Le Pagine di Storia

 

La rivolta di Masaniello

e la Repubblica Napoletana

di Alfonso Grasso

Ernesto Tatafiore, Masaniello

La rivolta di Masaniello

Nella prima metà del ‘600 Napoli era precipitata in una gravissima crisi socio-economica, aggravata dall’assoggettamento alla corona di Spagna che, combattendo guerre sempre più dispendiose, esigeva da Napoli esosi balzelli. Nel 1646 il viceré spagnolo Rodrigo Ponce de Leòn, duca d'Arcos aveva ulteriormente aumentato il carico di tasse applicate, sicché l’anno successivo bastò l’aumento del prezzo della frutta fresca, perché il 7 luglio del 1647 la rivolta scoppiasse in tutta la sua violenza al grido di “Viva il re di Spagna, mora il malgoverno”. Il motto dimostra la gran confusione regnante nel popolo, per il quale il re impersonava ancora la giustizia e i ricchi l'arbitrio. Non fu una rivolta antispagnola, come vorrebbe la storiografia italiana dell'Ottocento, impregnata di retorica nazionalistica, ma un’insurrezione scaturita dalle miserevoli condizioni in cui versava il popolo.

Micco Spadaro, "La rivolta di Masaniello". Napoli, Museo di San Martino

I “lazzaroni”, guidati da alcuni capi tra cui Masaniello [1] e suo cugino Maso, armati con armi sottratte alle caserme o ai soldati, sbaragliarono la guardia spagnola e si riversarono in Palazzo Reale. Travolto chiunque altro tentasse di fermarli, irruppero negli appartamenti del vicerè abbandonandosi alla devastazione. L'ira popolare si abbatté contro nobili e borghesi, molti palazzi signorili furono dati alle fiamme e furono commessi ogni sorta di delitti. Gruppi di rivoltosi devastarono gli uffici daziari bruciandone i registri e aprirono le carceri. Furono attaccate anche le case di funzionari governativi, come quella di Girolamo Letizia, considerato un infame gabelliere, che fu distrutta e data alla fiamme nei pressi di Portanova. Venne quindi insediato un Comitato Rivoluzionario nella Chiesa del Carmine.

Il viceré duca d'Arcos era uomo inetto e pavido per natura, e fu pertanto assolutamente incapace di affrontare una situazione tanto drammatica e pericolosa, che minacciava di ora in ora di allargarsi, come una macchia di olio, anche nelle altre province del reame. Il duca ebbe appena il tempo per riparare precipitosamente nel vicino convento di San Luigi e, quando capì che nemmeno lì stava al sicuro, fuggì con pochi fedeli nel Castello di Sant'Elmo. Ma il capitano del forte, Martino Galiano, non poté fare gran che per l'illustre ospite, perché non disponeva di riserve di munizioni e viveri. Al viceré, quindi, non restò altra alternativa che ridiscendere in città ed accettare le umilianti e pesanti condizioni imposte da Masaniello.

Questi era consigliato dal letterato Giulio Genoino [2] – secondo alcuni il vero ideatore della rivolta – ed ottenne dal viceré la concessione di una costituzione popolare sul modello dei capitoli di Carlo V, che fu redatta dallo stesso Genoino. Masaniello fu nominato “Capitano generale del fedelissimo popolo”. Seguirono alcuni giorni di pace apparente che servirono agli Spagnoli per rifornire abbondantemente i castelli della città.

Masaniello, inebriato del potere, cominciò ad ordinare provvedimenti ed esecuzioni arbitrarie, tanto che la sua breve esperienza rivoluzionaria si concluse appena nove giorni dopo l'inizio dell'insurrezione, il 16 luglio, quando fu ucciso. Quel giorno, in cui si festeggiava Maria SS. del Carmine, Masaniello, affacciato alla finestra della sua casa, aveva pronunciato un discorso farneticante, accompagnato da gesti insulsi ed era arrivato persino a denudarsi. I popolani venuti ad ascoltarlo, gli si rivoltarono contro, sembra con l'appoggio dello stesso Genoino. Masaniello fuggì nella chiesa del Carmine, riparando sul pulpito. Venne però catturato e ucciso a colpi di archibugio da tal Ardizzone con alcuni compari. Uno di loro, Salvatore Catania, decapitò il corpo di Masaniello con un coltello. La testa fu portata al viceré come prova, mentre i poveri resti furono trascinati per l’intera piazza, poi abbandonati in pasto ai cani.

Il giorno dopo alcuni popolani raccolsero i miseri resti che furono tumulati, con gli onori militari dovuti ad un generale, nella Chiesa del Carmine  [3]. Una lapide ed una statua nella chiesa del Carmine ed una piazzetta nei pressi di Piazza Mercato ricordano oggi Masaniello. Molto miserevole fu anche la sorte della moglie di Masaniello, Bernardina Pisa, sposata nel 1641. Rimasta sola dovette prostituirsi per campare. Morì poi di peste, nel 1656.

La rivoluzione non finì con la morte di Masaniello. La città era caduta in uno stato d’anarchia, contrassegnato dagli scontri tra i ceti borghesi che si erano uniti ai rivoltosi e la nobiltà napoletana. Ad aumentare il clima di forte instabilità vi erano anche l’azione della Francia, che intendeva approfittare dell’occasione per rinverdire le pretese sul Regno di Napoli. Gli scontri contro la nobiltà e i soldati spagnoli si susseguirono violentissimi per tutto luglio e agosto. Fu infine dichiarata la Repubblica Napoletana, che fu subito riconosciuta dalla Francia.

La Repubblica Napoletana

Il 22 agosto 1647, di fronte alla minaccia del vicerè di far bombardare Napoli dai forti, una folta schiera di rivoltosi si avviò verso Sant'Elmo per attaccare la fortezza. Andrea Polito, uno dei capi, aveva fatto scavare un profondo cunicolo sotto le mura orientali, minandole. Occorreva soltanto accendere la miccia per aprire la breccia attraverso la quale assalire il castello, ma Toraldo Francesco, principe di Massa, che alla morte di Masaniello aveva assunto il comando dei rivoltosi, impedì l'azione e preferì patteggiare con il vicerè. L'accordo fu raggiunto ed i capitolati di pace furono firmati e giurati il 7 settembre 1647 nella cappella di Santa Barbara di Castelnuovo. L'unica clausola non accettata dal vicerè fu la custodia del Castel Sant'Elmo in mani napoletane, col pretesto che mancava la necessaria approvazione del re di Spagna. In effetti, gli Spagnoli miravano a guadagnare solo un po’ di tempo, quello necessario per l’arrivo della flotta.

Micco Spadaro, "Piazza Mercatello durante la peste del 1656". Napoli, Museo di San Martino

Infatti, dal 10 ottobre 1647 la città venne furiosamente bombardata dai castelli e dalle navi della flotta spagnola, agli ordini di don Giovanni d'Austria. Sul finire del mese, Andrea Polito venne impiccato, ed il suo corpo appeso ad uno dei finestroni di Castello Sant’Elmo. I rivoltosi non si arresero, anzi la sollevazione divenne generale, e non fu più, come al tempo di Masaniello, una povera rivolta dei lazzari contro i ricchi, ma assunse, sotto la guida di Gennaro Annese [4], un chiaro carattere indipendentista o, comunque, antispagnolo. Le truppe spagnole furono ricacciate nei forti e il 22 ottobre 1647 fu dichiarata la Repubblica Napoletana. Si cercò subito la protezione delle Francia, che rispose inviando la flotta nel Golfo di Napoli. Ad Enrico di Lorena, duca di Guisa [5], sbarcato a Napoli il 15 novembre 1647, venne affidata la guida della Repubblica. e contattarono appunto Enrico di Lorena, per affidargli la guida di Napoli. Dopo due secoli, Napoli tornava così nell'orbita francese. La repubblica assunse diversi nomi ufficiali, che ne evidenziano la doppia natura, allo stesso tempo repubblicana e monarchica: "Serenissima Repubblica di questo regno di Napoli", "Reale Repubblica" e "Serenissima Monarchia repubblicana di Napoli". La bandiera repubblicana fu un vessillo con scudo rosso recante la sigla S.P.Q.N., sormontato dalla parola "Libertas" e dallo stemma del duca di Guisa.

I forti ancora in mani spagnole vennero posti sotto assedio. Per isolare Castel Sant'Elmo, furono abbattuti casolari e falciati centinaia di alberi. Anche i monaci della Certosa furono invitati a demolire alcuni fabbricati. Intanto i nobili filo-spagnoli, riuniti ad Aversa, controllavano con le loro bande armate la provincia e quindi i rifornimenti della città. Le truppe del duca di Guisa riuscirono nel gennaio 1648 a rompere questo assedio, conquistando Aversa.

La guerra continuò fino al marzo del 1648. Gli Spagnoli, concentrati tutti i poteri nelle mani di Don Giovanni d'Austria, usarono una tattica attendista, che mirava a logorare l’avversario. Con la promessa di futuri privilegi, si assicurarono la fedeltà del ceto aristocratico e potevano contare sull’appoggio incondizionato del clero. Il 5 aprile 1648 gli Spagnoli sconfissero il duca di Guisa, grazie anche al tradimento di alcuni dei suoi stessi notabili. Napoli fu rioccupata praticamente senza colpo ferire. Il duca di Guisa venne inviato in carcere a Madrid ed i capi ribelli giustiziati. Gennaro Annese, “l’anima” popolare della Repubblica Napoletana, venne decapitato in Piazza del Mercato. Con l'arrivo del nuovo vicerè de Guevara, conte di Ognate, e la partenza dell'odiato duca d'Arcos, il 6 aprile 1648 si concluse finalmente la pace. L'eco degli eventi napoletani giunse fino all'Inghilterra dove Oliver Cromwell instaurò la repubblica nel 1648.

Per ben due volte, il 4 giugno ed il 4 agosto 1648, la flotta francese si ripresentò nel Golfo, riuscendo a  sbarcare a Procida, ma Napoli non si sollevò poiché stremata da più di un anno di rivoluzione. I Francesi, sconfitti a Ischia, Pozzuoli e Salerno, dovettero definitivamente ritirarsi.

Il 3 giugno del 1649, scoppiarono a Napoli nuovi tumulti che furono rapidamente repressi. Il Regno di Napoli rimase sotto il dominio spagnolo fino al 1713.

presunto ritratto di Masaniello

Conclusioni

L’effimera rivolta di Masaniello e i successivi avvenimenti della Repubblica segnano un periodo critico nella complicata storia del Regno di Napoli. Le continue guerre dell’epopea aragonese (1442-1503) e la successiva conquista di Ferdinando il Cattolico del 1503 avevano impoverito le campagne e sovrappopolato la capitale. La Spagna utilizzò il Regno come una colonia da cui attingere risorse, ed in questa opera fu coadiuvata dal clero e dall’aristocrazia napoletana. Tra le conseguenze più significative ci fu il pauperismo dilagante e la completa sfiducia verso le istituzioni statali e per gli uomini che le rappresentavano. “Sbirri” e soldati, gabellieri e doganieri, funzionari e giudici divennero con la dominazione spagnola strumenti di repressione e di potere, del tutto estranei alla società popolare napoletana nei costumi, nel modo di pensare, a volte nella lingua. Tale distacco fu talmente forte da imprimersi quale retaggio indelebile nella mentalità popolare partenopea. Nacquero così le figure dei “guappi”, controllori di “codici” popolari per amministrare la vita di tutti i giorni e per la soluzione di controversie, e nacquero di conseguenza le “società” camorristiche: un surrogato di uno stato che non si occupava della gente. Il clero – era l’epoca dell’inquisizione e delle "streghe" al rogo – era gratificato da tale situazione in quanto poteva esercitare la massima influenza sui semplici e gestire i rapporti con il potere. In quegli anni si ampliò il solco tra nobili e popolani, e la nascente borghesia fu umiliata. Gli aristocratici furono colmati di privilegi dagli Spagnoli ed utilizzarli a fini sociali per il mantenimento dello status quo. Generalmente la nobiltà napoletana si rivelò sempre più attenta alle rendite che alle attività lavorative, viste addirittura con ripugnanza. Anche questa caratteristica peserà a lungo e negativamente sui destini del Sud.

Alfonso Grasso


Bibliografia

  • Pirovine Eugenio, Napoli e i suoi Castelli, Edizioni Del Delfino


Note

[1] Masaniello, accorciativo di Tommaso Aniello, era un umile pescivendolo nato nel 1620 da Francesco D'Amalfi (cognome e non località), e da Antonia Gargani. Era finito spesso in carcere per proteste contro il governo del viceré spagnolo e per il contrabbando del pesce. Questo l’aveva reso molto popolare tra le classi umili, e lo aveva fatto notate dai borghesi, che videro in lui l'individuo capace di farsi interprete del malumore popolare e di guidare l'insurrezione contro il governo spagnolo. Riguardo all’aspetto fisico, era basso di statura, bruno di carnagione, con capelli castani raccolti in un piccolo codino dietro la testa.

[2] Giulio Genoino, letterato già noto dal 1620 come difensore del popolo contro la nobiltà e l'eccessiva tassazione, dopo un lungo esilio seguito a un processo e alle torture, era rientrato a Napoli e divenne “l’eminenza grigia”  di Masaniello e ispiratore delle idee rivoluzionarie. Dopo lo scoppio della rivolta, i rapporti tra lui e Masaniello si guastarono rapidamente.

[3] Secondo alcuni, il corpo fu fatto riesumare da Ferdinando IV per timore che il mito di Masaniello potesse rinascere. Secondo un’altra ipotesi, formulata da Ambrogio de Licata, i resti di Masaniello si troverebbero oggi poco distante dalla chiesa, nell’area occupata dal porto, a circa dieci metri di profondità.

[4] Di mestiere armaiolo.

[5] Enrico di Lorena, duca di Guisa, discendeva da Renato d'Angiò.

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