmente l’ambientazione dei versi.
La canzone, diventata un classico, è entrata nel repertorio di molti
cantanti lirici perché particolarmente adatta ad esprimere
l’esuberanza tenorile e la tecnica del fraseggio. L’altezza della
tessitura, la vivacità e l’eleganza del piglio, valorizzano di
queste voci le qualità di modulazione e il garbo che riescono a
mettere negli accenti più vivi e frizzanti ed offrono loro nel
contempo la possibilità di esibirsi in smorzature impegnative. Si
conservano le incisioni dei tenori Albanese, De Lucia, Gigli, Ruffo,
Gobbi, Bechi, Schipa, Di Stefano, Lanza, Pavarotti, Carreras,
Domingo; e dei cantanti con trascorsi di lirica Parisi, Vanorio, F.
Ricci, Pane, N. Gallo. La canzone è entrata inoltre nel repertorio
dei maggiori interpreti della musica italiana: Virgili, Villa,
Venturini, Rondinella, Rondi, Al Bano; e poi Pasquariello, Taranto,
Bruni, Fierro, P. Di Capri, Ranieri, M. Doris, L. Sastri, Licciardi,
Gloriana, Buonomo, N. Fiore, Carlo Buti, Milva, Gabriella Ferri...
(per citarne qualcuno). Vi sono poi le interpretazioni dei cantanti
chitarristi: Murolo, A. Romeo, Cigliano, Maglione.
Renato Gargiulo
Note
[1] San Giorgio era il nome della prima nave italiana dell’era
moderna, un incrociatore corazzato di 10.000 ton. di dislocamento e con un
equipaggio di 700 uomini. Venne varato dai cantieri navali di Castellammare di
Stabia nel 1910. Dopo pochi mesi, nel 1911 il Capitano di Vascello marchese
Gaspare Albenga, per far ammirare la costa alla marchesa Boccardi Doria, fece
incagliare la nave sulla secca della Cavallara (anticipando di 101 anni il
naufragio dell’isola del Giglio). Dopo i primi vani tentativi di disincaglio si
pensò addirittura di demolire la nave. Però con
l’alleggerimento dello scafo, smontando tutto quello che era
asportabile, finalmente
si riuscì a far riprendere il mare all’incrociatore.
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