Le Monografie storiche di Giuseppe Ressa

Il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità

Il feudalesimo: il conflitto tra i Re meridionali e i Baroni, la questione agraria

Un'antica masseria nel Tarantino

Testo di Giuseppe Ressa

Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

Lo stato era, all’avvento dei Borbone, essenzialmente feudale pieno di uomini chiamati con gli appellativi di “eccellenza” e “don” [riportati anche negli atti ufficiali] i quali, in veste di baroni e di prelati, possedevano gran parte delle terre (più di 2/3), nelle quali esercitavano addirittura una propria giurisdizione penale e civile, indipendente da quella del Re. La proprietà terriera era dominata dal latifondo: “L'errore di molti scrittori di storia ed economia è nel ritenere il fenomeno del latifondo dipendente dal feudalesimo, in realtà il latifondo è storicamente anteriore di millenni, tant'è che Plinio il Vecchio già parla di latifundium" [1]; fino all'introduzione dei moderni mezzi meccanici è stato il clima delle regioni meridionali, mite d’inverno ed asciutto d’estate, che ha favorito la monocoltura cerealicola estensiva in rotazione col pascolo; viceversa nelle regioni settentrionali l’inverno rigido e l'estate caldo piovosa erano l'ideale per la coltura intensiva in piccoli lotti. Il diritto napoletano [2] chiamò “Demanio“ la terra libera, non infeudata, nominalmente proprietà del Re in quanto sovrano, nella quale i contadini e i pastori esercitavano gli "Usi civici" (sconosciuti negli altri paesi) avevano cioè il diritto di poter gratuitamente fare pascolo di greggi, raccogliere legna nei boschi, attingere acqua, piantare, coltivare. Terreni feudali, invece, erano quelli dati in possesso [si badi bene, non in proprietà che rimaneva nominalmente del Re] dai sovrani ai baroni in base ai “titoli di infeudazione”. Molti di questi, però, erano stati, durante i secoli, falsificati aumentando l’estensione dei feudi [le cosiddette “usurpazioni”]. Anche in una parte delle terre infeudate erano possibili gli Usi Civici ma per la gran parte i feudatari potevano esigere tutta una serie di gabelle (fida, decime, terratici, erbaggi, ghiandaggi) che vessavano, essendo spesso molto esose, i contadini e i pastori che vi abitavano, riducendoli spesso ad una sorta di servi della gleba.

Nelle Due Sicilie il sistema feudale era “puro”, regolato cioè dal cosiddetto “diritto franco” che obbligava i feudatari a tramandare i loro titoli, con il conseguente possesso dei feudi, tramite lo strumento del fidecommesso e secondo il principio del maggiorascato; in base ad essi si stabiliva che chi li riceveva doveva ritrasmetterli al “maggiore” per discendenza il quale ne era l’esclusivo titolare. Terre e titoli erano così indivisibili e si tramandavano intatti nei secoli; nelle altre regioni d’Italia, invece, la successione feudale era regolata dallo iure Langobardorum che consentiva la divisibilità del feudo tra tutti i figli maschi mentre solo il titolo rimaneva di spettanza esclusiva del primogenito, in questo modo il latifondo venne ad essere fortemente ridimensionato, mentre nel Sud rimase praticamente intatto. I baroni avevano, tra gli altri, il potere di impedire ai loro vassalli di tornare a coltivare le terre del demanio pubblico, di far sequestrare i loro beni, se erano debitori, da proprie bande di uomini armati e perfino di farli imprigionare con la formula “per motivi a noi ben visti”; eleggevano inoltre le magistrature delle città e ne detenevano l’amministrazione, “al potere sovrano, debole ed impacciato…si contrapponeva, pieno di alterigia il signore feudale… nella considerazione del popolo, che è abituato a formarsi una coscienza al lume degli spiccioli episodi del giorno, la potenza delle persone veniva naturalmente anteposta alla potenza sociale impersonata dallo Stato e destinata, come l’esperienza insegnava, a rimanere ordinariamente soverchiata [3]

In Sicilia lo strapotere baronale raggiungeva il massimo grado, dato che erano quasi inesistenti le terre demaniali: circa un terzo della superficie totale era proprietà del clero e “più di 2/3 del territorio e circa metà dei suoi abitanti sono sottoposti ai baroni; il valore dei beni, stabili e mobili…supera quelli dei beni siti nelle terre demaniali[4]; molti proprietari non videro mai le loro terre e conducevano una vita sfarzosa in città, soprattutto nella capitale Palermo; uno di loro così spiegava ad un viaggiatore tedesco la ragione della cessione in affitto dei suoi latifondi: ”cedo alli gabellotti o siano affittatori li miei propri vantaggi per non volermi incaricare della vendita dè grani, e per aver sicura e comoda senza nessuna fatiga la rendita annuale[5]. Ma il lusso sfrenato era molto oneroso anche per i baroni che spesso si ridussero sull’orlo della bancarotta per i debiti contratti; a sua volta la classe degli affittuari non divenne mai borghesia ma imitò la figura dei baroni, diventandone un rapacissimo duplicato; il contadino, poi, non reagiva alla miserrima condizione perchè “la lunga servitù gli aveva talmente degradato l’animo che più non risentiva il peso delle catene”. “Le plebi rurali consideravano la persona del barone, oltre che rivestita d’un carattere quasi sacro, indispensabile all’ordine delle cose e garanzia della loro grama esistenza …nell’immaginazione del contadino la figura del barone, dimorante nella capitale, appariva come quella di un personaggio della massima importanza il cui consiglio e la cui opera erano indispensabili alla vita del Regno e alla persona del Re [6]. I baroni siciliani avevano alcune prerogative particolari, sconosciute ai feudatari di altre parti d’Italia e d’Europa, come il diritto di dare in eredità il feudo ai discendenti fino al sesto grado e la loro piena ed autonoma giurisdizione civile e penale sui feudi. Essi giustificavano questi privilegi col fatto che, secondo la tradizione, il feudalesimo era nato nell’isola prima dell’avvento dei Normanni, addirittura ai tempi dell’Impero Romano d’Oriente, e che comunque l’investitura feudale era stata concessa dal primo re Ruggero II, come riconoscimento dei servigi prestati, a coloro che avevano militato nella sua guerra contro gli Arabi; questi privilegi implicavano che il barone non si sentisse un vassallo del re ma quasi un suo pari. “Alcuni baroni delle più antiche casate come, per esempio, quella del marchese di Geraci -il Marchese per eccellenza di tutta la Sicilia- oltre a fregiarsi, negli atti pubblici dei titoli più altisonanti, lasciavano procedere direttamente da Dio l’investitura dei loro possessi feudali: per grazia di Dio primo Signore nell’una e nell’altra Sicilia, Principe del Sacro Romano Impero, Primo conte d’Italia ecc..”.[7]

La onnipotenza baronale cozzò, alla fine del 1700, contro la concezione illuministica del potere dei Re Borbone i quali cominciarono un’opera di modernizzazione dello Stato. Ma i feudatari “non avrebbero mai permesso la realizzazione pacifica di una riforma che intaccava una prerogativa della quale essi erano particolarmente gelosi…il potere del baronaggio si fondava specialmente sulla grande potenza economica che i suoi rappresentanti avevano realizzato mediante vari strumenti tra i quali il più efficace era certamente la giurisdizione[8]. I contadini, nella massima parte, oltre alla casa in cui abitavano, possedevano solo piccole estensioni di terra che però erano insufficienti al loro sostentamento; per sopravvivere si avvalevano dello sfruttamento delle terre demaniali e feudali sulle quali esercitavano gli usi civici e offrivano anche la loro mano d’opera ai baroni. Ma al Sud prevaleva la coltura estensiva, e così l’offerta di lavoro bracciantile superava la domanda, tenendo sempre basso il salario. Il 23 febbraio 1792, Ferdinando IV, con la prammatica XXIV “de Administratione Universitarum” stabilisce che siano censite le terre demaniali in modo da cederle ai contadini in enfiteusi [cioè in affitto] per 20 anni “nella misura che possano coltivarli con la loro opera”. Si intendeva così trasformarli da salariati in coltivatori diretti. Fu anche decretato che la quota delle terre feudali sulle quali i contadini esercitavano gli usi civici fosse divisa in 4 parti di cui una veniva ceduta in proprietà al barone, come risarcimento, e tre andavano ai Comuni che dovevano censirle e cederle in affitto ai contadini. Il progetto ferdinandeo non andò in porto per la durissima opposizione dei baroni e dei borghesi i quali avevano cominciato ad ottenere in affitto le terre che i latifondisti, ritirandosi in città per vivere di rendita, avevano loro affidato.

Giuseppe Ressa


[1] Michele Vocino, “I primati di Napoli”, Mele editore

[2] La maggior parte delle informazioni è tratta dal libro “Le leggi sugli usi e demani civici” di Lorenzo Ratto, Roma, 1909

[3] Ernesto Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Sansoni, 1943, pag.108

[4] Ernesto Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Sansoni, 1943

[5] citato da Rosario Romeo, “Il Risorgimento in Sicilia”, Laterza, 2001

[6] E.Pontieri, op. cit.

[7] Ernesto Pontieri, op. cit. pag. 107

[8] ibidem


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