È una canzone del 1887, una
composizione minore del sodalizio artistico Di Giacomo-Costa. Il
testo è il primo dei trentasette movimenti di varia lunghezza di cui
si compone il poemetto ’O Munasterio, una novella in versi
di struttura polimetrica, pubblicata nello stesso anno. Il genere
novella in versi, aveva avuto una discreta fortuna nel settecento,
secolo con il quale Di Giacomo, come si sa, cerca sempre di porsi
artisticamente in un rapporto di continuità. Ma per questo lavoro,
il poeta si ispira non al modello settecentesco, che privilegia temi
licenziosi o filosofici, ma alla novella romantica in versi
ottocentesca con amori impossibili o peccaminosi (adulterini,
incestuosi, ...), tradimenti, passioni disperate, morte. Questo
genere all’inizio del secolo aveva raggiunto notevole popolarità,
conseguendo molti lettori e molti consensi ma ora, nel momento in
cui il nostro autore scrive, non è più d’attualità: si è affermata
una nuova scala di valori e il verismo ha preso il posto del pathos
romantico, dello slancio eroico, della visione.
Il poemetto ’O Munasterio
è di complessa valutazione critica ed è stato oggetto di giudizi più
negativi che positivi. Per quanto riguarda l’analisi dell’omonima
canzone la cosa che interessa maggiormente è l’architettura
irregolare dei versi e la loro struttura metrico-prosodica che ne
rendono difficile la musicazione in chiave popolareggiante anche ad
un maestro del calibro di Costa.
Esaminiamo adesso i versi di
’O Munasterio.
Jettaje stu core mio m’miez’a
la strada
e n’copp’a na muntagna mme
ne jette,
e, pe’ na passione
disperata,
monaco ’e S. Francisco mme
facette.
– Tuppe tuppe! – Chi
è? – Cca ce stesse uno
ca l’è caduto ‘o core
mmiez’a via?
– Bella figliò, cca nun ce
sta nisciuno
va iatevenne cu Giesù e
Maria....
Se ne jette cantanno:
Ammore, ammore,
cchiù nun te vo’ zi
moneco vicino!
E p’’a muntagna se purtaie
stu core,
arravugliato dint’’o
mantesino...
La canzone è priva di
ritornello, perché non concepita per essere musicata e non presenta
le caratteristiche tipiche delle migliori poesie digiacomiane, manca
infatti in essa l’uso del colore, mancano gli sprazzi di luce, la
focalizzazione e la trasfigurazione lirica dei particolari,
l’impostazione popolareggiante, il coro, la commozione di fronte
alla realtà circostante, la grazia settecentesca dei versi ... Le
tre quartine che la compongono, pur non eccelse, sono però tra i
migliori squarci lirici dell’intero poemetto.
La canzone si apre con una
dichiarazione solenne e perfetta nella sua crudezza: jettaje stu
core mio m’miez’a la strada / e n’copp’a na muntagna mme ne jette,
versi che nella loro brevità ed apparente pacatezza racchiudono la
follia di una scelta anelante l’oblio, l’annullamento e, forse
inconsapevolmente, anche la purificazione. Jettaje rende
l’idea del disprezzo per qualcosa di ormai inutile che ha esaurito
il suo compito, che adesso rappresenta solo un peso ingombrante.
‘Ncopp’a ‘na muntagna è un luogo comune: me ne vogl’j’
’ncopp’a ’na muntagna è un modo di dire per significare che si
vuole stare soli, non si vuole vedere più nessuno: ma qui prima
ancora che una fuga reale dal mondo si tratta di una fuga
all’interno della propria coscienza, un volere star solo e soffocare
i singhiozzi. L’amore ingannato ha sprofondato il protagonista, fra'
Liberato, in un cupo, lacerante dolore ed egli, pensando che tutto
sia finito e che non esistano sbocchi, per non prolungare
ulteriormente l’agonia del cuore, sceglie un distacco assoluto, un
convento su di una montagna, lontano dai luoghi e dalle situazioni
che l’hanno visto soffrire. È questo un tentativo di estraniamento
dalla vita, nella vana ricerca di una fuga, ultima e definitiva,
anche dal genere umano per entrare in una dimensione atemporale e
senza dolore. Il pessimismo nero che attanaglia il protagonista lo
induce a smettere di volersi bene, lo spinge ad un rifiuto radicale
di qualsivoglia tipo di amore e a un gesto estremo di rigetto della
propria stessa identità: cerca l’annientamento totale, la
non-esistenza sia per sé che per gli altri, e traduce questa
propensione irrazionale e distruttiva nel fuggire/nascondersi nel
remoto convento, nello strapparsi il cuore e gettarlo nella strada
nella speranza di non soffrire più e di non rischiare di rinnovare
nel futuro la dolorosa illusione vissuta.
Questa scelta esasperata,
non dettata dalla fede in Dio ma dal bisogno di fuggire da sé
stesso, rappresenta un punto finale oltre il quale cessa di esistere
il tempo e non è possibile più alcuno sviluppo: l’isolarsi dal mondo
per il protagonista è la sola risposta possibile per una la vita
così insostenibile. Il convento qui non raffigura il luogo dove
l’amore per Dio e per i fratelli si concretizza nella preghiera
comune e nell’inno di lode ma piuttosto è il simbolo della rinuncia
al mondo e ad ogni forma di piacere. Più ancora esso rappresenta la
mancanza della voglia di vivere e perciò assume il ruolo di tomba
per una specie di suicidio psicologico. Qui l’aspetto fiabesco del
cuore che si getta via come un oggetto che non serve più svapora
completamente nella drammaticità del contesto.
Il distico successivo
continua sullo stesso registro, con un linguaggio essenziale e
incisivo, privo di notazioni descrittive o sentimentali ed
articolato su toni cupi e intimisti, senza particolari accenti di
lirismo pur se in qualche misura suggestivi. Il personaggio che si
delinea in questa e nelle quartine successive manca di spessore
psicologico e non riesce ad ergersi emblema di una concezione più
vasta del dolore, il suo tormento d’amore non riesce a collegarsi
alla sofferenza del genere umano. Né il popolo napoletano, che in
quanto a sofferenze è sicuramente in grado di insegnare a molti, può
riconoscersi in quell’uomo completamente affranto, rassegnato e teso
all’autodistruzione. L’istinto di sopravvivenza dei napoletani
rasenta infatti l’inverosimile e la rassegnazione alle sofferenze
non riesce a spegnere il sorriso dalle labbra della gente ed esclude
certamente ogni rassegnazione alla morte.
Nella quartina che segue
troviamo quasi d’improvviso una sequenza dialogata, inserita come
stacco netto nella narrazione ed introdotta solo da un semplice
tuppe tuppe, il termine onomatopeico che imitando il suono dei
colpi che si danno su una porta sintetizza il fatto che qualcuno è
arrivato al convento e sta bussando. Si materializza allora una
figura femminile recante un cuore tra le mani, una donna che sarà a
breve definita dal monaco come bella figliò. È forse “Lei”? È
la donna spietata amata dal protagonista? È il diavolo tentatore?
(ma il diavolo bussa alla porta ed aspetta che gli si apra? e si
lascia poi così facilmente mandare via?). Probabilmente è “Lei”
perché sa dove deve portare il cuore recuperato in strada! Ma chi è
colui che la scaccia? Fra’ Liberato o il padre guardiano? Per la
coerenza interna della novella dovrebbe trattarsi del padre
guardiano che così assumerebbe anche il ruolo di difensore
spirituale dei monaci e ciò anche perché se si trattasse di Fra’
Liberato la donna lo riconoscerebbe e non chiederebbe se nel
convento c’è il proprietario del cuore. Osserviamo comunque che la
frase se purtaie stu core lascia intendere che a
mandare via la donna sia stato fra’ Liberato che così, resistendo
alla tentazione, conferma la voglia di chiudere con il passato.
Esaminando però la sola canzone senza il poemetto che la contiene,
il quesito diventa privo di importanza. La bella figlióla
raffigura l’Amore che bussa al convento poiché per Di Giacomo
ammore vero, no, nun vota viche. In tale veste la figlióla
rappresenta una proiezione del tormento interiore del protagonista
piuttosto che una persona gentile che vuole restituire qualcosa che
non le appartiene: ella è una minaccia di ritorno a vissuti
insostenibili e che perciò si vorrebbero sepolti. Fra’ Liberato, in
realtà (ma forse anche Di Giacomo), è un personaggio che invece
approfittare della vita cerca di difendersi da essa!
L’ultima quartina è la
migliore delle tre che formano la canzone. In essa c’è una
freschezza diversa che strizza l’occhio alla poesia popolare. La
quartina è narrativa, ma l’evento è subito spostato nel piano della
contemplazione: la figlióla si allontana cantando che zi
moneco non vuole più legami amorosi, il canto è allusivo e
potrebbe rappresentare una nota spensierata di allegria o forse, più
probabilmente solo una nota ironica, uno sfogo di rabbia. In tutti i
casi la donna porta un soffio di vita in contrapposizione al clima
oppressivo del convento-prigione in cui fra’ Liberato si è
autorecluso. Il canto intonato dalla donna che invoca l’amore
consente una sospensione momentanea della tensione drammatica, una
pausa necessaria nell’economia della canzone per ravvivarne il
contenuto. Subito dopo (ma questo solo nel poemetto perché la
canzone termina qui) ritornerà l’atmosfera cupa e questo stacco si
rivelerà per quello che è: il bisogno dell’autore di abbandonarsi
quella vena lirica che non riesce a delinearsi nei momenti di
lacerazione e di tormento, anche se questi momenti proprio per la
loro caratteristica di soggettività dovrebbero essere tra quelli più
tipicamente lirici. Viceversa, questa vena si insinua e sgorga
facile nei momenti enfatico-narrativi. Ma uno squarcio lirico ancora
più suggestivo degno del miglior Di Giacomo si trova nel distico di
chiusura della canzone dove si staglia l’immagine della donna che si
allontana: E p’’a muntagna se purtaie stu core, / arravugliato
dint’’o mantesino... Quei due elementi figurali contrapposti (core,
mantesino), il primo poetico-spirituale e l’altro più
modestamente prosaico, uniti insieme dalla figlióla-Amore che
porta con noncuranza il cuore avvolto nel grembiule e va via forse
per sempre, insieme al suo canto p’’a muntagna, ripropongono
le tipiche immagini pittoriche digiacomiane. Come si vede, questo
momento lirico è generato da un semplice intreccio di elementi
comuni e di seduzioni accattivanti che si configurano come ansia di
luce e determinano un’atmosfera sospesa nel tempo e ammantata di
struggenti emozioni, nel mentre l’idillio viene velato dalla
presenza del passato doloroso e da tanta malinconia. Ma, se questo
squarcio lirico rappresenta un arricchimento per la canzone, una
pennellata che la rende più suggestiva e pregevole, esso risulta
fuori luogo nell’economia del poemetto. E ciò perché la liricità di
Di Giacomo tende sempre ad essere in qualche modo “astratta” e ad
aspirare all’assoluta purezza della musica e perciò traduce in un
raffinato susseguirsi di note: la meditazione, i sentimenti, le
visioni. Allora il «tormento dell’esistere» che dovrebbe essere
suggerito da queste immagini pregne di nostalgia e di struggente
intimità e che dovrebbero concorrere ad esprimere la violenza di un
sogno distrutto e, nel contempo, il declino di un mito sublimano nel
suono delle parole e tutto perde ogni realisticità e
concretezza e si esala nell’immaginazione e nell’espressività
timbrica: il racconto e la passionalità vengono esclusi in forza
della luce e dell’armonia della parola. Non c’è più “realtà”: le
cose coincidono con le parole e con il ritmo e non c’è neppure
la consapevolezza del tempo, del divenire. La donna, evocata come un
fantasma, il cuore caduto materialmente in suo possesso, il dolore e
l’affanno per la rinuncia diventano esclusivamente parola e musica,
poesia senza realtà. Una nota critica, che ben delinea questa
peculiarità della poesia di Salvatore Di Giacomo, è quella di Luigi
Russo: «Nella sua poesia non vi è dramma che non si concili nel
sogno, non v’è passione che non si distrugga e dissolva in una nota
di colore, non vi è dolore che non si componga in una incantata
malinconia».
Questa poesia, nella quale
si condensa un particolare vissuto dell’autore sia a livello
sentimentale-psicologico che a livello socio-culturale, così
traboccante dell’infinita tensione autobiografica dei sentimenti,
colma di amarezza, desolazione e di lacrime cercate risulta
particolarmente difficile da musicare. Ci prova Mario Costa, il
migliore e più sensibile socio artistico del poeta, capace di
rivestire di squisiti suoni il respiro dell’animo digiacomiano,
capace di interpretare in frasi musicali tutte le sfumature, le
sottili evanescenze, le ansietà e i brividi del mondo affettivo del
poeta. Costa, che è già riuscito a creare un autentico capolavoro
con Era de maggio, un’altra poesia del Di Giacomo altrettanto
difficile da musicare, non riesce stavolta a conseguire risultati
all’altezza di quelli precedenti pure se nel complesso essi non
possono dirsi disprezzabili. Anzitutto va subito chiarito che il
brano non ha niente a che vedere con la canzone napoletana.
Presenta, infatti, un’architettura complessa, lontana dagli stilemi
tipici tradizionali della canzone, a cominciare dall’assenza di una
struttura strofa-ritornello o semplicemente strofica. La linea
armonica è particolarmente densa, con alcuni richiami a motivi
liturgici ed è inusualmente ricca di cromatismi rispetto alla
tradizione musicale italiana. La linea melodica, un andantino in mi
minore che termina in mi maggiore con metro in 4/4 e tessitura
vocale media – un intervallo di undicesima da si2 a mi4
– presenta brevi scale ascendenti e discendenti fino a salire, in
corrispondenza del penultimo verso – E p’’a muntagna se purtaie
stu core – a un mi acuto e forte ripetuto sei volte per
accompagnare le prime sei sillabe del verso quasi come avviene in un
"declamato". È un avveduto tocco di trasognato lirismo che riceve
forza dal ritrovarsi al culmine di un’atmosfera cupa nella quale,
dopo aver fatto irruzione con forza il passato ed essere stato
rifiutato, sta andando via l’allettante ed insidiosa tentazione con
la sua preda nel grembiule per lasciare posto al rimpianto e a un
groviglio di passioni irrisolte. È qui che si raggiunge l’apice
melodico del brano e ciò si realizza proprio in corrispondenza del
miglior momento lirico dei versi.
L’introduzione e la coda di
‘O Munasterio propongono sonorità organistiche di stampo
liturgico e la coda si chiude con l’indicazione «segue l’Ave
Maria».
La musica
presenta una intensa concentrazione espressiva con una componente
emozionale sofferta ed introspettiva tesa a scavare un animo
tormentato, senza indulgere verso una facile melodia. Ma proprio
questo rende il brano poco orecchiabile e difficile da eseguire e ne
limita la popolarità. Si consideri, infatti, che per musicare la
quartina contenente il dialogo tra il frate e la figlióla, un
dialogo fatto tra l’altro di frasi brevi, Costa ricorre al
“recitativo accompagnato” di tipo operistico, che, a differenza
dell’aria, non è proprio esattamente quello che si imprime nel cuore
e nell’orecchio popolare. A ciò si aggiunge il fatto che, avendo la
canzone una tessitura melodica rivolta ai registri medi e, quindi,
poco adatta a far risaltare le doti vocali dei grandi tenori, non
viene inserita da questi interpreti nel loro repertorio con la
conseguente ulteriore riduzione di diffusione e notorietà. Questa
assenza del brano nel repertorio tenorile è un fatto tanto più
rilevante ai fini del successo della canzone in quanto la melodia
necessita di una raffinata vocalità capace di sottolinearne il
pathos lirico. Detto in altre parole, ‘O Munasterio ha
bisogno di interpreti molto validi.
Renato Gargiulo
Pubblicazione de Il Portale del Sud, gennaio 2016 |