Le Pagine di Storia

 

 

Vai all'elenco delle letture sul periodo postunitario

La distruzione di Montecassino

(inverno 1944)

di Marco Liguori

 

L’abbazia di Montecassino fu distrutta da un errore di traduzione. Anzi per meglio dire fu uno scambio tra un nome di genere femminile e uno di genere maschile alla base dell’eliminazione di uno dei monumenti della cristianità, a causa di un bombardamento effettuato da una miriade di aerei anglo-americani.

E’ il febbraio del 1944, le forze alleate sono inchiodate sul fronte di Cassino dalle truppe tedesche e non riescono ad avanzare di un solo metro. La "linea Hitler" o "sbarramento Senger", costruito dalle truppe del Terzo Reich tra i monti Aurunci e la valle del Liri, bloccava il nemico che si scontrava ripetutamente contro di essa con numerosi attacchi, respinti con notevoli perdite. Si sarebbe potuto aggirare subito l’ostacolo con una manovra avvolgente, secondo il piano del generale francese Juin, ma il comando supremo alleato si volle scontrare con il muro di Cassino. A nulla era servito lo sbarco ad Anzio e Nettuno, sulle cui spiagge era rimasto fermo il contingente guidato dal generale americano Lucas, un "re tentenna" colpevole di non aver lanciato subito l’offensiva verso Roma per spezzare le retroguardie tedesche.

Ma l’errore più grave, che costerà un tributo altissimo di sangue per le forze alleate, fu il bombardamento dell’abbazia e dell’abitato di Cassino, le cui macerie rallentarono notevolmente la spinta offensiva delle truppe attaccanti. La distruzione del monastero fondato da San Benedetto nell’Alto Medioevo fu chiesta a gran voce dal generale sir Bernard Freyberg, comandante del corpo d’armata neozelandese, comprendente la 2a divisione di fanteria della Nuova Zelanda, la 4a divisione di fanteria indiana e la 78a divisione di fanteria britannica. I neozelandesi avevano sostituito la 36a divisione americana, utilizzata negli attacchi alla cittadina laziale, mentre gli indiani avevano dato il cambio alla 34a divisione americana (detta dei "Red bull", Tori rossi) impegnata nel nord del fronte. Entrambe le unità Usa erano state decimate dagli attacchi contro i tedeschi, che non avevano modificato il dispositivo difensivo. Quest’ultimo era composto dalla 15a Panzergrenadier, appoggiata dal grosso dell’artiglieria del XIV Panzercorps, forte di 180 cannoni, un consistente numero di carri lanciarazzi Nebelwerfer e una sessantina di carri armati Panther e Tigre. I difensori erano agevolati nel loro compito dal territorio impervio, costituito da rocce brulle presenti in modo particolare sul colle dell’abbazia.

carro Tigre

Tuttavia Freyberg pensava di riuscire ad accerchiare il nemico, tramite una manovra a tenaglia condotta a nord dalla divisione indiana, che avrebbe dovuto conquistare il colle dov’era situata l’abbazia, mentre i neozelandesi avrebbero conquistato l’abitato di Cassino. Le sue truppe vittoriose avrebbero scacciato i tedeschi e li avrebbero incalzati sino ad Anzio a Nettuno, dove si sarebbero ricongiunte con l’armata alleata rimasta ancora inchiodata sulla spiaggia. Per portare a termine il suo piano, il generale neozelandese pretese la distruzione del monastero, che sovrastava la cittadina e la valle del Liri a 519 metri d’altezza. Secondo Freyberg, i tedeschi avevano installato un osservatorio di artiglieria all’interno dell’abbazia, costituito da canoni di grosso calibro, e di conseguenza il celebre monumento medioevale doveva essere polverizzato tramite un massiccio attacco aereo. A nulla valsero le proteste del generale Mark Clark, comandante della 5a armata americana, che considerava il bombardamento del simbolo della regola benedettina "ora et labora" un vero e proprio atto vandalico. E Clark aveva ragione.

gen. Bernard Freyberg

gen Mark Clark

E’ stato infatti provato più volte che alla vigilia del 15 febbraio c’erano nei pressi dell’abbazia soltanto tre soldati tedeschi di guardia, incaricati proprio di interdire l’accesso alle truppe naziste. Quindi non c’era nessun militare all’interno delle mura benedettine: non c’era quindi alcun motivo per distruggere il monastero. Freyberg era incalzato dal pessimo umore dei suoi soldati, che ritenevano di essere "spiati" e colpiti dall’artiglieria tedesca presente nello storico edificio benedettino. Nel suo libro di memorie, il maggiore medico americano Luther Wolff impegnato con il suo ospedale da campo nei pressi di Montelungo (situato ai confini della Campania, non lontano da Cassino, dove pochi mesi prima gli italiani del corpo di liberazione avevano combattuto per la prima volta contro i tedeschi), in cui si curavano i soldati alleati feriti al fronte, riferisce di un episodio particolare. "I fanti feriti che arrivano da noi ci dicono che stanno prendendo una batosta terribile per tentare di salvare l’abbazia di Montecassino e tutti sono furiosi perché i pezzi grossi vogliono risparmiarla. Dovremmo superare questo fair play sentimentale. I feriti sono tutti d’accordo: bisogna distruggere il monastero".

Abate o battaglione?

Il generale neozelandese tuttavia perorò la propria causa nei confronti del proprio superiore, il maresciallo inglese Harold Alexander comandante del 15° gruppo di armate in Italia. Lo fece attraverso un’argomentazione tragicomica, costituita da un’intercettazione radio mal compresa dagli interpreti inglesi. La conversazione tra due gruppi di soldati tedeschi recitava "Wo ist der Abt.? Ist er noch im Kloster?". L’ufficiale dell’intelligence inglese tradusse "Dov’è il gruppo? E’ sempre nel convento?". E qui casca l’asino, nel vero senso dell’espressione. Lo zelante soldato dell’intelligence alleata pensò subito che l’abbreviazione "Abt.", corrispondesse al vocabolo femminile tedesco abteilung, la cui traduzione italiana è battaglione. Peccato che, nell’eccitazione del momento, non gli sfiorasse minimamente la mente il pensiero che la sigla tedesca potesse essere tradotta con il vocabolo più logico e cioè abate, che è di genere maschile. Questo errore grammaticale, apparentemente insignificante, ha decretato la polverizzazione del monastero di Montecassino. Ma c’è un altro particolare ancora più sconcertante e paradossale. Il generale "Gertie" Tuker, comandante della 4a divisione indiana, inviò un rapporto al suo superiore Freyberg dai toni esilaranti. "Dopo essermi dato molto da fare – scrisse Tuker – e aver cercato in numerose librerie e bancarelle di Napoli, finalmente ho trovato un libro del 1879 che fornisce diversi dettagli della costruzione del monastero di Montecassino". Come dire, alla vigilia di un’importantissima operazione militare gli alti ufficiali inglesi si erano rivolti ai rigattieri del capoluogo partenopeo per cercare di conoscere i particolari del loro obiettivo.

gen. Harold Alexander

Gli alleati non sapevano, dunque, nulla di Montecassino e forse non sapevano nemmeno con che tipo di esplosivo colpirlo. Per fortuna Tucker lesse attentamente il libro e comprese che il monastero aveva mura enormi, profonde 30 metri e alte 5 metri, ed era strutturato come una fortezza. Comprese quindi che poteva essere attaccata soltanto con bombe dirompenti ad alto potenziale. Tuker nel suo rapporto si era permesso anche di fare l’ironico nei confronti dello stato maggiore alleato, situato a Caserta, che non disponeva di informazioni sull’abbazia. Il generale inglese sottolineava a Freyberg che il comando supremo in Italia aveva obbligato un comandante di divisione "ad andare a rovistare sulle bancarelle di Napoli per scoprire qualcosa che avrebbe dovuto essere preso in considerazione molte settimane prima".

Addio abbazia!

La fine del monastero era stata dunque decretata. L’ultima difesa era stata affidata al generale Clark, che considerava il bombardamento di uno dei monumenti della cristianità come un atto di vandalismo e non lo considerava un obiettivo militare. Il generale americano riuscì a frenare solo momentaneamente la richiesta folle di Freyberg, poiché il II corpo d’armata americano aveva sulla collina di Montecassino un battaglione, che attendeva di essere sostituito dalla 4a divisione indiana. I soldati americani erano infatti troppo vicini all’abbazia, all’interno della linea dell’area definita "linea di sicurezza dalle bombe". Clark approfittò di questa situazione per temporeggiare e cercare di tenere a bada Freyberg, finché il corpo di spedizione neozelandese non avesse assunto la piena responsabilità del fronte. Ma davanti alle insistenze di Freyberg, che non voleva deprimere ulteriormente il già basso morale delle sue truppe, Clark dovette arrendersi e lavarsi le mani del bombardamento dell’abbazia. Lasciò la patata bollente nelle mani dell’inglese Alexander, che assecondò senza indugio la richiesta di Freyberg. Nelle sue memorie, Alexander, giustificò così la distruzione del convento benedettino. "Quando i soldati si battono per una giusta causa – scrisse il generale inglese - e sono pronti a morire o a subire mutilazioni, i mattoni e la calce, per quanto venerabili, non possono più avere valore delle vite. Un buon comandante deve tenere conto del morale e dei sentimenti dei suoi uomini e, cosa non meno importante, i combattenti devono sapere che le loro vite sono nelle mani di un uomo nel quale possono avere una fiducia totale. Com’era possibile permettere che restasse in piedi una simile struttura, dominatrice del campo di battaglia? L’abbazia deve essere distrutta".

Dunque Freyberg aveva convinto il suo superiore Alexander. Secondo l’opinione di entrambi, il "magico" effetto del bombardamento aereo sull’abbazia avrebbe disorientato il nemico e agevolato la manovra a tenaglia effettuata dai soldati indiani, esperti nel combattimento in montagna, sulla collina posta a destra del fronte e da quelli neozelandesi nell’abitato di Cassino. Questo piano di attacco non era altro che la copia di quello precedente condotto dalla 34a e dalla 36a divisione americana, con l’aggiunta del violento attacco aereo. Freyberg, molto arrogante e presuntuoso, pensava che i suoi soldati sarebbero riusciti dove gli americani avevano fallito. Il corpo neozelandese era riposato e completo in tutti suoi effettivi e ciò dava un altro motivo al suo comandante per essere sicuro del completo successo del suo piano.

Il 12 febbraio 1944 si richiese l’intervento urgente delle forze aeree alleate. Il bombardamento era previsto per il giorno successivo, ma le avverse condizioni meteorologiche non consentivano un’incursione massiccia dei bombardieri e quindi si dovette rinviare il tutto a pochi giorni dopo. In questo modo, si riuscì a organizzare e disporre meglio le divisioni di fanteria che avrebbero dovuto essere impiegate nell’operazione. Ma soprattutto si ebbe il tempo di avvertire la popolazione civile e i monaci che ancora risiedevano nell’abbazia. A tale scopo, gli Alleati lanciarono una marea di volantini su tutta l’area interessata dall’attacco, in modo che il maggior numero possibile di religiosi e profughi si potessero mettere in salvo. Il comandante tedesco del fronte di Cassino, generale Frido von Senger und Etterlin, cattolico devoto e per giunta terziario benedettino, aveva già cercato durante le settimane precedenti di convincere l’ottantaduenne abate Gregorio Diamase e i monaci ad abbandonare il monastero. I religiosi avevano rifiutato: tuttavia, numerose opere d’arte e tesori di valore inestimabile erano stati trasportati dai tedeschi a Roma, proprio in considerazione che l’edificio religioso poteva subire danni molto gravi. Il pericolo era divenuto realtà e il generale von Senger mise a disposizione i mezzi di trasporto per evacuare quanti si trovavano ancora nel monastero. L’abate e alcuni monaci non vollero però abbandonarlo e restarono all’interno della cripta.

gen. Frido von Senger und Etterlin

La mattina del 15 febbraio era caratterizzata da una giornata limpida e serena. Era un invito a nozze per gli aviatori americani e inglesi per poter effettuare il bombardamento. Dopo un rapido consulto con i generali al fronte, sir Henry Maitland Wilson, comandante in capo delle truppe Alleate nel Mediterraneo, mise a disposizione le forze aeree per l’operazione. Nel marasma dell’attacco, non fu colpevolmente preparato un coordinamento fra i vari stati maggiori per lanciare la fanteria all’attacco non appena il bombardamento fosse cessato. Ciò vanificava l’effetto concreto dell’azione aerea, sempre che ci fosse stato per gli attaccanti. Questo fu l’errore ancora più letale, che decreterà il fallimento definitivo del piano Freyberg. Gli alti comandi Alleati mostrarono ancora di più la propria insipienza, mostrando di non avere riguardo per le proprie truppe. Queste ultime furono lasciate oltre la distanza di sicurezza dai possibili obiettivi del bombardamento: in pratica, il fuoco "amico" poteva falcidiare la fanteria americana, neozelandese e indiana ancor prima della reazione tedesca. Altro che il rispetto della vita umana evidenziato da Alexander nelle sue memorie!

Dagli aeroporti di Napoli e Foggia decollarono attorno alle 9,00 gli aerei alleati. Iniziarono la "festa" 142 quadrimotori, le celebri fortezze volanti B 17, che lanciarono su Montecassino e sulla città sottostante 450 tonnellate di bombe esplosive e incendiarie da alta quota. Una seconda ondata di altri 118 B 17 colpì ancora il monastero e sventrò la martoriata Cassino. Completarono l’opera altri attacchi condotti da bimotori B 25, B 26 e A 36 che sganciarono gli ordigni a un’altezza più bassa. In totale, furono 776 gli apparecchi impiegati. A mezzogiorno e mezzo, ben 746 pezzi di artiglieria vomitavano fuoco sulla cittadina laziale, disintegrandola completamente: il cannoneggiamento cessò soltanto nel primo pomeriggio. Curiosamente, nonostante le 1.250 tonnellate di bombe aeree le mura dell’abbazia resistettero quasi interamente. Un ufficiale tedesco, Rudolf Bohmler, presente all’interno dell’edificio con i monaci, così racconta il bombardamento nel suo memoriale. "Nella piccola stanza dell’abate si stava appunto terminando la preghiera delle ore canonicali del sesto e del nono, quando, alle parole pro nobis Christum exora, una tremenda esplosione turbò la pace. Scoppiarono le prime bombe: erano le 9,45. L’effetto nel monastero fu spaventoso. Terribili esplosioni lacerarono l’aria e riempirono i locali di polvere e di fumo soffocante. Non soltanto il monastero, ma tutta la montagna vacillò, come se fosse stata scrollata dalla mano di un gigante".

Ma come fu vissuto il bombardamento nel campo Alleato? Il generale Clark così descrive la tremenda giornata del 15 febbraio. "Quando il mio orologio stava per segnare le 9,30, sentii i primi rombi dei motori degli aeroplani che venivano dal sud. Tentai di rendermi conto della loro posizione. Poi all’improvviso il boato di un’esplosione. Per errore, gli aerei americani avevano sganciato sedici bombe. Parecchie caddero presso il mio posto di comando, facendo volare schegge dovunque". Il racconto del generale Usa prosegue così. "Poi, quattro gruppi di imponenti fortezze volanti passarono proprio sopra di noi e qualche istante dopo lasciarono cadere le loro bombe sulla collina del monastero. Avevo visto soltanto da lontano la celebre, antica abbazia, dalle opere d’arte inestimabili e insostituibili. Ma quando quel mattino, le esplosioni lacerarono la collina, compresi che non avrei più potuto ammirarla da vicino".

L’occasione perduta

Dopo il bombardamento aereo, iniziò il tiro micidiale dell’artiglieria pesante che proseguì ininterrottamente per oltre due ore di fila. Secondo la logica, alla fine del bombardamento ci sarebbe dovuto essere l’immediato attacco della fanteria per sfruttare meglio l’effetto psicologico devastante per i difensori tedeschi: invece mancò completamente il coordinamento con le truppe di terra. Ciò anche a causa del rifiuto dei soldati neozelandesi di attaccare in pieno giorno. Avanzò la sola 4a divisione indiana verso quota 593, poco al di sotto della cima di Montecassino, tenuta saldamente dai tedeschi, che iniziavano a occupare anche le rovine dell’abbazia. Questa operazione era importantissima visto che era impossibile conquistare l’abitato di Cassino finché le truppe del Terzo Reich avessero mantenuto la collina con la basilica. Sembrava un’ironia della sorte, ma era la conseguenza logica del bombardamento Alleato. Freyberg aveva voluto la distruzione dell’abbazia, poiché pensava che i soldati nemici fossero al suo interno con alcuni cannoni. Ciò non era vero e ora i tedeschi occupavano le sue macerie e sparavano comodamente contro gli attaccanti posti nella pianura di Cassino. Insomma, un gentile regalo dei generali Alleati che costituì un vero e proprio fiasco militare!

Il marasma nel campo inglese e americano era tale, che il tentativo di assalto delle truppe indiane fu frenato. Infatti, quando il comandante della 7a brigata indiana si era recato al comando della 34a divisione americana per il cambio di consegne, gli fu detto che quota 593 era saldamente in mano ai soldati Usa. Niente di più falso! E così gli indiani dovettero attendere la notte tra il 15 e il 16 febbraio. Una compagnia del I Battaglione Royal Sussex attaccò le balze più basse di quota 593. I soldati inglesi resistettero a lungo. Il resto del battaglione attaccò di slancio alla baionetta dando rinforzo ai propri commilitoni. Quando sembrava che l’accanita resistenza tedesca stesse per affievolirsi, accadde un episodio curioso. Un soldato tedesco lanciò un segnale con tre razzi verdi, forse per segnalare a delle truppe di rinforzo la propria posizione. Sfortunatamente per gli indiani, quello era anche il segnale di ritirata del Royal Sussex. Il comandante del battaglione, disorientato completamente dal segnale, ordinò la ritirata e i soldati britannici ripiegarono trasportandosi decine di feriti. Le perdite alleate ammontavano a 16 ufficiali e 162 soldati senza approdare a nessun risultato.

Il secondo attacco alleato, ben più consistente, avvenne soltanto nella notte del 17 febbraio. Un altro giorno perso per intaccare le difese tedesche. Il XXVIII battaglione maori, appartenente alla 2a divisione neozelandese, attaccò la stazione di Cassino e, sotto un violentissimo fuoco di mortai e artiglieria, riuscì ad andare oltre la massicciata della ferrovia, in mezzo alle mine poste meticolosamente dai difensori. I genieri cercavano di disinnescarle, per poter consentire il passaggio dei carri armati. Le macerie lasciate dal bombardamento erano un altro regalo per le forze tedesche che vi si erano inserite al loro interno e nelle cui fila combattevano anche diversi soldati cosacchi nemici giurati dell’allora Unione Sovietica comunista e degli Alleati,. Si combatteva metro per metro, palmo a palmo, muro per muro. Alle prime luci dell’alba del 18 febbraio le truppe maori avevano conquistato la stazione, mentre i genieri avevano lavorato duro per tutta le notte nella loro opera di bonifica. Tuttavia non potevano proseguire durante il giorno: sarebbero stati falcidiati facilmente dal fuoco nemico. Così i genieri dovettero abbandonare il campo di battaglia, lasciando i maori isolati e senza la possibilità di essere supportati dai carri armati. Questi ultimi, anche se fosse stata portata a termine l’opera di sminamento, difficilmente avrebbero potuto operare a causa delle macerie dei palazzi di Cassino. Solo quando nelle settimane successive arriveranno i bulldozer americani a smuoverle, i mezzi corazzati potranno spiegare in parte la loro efficacia. A nulla servì il bombardamento con proiettili fumogeni, voluto dal comando britannico per cercare di disorientare i tedeschi e proteggere le proprie truppe.

I paracadutisti nazisti contrattaccarono alla metà del pomeriggio, sostenuti dai lanciarazzi Nebelwerfer e dai carri armati Panther e Tigre. I soldati maori ripiegarono in buon ordine, lasciando 130 uomini sul campo. Le cose non andavano meglio ai fanti indiani, impegnati nella conquista di quota 593. Quest’ultima avrebbe dovuto essere conquistata alla baionetta, poiché era impossibile utilizzare l’artiglieria. Questo perché la terra di nessuno era ampia soltanto settanta metri e i proiettili avrebbero colpito indistintamente indiani e tedeschi. Conquistato l’obiettivo i cinque battaglioni dell’11a brigata indiana avrebbero dovuto scendere per il clivo della collina e raggiungere la zona settentrionale dell’abitato di Cassino, congiungendosi con i maori. Ma fu un disastro. I fucilieri del battaglione Rajputana raggiunsero quota 593, ma furono respinti, lasciando 196 uomini sul campo. Gli altri battaglioni di gurkha persero 250 soldati, senza conquistare un solo centimetro di terreno. Tutta la divisione indiana dovette retrocedere sulle linee di partenza. Così era terminato in un fallimento l’assalto effettuato dopo il bombardamento aereo, tanto desiderato da Freyberg. Il comandante von Senger und Etterlin completò l’occupazione dell’abbazia polverizzata. Inoltre, fece disporre dai suoi genieri le mine tutt’intorno al territorio del monastero. L’offensiva del corpo neozelandese proseguì sino alla fine di marzo, ma senza esiti apprezzabili. Le perdite complessive Alleate nel periodo gennaio-marzo ammontarono a 52.130 morti. Gli americani avevano avuto 22.219 caduti, i britannici 22.092, i francesi 7.241 mentre gli italiani del corpo di liberazione (che combattevano al fianco degli inglesi) 398. La battaglia di Cassino sembrava la prova lampante della validità del principio enunciato dal generale prussiano Karl von Clausewitz nel suo trattato "Della guerra", e cioè che "la difensiva costituisce la forma più potente della guerra".

L’armata in esilio trionfa!

Ma la frase di Clausewitz era già stata messa in discussione dal suo contemporaneo Napoleone che diceva che "chi sta dietro le fortificazioni perde". Ciò vale soprattutto per l’esercito che non dispone di mezzi sufficienti per un valido contrattacco. I tedeschi non facevano eccezione a questa regola. I rinforzi giungevano con il contagocce e prima o poi gli ostacoli naturali e delle macerie non sarebbero più stati sufficienti a contrastare l’offensiva Alleata. Dopo la seconda e la terza battaglia, arrivò il quarto (e finalmente decisivo) tentativo di conquistare Cassino. Protagonista dell’operazione "Diadem" fu il corpo d’armata polacco, comandato dal generale Wladislaw Anders, che dipendeva dall’8a armata britannica. L’operazione fu organizzata in gran segreto dal maresciallo Alexander, che spostò in gran segreto dal fronte sull’Adriatico a quello di Cassino gran parte delle divisioni dell’8a armata. La 5a armata americana (comprendente anche il corpo di spedizione francese, il Cef) fu spostata interamente nella parte bassa dello scacchiere operativo, tra il mar Tirreno e il Liri. Fu proprio Anders a chiedere l’onore di conquistare l’abbazia di Montecassino. Un compito non facile, visto che i tedeschi dalle macerie poste sul colle sorvegliavano ogni movimento degli attaccanti.

"Diadem" ebbe inizio ai primi di maggio, con un bombardamento di 2.000 cannoni. I francesi del generale Juin mossero sui monti Aurunci e conquistarono il 13 maggio l’importante posizione del monte Maio, nella parte meridionale del fronte, uccidendo ben 5.000 soldati tedeschi. Gli americani avanzarono nei pressi di Minturno, che conquistarono dopo una serie di accaniti combattimenti. Ma veniamo a Montecassino. Il primo assalto polacco contro l’abbazia si risolse in un autentico disastro. I tedeschi avevano minato tutto il terreno attorno al monastero e rafforzato la difesa con altri fanti. I polacchi attaccarono sin dalle prime luci dell’alba, ma furono falcidiati dal fuoco dei difensori che li puntavano dalla cima del colle. Alla fine si contarono 4.000 caduti tra le loro fila e Anders fu preso dallo sconforto. Il comandante dell’8a armata, Oliver Leese, lo convinse a non demordere dall’obiettivo.

Il generale polacco si offrì di attaccare di nuovo e convocò il generale Rudnicki, che comandava i volontari dei Carpazi, per dirgli di preparare le sue truppe per una nuova azione. Dopo cinque giorni arrivò l’ordine di operare, mentre la 4a divisione britannica e l’8a indiana attaccavano con metodica lentezza il centro abitato di Cassino, protette dall’artiglieria. La divisione britannica riuscì a venire a capo della resistenza tedesca e a entrare il 9 maggio nella cittadina laziale. Il giorno dopo i polacchi tentarono un altro assalto per espugnare l’abbazia, ma furono respinti. Ma nei giorni seguenti la loro offensiva proseguì con veemenza, finché il 19 maggio i tedeschi abbandonarono precipitosamente il monastero. Una pattuglia di ulani polacchi del 12° reggimento lancieri, comandata dal tenente Casimir Gubriel, trovò un gruppo di tedeschi gravemente feriti, abbandonati dai loro commilitoni. I lancieri presero una bandiera della Croce Rossa e l’issarono sulle rovine. Un trombettiere suonò l’Hejnal, un brano militare risalente al Medioevo. Quelle note sembrarono segnare la fine della battaglia di Cassino, che era costata tanti caduti da entrambe le parti. Nel tardo pomeriggio Anders si recò a piedi sino al martoriato monastero per rendere omaggio ai circa 4.000 caduti del corpo polacco. Nel suo libro "Un’armata in esilio" (Edizioni Cappelli, Bologna, 1950) il generale polacco racconta ciò che vide giungendo sul colle. "Il campo di battaglia era uno spettacolo tremendo. Mucchi di munizioni mai usate e cataste di mine erano sparse qua e là. Dovunque si vedevano cadaveri di soldati polacchi e tedeschi, a volte avvinghiati in un abbraccio mortale, e l’aria era contaminata dal lezzo della putrefazione. Vi erano carri armati rovesciati con i cingoli rotti e altri che sembravano pronti ad attaccare, con i cannoni ancora puntati verso l’abbazia. Le pendici, soprattutto dove i combattenti avevano colpito con minore intensità, erano coperti da una quantità incredibile di papaveri e i fiori rossi sembravano stranamente appropriati alla scena. I fianchi delle colline erano costellati di crateri e cosparsi di brandelli di uniformi e di elmetti, fucili Spandau, Schmeisser e bombe a mano. Dell’abbazia era rimasto solo un mucchio enorme di rovine e qua e là spuntava qualche colonna spezzata. Soltanto il muro ovest era ancora in piedi. Una campana rotta giaceva a terra accanto a un proiettile di grosso calibro inesploso e sui muri e sui soffitti dilaniati frammenti di quadri e affreschi giacevano fra la polvere e l’intonaco".

Montecassino oggi

Il centro abitato di Cassino è stato completamente ricostruito. Se si osservano le riproduzioni delle cartoline del 1942 in vendita in città e raffrontandole con quelle attuali, si nota che non esiste più un solo palazzo dell’epoca. Nelle foto di allora compare la funivia, costruita per collegare la cittadina con il colle dell’abbazia, completamente distrutta dai combattimenti.

Uno dei suoi pali, rimasto ancora in piedi dopo i bombardamenti, era stato ribattezzato in modo sinistro dagli alleati "hangman hill", la collina dell’impiccato. Nelle vicinanze di questo traliccio erano caduti tanti soldati alleati: era un punto strategico per la conquista di Montecassino, più volte oggetto di scontri sanguinosi. In città era celebre la figura di un contadino, detto "u’ fissatu" (il fissato) perché dopo la fine della battaglia si recava tutti i giorni a vedere se la sua casa ritornava in piedi. Diventò il simbolo della ricostruzione e fu persino intervistato alla radio.

Sulla strada che conduce a Sant’Elia Fiumerapido sorge il cimitero di guerra tedesco, a cui fu donata nel 1964 una lampada votiva dall’allora Pontefice Paolo VI. Sulla via Casilina è stato posto il cimitero di guerra inglese. E’ un grande giardino, al centro del quale, tra le tombe, troneggia un grande altare con la scritta "their names live for evermore", i loro nomi vivono per sempre. Anche l’abbazia è stata completamente ricostruita. I lavori terminarono nel 1952, ma purtroppo il vecchio abate Gregorio Diamase non vide il nuovo complesso monastico, poiché morì pochi giorni dopo il bombardamento aereo del 1944. Si sono perduti numerosi affreschi, sculture e tante opere d’arte che purtroppo i tedeschi non riuscirono a trasportare a Roma. Il terreno attorno al monastero fu bonificato solo in parte dalle mine. La cura adoperata dai tedeschi per collocarle fu tale che ancora oggi, a distanza di 58 anni, tali ordigni sono presenti nella zona. Infatti, se si prova ad andare dalla basilica verso il cimitero dei soldati polacchi si noterà che esiste un sentiero piuttosto stretto, ai cui bordi sono state poste le recinzioni con dei cartelli recanti la scritta "attenzione pericolo mine". Nel cimitero polacco, posto di fianco al clivo di un colle, riposa accanto ai suoi soldati il generale Anders, morto nel 1961. Al suo ingresso è stata collocata una lapide con questa iscrizione: "Noi soldati polacchi per la nostra e la vostra libertà abbiamo dato le nostre anime a Dio, i nostri corpi al suolo italiano e i nostri cuori alla Polonia".

Nei locali adiacenti alla cripta della basilica è stato approntato un museo della battaglia e le fotografie del lungo lavoro di ricostruzione. In esso sono stati collocati in varie sale gli armamenti e le uniformi adoperati dai tedeschi. In particolare, tra le numerose armi si può ammirare una Mg 42, evoluzione della Mg 34, una mitragliatrice pesante che sparava migliaia di colpi al minuto, adoperata ancora dopo la guerra dagli eserciti della Nato. Alla termine della visita, si può leggere una lapide, in cui si ricorda che i lavori per il rifacimento dell’abbazia è dovuto al contributo economico dello Stato italiano. Ciò sfata la leggenda che il celebre monumento della cristianità sia stato rimesso in sesto con i soldi dei governi Alleati, che lo avevano ridotto a un mucchio di rovine.

Marco Liguori

Tratto da www.storiainrete.com


pagine correlate:


link consigliato:

www.biografiadiunabomba.it

Il sito è dotato di una vasta galleria fotografica dedicata ai numerosi ritrovamenti di residuati bellici, ad album fotografici, ai bombardamenti aerei subiti dalle nostre grandi e piccole città.

Centro Culturale e di Studi Storici "Brigantino- il Portale del Sud" - Napoli e Palermo admin@ilportaledelsud.org ®copyright 2007: tutti i diritti riservati. Webmaster: Brigantino.

Sito derattizzato e debossizzato