Le pagine della cultura

 

La moschea blu

di Rosella Misuraca

Immagine liberamente tratta da Internet

 

Introduzione

Hic manebimus optime

Qualche anno fa una coppia che aveva comprato un appartamento da ristrutturare nel centro storico di Palermo, durante i lavori di ristrutturazione  trovarono una stanza dalle pareti blu finemente disegnate.

La stanza blu

Ed infine ecco venir fuori, sullo sfondo blu, iscrizioni arabe, versetti musulmani e disegni di richiamo islamico. Una sorta di «moschea blu» come fu subito battezzata da studiosi di storia e costumi locali alternatisi in un via vai di visite, tutti a cercare di decodificare le iscrizioni. Nella Palermo capitale, mille anni fa , di un emirato arabo, nella città abitata fino a un paio di secoli fa da tanti commercianti egiziani o tunisini, l’ipotesi fu che la stanza-moschea, fosse  un luogo di preghiera e devozione ad Allah.   Nelle università, da Palermo a Torino, non mancano gli arabisti scettici davanti alla meraviglia di questa dimora forse voluta da un facoltoso nordafricano. Poi caduta nel disastro di un centro storico che oggi rinasce a fatica. 

Dopo mesi di studi, tre esperti dell’Università di Bonn, un arabista, una archeologa e un iranista ribaltano  ogni precedente ipotesi, stabilendo che quello fu luogo segreto di un occultista, un ambiente massonico dove attivare pratiche esoteriche. Tutto di nascosto, appunto in una casa, perché proibito (allora come oggi) dall’Islam. 

Fara Misuraca

La moschea blu

El Haji Ussein, pronipote di quel El Haji firmatario del trattato di commercio tra la Sublime Porta e il Regno delle due Sicilie, nel 1858 fu nominato ambasciatore straordinario a Palermo.

La notizia lo colse di sorpresa, era grasso, pigro ed indolente. Inerte, abituato al comando come all'ubbidienza, sbarcò con il suo corteo di funzionari a Palermo agli albori di una calda mattina di novembre. Lo scirocco sferzava la città, i cani abbaiavano, le alte palme oscillavano. Recitò le preghiere e, avvezzo a gestire personalmente le proprie faccende, si avviò con il suo seguito a cercare un alloggio dove stabilirsi per il periodo dell'incarico.

Uno gli era stato segnalato nel quartiere Albergheria, un palazzo antico da lungo tempo disabitato.

El Haji aveva una fortissima fede religiosa e accettava tutto come se gli venisse dal Divino, aveva conservato un fiero spirito giovanile non domato dalla durezza della vita.

Vedeva in ogni incarico un progetto superiore, in ogni chiamata non gli interessava la meta ma il percorso di miglioramento, accettava tutto quello che Dio gli metteva davanti, e per questo Lo ringraziava.

Il palazzo gli piacque, più che piacergli indovinò che era adatto a lui, e questo bastava. Sotto, al piano terreno, umilissimi artigiani, ciabattini, non diversi da quelli dei veicoli di Istanbul. Al piano intermedio magazzini che subito intese di lasciare tal quali, con tutto il ben di Dio che usualmente accaparrava, né mai gli era mancato qualcosa. Le altre stanze furono destinate alla servitù e ai servizi. Il secondo piano divenne la sua abitazione. Modificò poche cose, perché essendo solo, le esigenze erano limitate. Odiava i lussi, ma sapeva che il suo ruolo e prestigio erano legati a regole di rappresentanza e dignità.

Si concedeva di soddisfare qualche vizio o desiderio, che spesso poi lavava ricorrendo alla preghiera; insomma era un uomo devoto.

La preghiera

El Haji, corpulento, caparbio di natura, abitudinario amava stare in casa e le faccende esterne erano per lui un disturbo. Ma egli non poteva esimersi, anzi una volta coinvolto era zelante; fedele ai principi, non ammetteva eccezioni né a se stesso né agli altri, e non si dava pace fino a che non aveva concluso l'impresa.

Le funzioni di rappresentanza erano non meno numerose di quelle commerciali, gli impegni si sovrapponevano, faticava a gestirli, era insoddisfatto.

Tornato a casa si dedicava alla preghiera, alla quale assolveva non per semplice dovere ma per una sorta di vocazione spirituale, di voci interiori che ve lo spingevano e lo chiamavano come per rivelargli un messaggio criptico da decifrare a luogo e tempo debito.

In un precedente incarico era stato a Gerusalemme: quell'esperienza l'aveva introdotto a culti diverso dal suo, ma in cui il Libro, il Testo Sacro, rimaneva costante fondamento della preghiera e quell'essere assorti nella lettura sacra avvicinava a Dio.

Decise di dedicare una stanza alla preghiera. Ce n'era una quadrata, un lato finestrato e le porte sugli agli tre lati. Le pareti e la volta le fece dipingere blu scuro, sullo stipite una frase criptica, ripetitiva, preceduta da un vessillo grafico, una sorta di chiave di inizio rigo. La frase si ripeteva, innumerevoli volte, nello spazio delle pareti. Un'invocazione reiterata, un pretesto per elevarsi, per uscire da sé.

El Haji conosceva la preghiera ripetitiva, una breve e potente formula spirituale da ripetere all'infinito. Ne sortiva una elevazione, un essere altro e altrove, affrancato da turbamenti ed inquietudini, una perdita di sé e dei dolori fisici.

Al culmine della preghiera gli pareva talvolta di assopirsi e per brevi attimi di trovarsi nella dimora paterna, nei lussi acquisiti dal Vizir e rivedeva la sua vita vissuta e il presente, con tutti i momenti e luoghi senza emozioni.

L'eredità

Giuseppe cercava casa. Nina aspettava un bambino. Lui professore, aveva insegnato a Menfi, ora il comando lo aveva portato a Palermo. Ne rimase affascinato dalla bellezza. Nella città vecchia quell'appartamento, ultimo piano, gli piacque subito. Amava l'autenticità, la sicilianità e fu colpito dalla vivacità dei vicoli bui popolati da botteghe di umili artigiani che li riempivano con le loro voci. Si affezionò talmente a Palermo da esigere per la propria casa i criteri delle case siciliane borghesi, quelle di vecchia costruzione, epigoni saldi e sovrapporsi di stili e di inquilini. Le maioliche colorate di Santo Stefano, le pareti affrescate, i marmi rossi di Bellocampo le porte rigidamente di colore verde siciliano.

Certo bisognava sbrigarsi a fare i lavori di restauro, anzi proprio di ripristino di quell'appartamento disabitato da tanti anni. Scelse un Mastro del suo paese che si prestò a spostarsi per la durata dei lavori, e che abilmente rese abitabili alcune stanze, di modo che Giuseppe e Nina potessero trasferirsi mentre i lavori erano ancora in corso. Venne settembre e la scuola riaprì. Il Mastro, continuava a scorticare pareti, a piazzare lastre rosse di pavimento, a restaurare porte. Procedeva con grande lena: finire il lavoro e tornare a casa era il suo scopo. Un giorno di novembre, mentre Giuseppe e Nina si accingevano a pranzare, udirono le grida di stupore di Mastro Giacomo: nello scorticare il terzo strato di pittura aveva scoperto lettere arabe d'oro e d'argento.

Furono chiamati esperti di filologia islamica, italiani e stranieri. Poi, studiosi d'arte si avvicendarono. Giuseppe fu costretto a limitare le visite dei curiosi: la casa ne perdeva di intimità. Spinto dall'entusiasmo iniziale, cambiò il pavimento con maioliche artigianali, che insieme alla stanza blu, ridessero il decoro originale all'abitazione. Poiché erano costose e impegnativo realizzarle, pavimentò  una stanza all'anno. Non se ne vedeva la fine. La stanza blu aveva preso il sopravvento, non si riusciva più a trovare “lo spirito della casa” e a darle una univoca connotazione artistica.

Il figlio nacque. Giuseppe pensò di arredarla accentrandosi sulla presenza di un bambino.

Una camera fu destinata a sala giochi, un'altra venne occupata dal teatrino dei Pupi, le rimanenti alla vita e alle relazioni familiari. Ma la gente continuava ad arrivare, i pavimenti a costare e Giuseppe più che proprietario si sentiva inquilino.

Incominciò a sperare che fosse un sogno e che al risveglio la Stanza Blu non ci fosse più.


Anche mio padre ebbe un'eredità, un armadio di palissandro dei primi del novecento. L'armadio era di sua madre, giovane vedova, che trascorreva molte ore della giornata a casa, dove oltre a pregare, svolgeva l'attività di madre di otto figli e di merciaia.

Aperte le ante di legno appariva un cielo azzurro e si veniva abbagliati da tremule luci e dagli sguardi dei Santi Patroni, S. Fara, S. Crispino, Santa Rosalia: al centro l'immagine della Madonna delle Lacrime, pari pari la Madonna di Siracusa. Mio padre assente, a sua insaputa, l'armadio fu venduto insieme alla modestissima casa, in tutto una stanza e due  camerette a piano terreno, comunicanti tra loro (in Sicilia si chiama mezzacasa): il che spiega l'esigenza di un'area appartata per l'intimità e la preghiera, anche se spesso la preghiera era collettiva.

Molti anni dopo il Sacro Armadio fu ritrovato da mio padre nella casa di campagna di una donna che, bambina, aveva abitato l'altra mezzacasa sullo stesso isolato, ma che aveva un tempo condiviso le stesse merende di pane e zucchero, i giochi di strada e le preghiere serali. Sembra una caratteristica mia e della mia famiglia quello dell'eterno ritornare, ritrovare luoghi, persone e cose molto amati che si ritenevano perduti, saltando generazioni, scavallando secoli.

Perciò, ho fiducia nel mio destino.


Chissà se ancora ce l'ha in questa grande città, la nostra casa un segreto da svelare, un Lare abbandonato, uno spirito felice, un messaggio da decifrare. L'anagramma di Dio.

Rosella Misuraca

Edizione de Il Portale del Sud, febbraio 2015

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