È una canzone della coppia Di Giacomo-Costa, del 1885 o del 1886.
L'incertezza sulla data appare ancora più evidente se si considera
che Salvatore Palomba sceglie il 1885 nel suo libro La canzone
napoletana e il 1886 nell'altro suo libro Canzoni napoletane
(di Salvatore Di Giacomo). È questo un periodo, comunque, molto
fruttuoso per il nostro poeta: si pubblicano sue raccolte di poesie
('O funnaco verde) e di novelle (Mattinate napoletane)
e diverse canzoni napoletane, tra cui
Era de maggio (1885),
Oje Carulì (1885), Oje 'marenà (1885), Statte,
Peppì (1885), Marechiare (1885), Mena, me'!
(1886)...
La canzone viene presentata alla rassegna di Piedigrotta dando
origine ad una furibonda rissa tra gli entusiasti e i detrattori del
brano. Una rissa sottolineata dall’indignazione e dal biasimo dei
giornali del nord ai quali pare impossibile, se non indecoroso, che
una città così duramente provata dall’epidemia di colera l’anno
precedente (o forse due anni prima) potesse azzuffarsi solo per una
canzonetta. Perché Napoli, nel 1884, era stata colpita da una
terribile epidemia di colera[1],
una calamità alla quale aveva fatto seguito da parte della monarchia
e del governo solo di tante belle parole e di tanta, tanta retorica.
Ma, mi si perdoni qui una breve digressione: il colera in quel
momento rappresentava un’occasione troppo ghiotta per poter dare una
parvenza di provvidenziale al “risanamento” di Napoli: la più
colossale, vergognosa e criminale speculazione edilizia perpetrata
ai danni della città a vantaggio delle lobby speculative del nord e
della camorra oltre che la più clamorosa espulsione delle classi
povere dalle aree centrali cittadine appena “bonificate”[2].
Ma Oilì oilà c’entra poco con gli avvenimenti politici e
sociali della sua epoca. Di Giacomo, tutto proiettato spiritualmente
ed affettivamente verso il secolo precedente, sembra alquanto
distratto dagli accadimenti contemporanei. Perciò concentriamoci
solo sull’analisi del testo qui di seguito riportato.
I
Carmè, quanno te veco
Carmè, quanno te veco
Carmè, quanno te veco
mme sbatte 'o core!
Dimmello tu ch'è chesto
Dimmello tu ch'è chesto
Dimmello tu ch'è chesto
si nun è ammore?
Chest'è ammore,
oilì, oilà!
E dincello a mamma toia,
si te vo fa mmaretà.
Chest'è ammore,
oilì, oilà!
E dincello a mamma toia,
si te vo fa mmaretà!
(Coro)
Carmè, dincello,
nu bellu maretiello
è sempe buono.
Si no tu rieste sola,
sola, sola,
e lariulà!...
'A verità, ce vo' na cumpagnia!
tricche - tricche, e llariulà...
tricche - tricche, e llariulà...
II
Comm'acqua a la funtana
Comm'acqua a la funtana
Comm'acqua a la funtana
ca nun se secca,
l'ammore è na catena
l'ammore è na catena
l'ammore è na catena
ca nun se spezza.
Nun se spezza,
oilì, oilà!
Si se spezza... bonasera,
nun se pò cchiù ncatenà!
Nun se spezza,
oilì, oilà!
Si se spezza... bonasera,
nun se pò cchiù ncatenà!
(Coro)
Carmè, tu 'o ssiente!
nu bellu maretiello
è sempe buono.
Si no tu rieste sola,
sola, sola,
e lariulà!...
'A verità, ce vo' na cumpagnia!
tricche - tricche, e llariulà...
tricche - tricche, e llariulà...
III
Stu core aggio perduto
Stu core aggio perduto
Stu core aggio perduto
mmiezo a na via!
Tu certo l'haie truvato!
Tu certo l'haie truvato!
Tu certo l'haie truvato!
bellezza mia!
L'haie truvato,
oill, oilà!
l'haie truvato e l'annascunne,
ma vengh'io pe m''o piglià!
L'haie truvato,
oilì, oilà!
L'haie truvato e l'annascunne,
ma vengh'io pe m''o piglià!
(Coro di donne)
Carmè, dancillo,
nu bellu maretiello
è sempe buono.
Si no tu rieste sola,
sola, sola,
e lariulà!...
'A verità ce vo' na cumpagnia!
tricche - tricche, e llariulà...
tricche - tricche, e llariulà...
tricche - tricche, e llariulà...
tricche - tricche, e llariulà...
Come si vede Oilì, oilà è una canzone di fattura ed
ispirazione completamente diversa da
Era de maggio: mentre
quest'ultima è lirica sofisticata di ispirazione colta, la prima è
invece più leggera di ispirazione popolaresca; mentre la seconda si
pone come un componimento di notevole spessore estetico la prima si
colloca su un livello più modesto pur mantenendo una notevole
qualità compositiva e un lessico particolare, gustosamente
accattivante.
Oilì, oilà
può dirsi il tipico esempio della produzione popolaresca del
nostro autore. A questo proposito secondo Sebastiano Di Massa (forse
più apologeta che critico dell’opera digiacomiana) il poeta ha il
merito di rinnovare il canto popolaresco partenopeo facendo
confluire in esso due nuovi elementi: l’elemento culturale e
quello della partecipazione dell’autore alla vita popolare
cittadina.
Indiscutibile l’importanza data all’elemento culturale: Di
Giacomo è un fine conoscitore del canto popolare ed un attento
studioso del settecento. Egli può con facilità e competenza
immettere nelle sue canzoni spunti e motivi tradizionali rivedendoli
ed arricchendoli alla luce della sua sensibilità, riproponendo
vecchi modelli di tradizione scritta e orale rivisitati,
riassorbiti, trasformati. In questo senso Oilì, oilà, nato
non come poesia ma direttamente come canzone, ha la caratteristica
di riecheggiare canti popolari perfettamente assimilati facendo
rivivere con spirito nuovo il vecchio tema della dichiarazione
d'amore.
Riguardo, invece, la partecipazione del poeta alla vita
delle classi popolari che avrebbe permesso una comunione
profonda e perfetta tra il sentimento del poeta e quello del popolo
trasferita poi nelle sue liriche c’è invece molto da obiettare ed è
necessario fare una lunga digressione.
La vita del popolo a Napoli alla fine dell’800 è particolarmente
tragica e tutto si può dire tranne che Di Giacomo vi partecipi anche
solo moralmente. Dopo l’unificazione dell’Italia, il popolo
napoletano vive, infatti, una situazione di profondo malessere e di
gravi tensioni sociali che si esprime attraverso continue agitazioni
e proteste contro il governo che non mantiene la promessa di
industrializzare la città e poi contro le tasse, contro il rincaro
del pane, contro il dilagare della corruzione nel Municipio, contro
la guerra coloniale. In particolare nel 1887, venendo aumentato il
dazio sul grano con conseguente rincaro del costo del pane, hanno
luogo agitazioni che raggiungeranno il culmine sul finire
dell'inverno del 1898, anno in cui l'esasperazione delle masse
cittadine per la miseria e la carestia si traduce in una serie di
tumulti e di scontri con l'esercito eretto garante dell'ordine
pubblico. In seguito a questi sanguinosi “tumulti della fame”, il
presidente Rudinì estende a Napoli lo stato d'assedio già imposto
nel Nord, accentuando la repressione attraverso i tribunali
militari.
Di questi fatti non vi è traccia nelle opere del Di Giacomo. Il suo
spirito creativo, che secondo alcuni critici sarebbe in perfetta
comunione con lo spirito popolare, non viene assolutamente turbato
né da quel sangue né da quelle violenze: egli semplicemente sembra
vivere in un altro mondo dove i personaggi che propone hanno più le
caratteristiche di figurine che di esseri in carne ed ossa.
Salvatore Di Giacomo sembra non comprendere il senso di questi moti
popolari, egli è sostanzialmente insensibile al grido di dolore che
viene dalla città, non riesce a penetrare le motivazioni e i
sentimenti dei protagonisti dei tumulti e farne oggetto della sua
opera. Per quanto i fatti del 1898 siano di una gravità eccezionale,
qualcosa che mancava dal palcoscenico cittadino dai tempi di
Masaniello, ovvero un susseguirsi di sangue, violenze, arresti
indiscriminati, tribunali speciali, stato d’assedio e quant’altro,
Di Giacomo non riesce a comprendere cosa sta avvenendo non capisce
la disperazione ed la sofferenza di tanta gente. Egli, che è un
benpensante, rifugge dalla violenza e forse giudica i rivoltosi come
mostri sanguinari, allo stesso modo della stampa conservatrice.
Nella sua opera vengono ignorate completamente popolane disperate o
furiose o semplicemente imbestialite dalla fame, donne come ’A
Pazzarella che guida coraggiosamente le donne del quartiere a
forzare gli sbarramenti di soldatesca armata per protestare sotto i
balconi della Prefettura contro il caro pane. Egli si trova
moralmente dall’altra parte: se fosse vissuto ai tempi di Masaniello
con ogni probabilità avrebbe riprovato o ignorato del tutto il
capopopolo napoletano. Nelle sue liriche continuano ad esserci le
solite Caroline dagli occhi neri-neri, le acquaiole e le “chianchere”,
le Carmele con le loro “vocche azzeccose” e le loro trecce, le
Caterine e le Concette capricciose, crudeli e sventate. Qualcuno ha
osservato che il poeta sembra solo interessato a creare nella poesia
napoletana una specie di dólce stil nòvo in vernacolo, è teso
soltanto a travestire l’arcadia in panni moderni.
In realtà i letterati napoletani di fine ottocento, tra cui Di
Giacomo, non brillano certo per impegno sociale e partecipazione
civica. Sono fuori dal mondo reale e da quel processo storico che
porterà inesorabilmente alla irreversibile crisi del «blocco
agrario» al quale, invece, tutti loro si sentono in qualche modo
legati. La cultura cittadina è schierata grettamente e meschinamente
dalla parte di ha paura del popolo perché teme di perdere le sue
posizioni egemoni.
Queste considerazioni hanno il solo scopo di mostrare come né in
Oilì, oilà, né in nessuna altra canzone del nostro autore esista
una qualche comunione tra il sentimento del poeta e quello del
popolo.
Perché, allora, Oilì, oilà e tante altre liriche paiono
riflettere così bene lo spirito del popolo napoletano che questo
sembra quasi identificarsi in esse? In realtà, Di Giacomo, studioso
attento del canto popolare si ispira molto ad esso, richiamando
nelle sue composizioni motivi e spunti proprio da questo filone.
Egli, in ultima analisi, ripropone suggestioni ed echi antichi dei
canti popolari cercando di renderli voci del suo tempo. E, proprio
perché lo spirito di tali elementi è rimasto vivo nella tradizione,
le sue composizioni vengono accolte come genuina espressione del
popolo. Ma in realtà egli si limita solo a fare folklore
documentario: propone le situazioni così come esse in apparenza si
presentano, si limita essenzialmente all’impressione, alla notazione
gustosa. Perciò la sua opera ci offre non la più «attendibile» ma la
più «alta interpretazione» dell'anima napoletana. Egli
sostanzialmente resta un artista che colorisce.
Proprio per queste sue caratteristiche la poesia digiacomiana
anticipa in qualche modo un certo crepuscolarismo quanto a
esteriorità dei contenuti: traboccante di richiami all’arcadia e
all’idillio, dichiaratamente ispirata all’arietta metastasiana.
Ma c’è un’altra ragione che induce molti a credere che nelle poesie
diagiacomiane si rispecchi lo spirito del popolo napoletano: la
canzone napoletana di questo periodo sta diventando espressione
della classe piccolo-borghese, la classe dominante. Questa, come ha
acutamente osservato Roberto De Simone assegnatosi il compito di
educare il popolo, impone
dall’alto i suoi modelli culturali spacciandoli come unica
espressione possibile di canto.
È proprio questa pretesa della classe dominante di farsi unica
interprete del sentimento popolare eliminando nel contempo ogni
espressione diretta del “vero” popolo napoletano a generare la falsa
convinzione che la voce del poeta possa essere quella del
popolo stesso
che si riconoscerebbe in lui.
In realtà, Di Giacomo non viene dal popolo: egli è figlio di un
medico, consegue la licenza liceale e frequenta per tre anni
l’Università. Sua moglie è figlia di un magistrato e fa
l’insegnante.
Di Giacomo, impiegato alla biblioteca, rappresenta il ceto medio di
basso reddito con idee piccolo-borghesi e benpensanti, chiuso nelle
sue frequentazioni ad artisti e a persone di cultura. Le sue
osservazioni sul popolo vengono fatte senza “mischiarsi” con esso,
standosene alla finestra, a giusta distanza. La sua poesia è,
perciò, il risultato di una “trasfigurazione” lirica della realtà
nella quale manca proprio il soggetto protagonista: il popolo
napoletano. La conseguenza di ciò è la mancanza di un rapporto
dialettico tra il linguaggio utilizzato ed il contenuto dell’opera:
non dipingendo egli fatti reali, personaggi concreti, idee e
sentimenti di cui riesca ad essere partecipe, è indotto ad
utilizzare un linguaggio artefatto, una specie di “dialetto colto”
che non è affatto la lingua parlata in città. È un linguaggio non
privo di termini in disuso, più simile all’idioma partenopeo
settecentesco e di chiara derivazione colta, ricavato da quello dei
grandi seicentisti, Basile, Cortese, Sgruttendio, e da quello
ricavabile dalle Villanelle. Questo dialetto agli occhi del Di
Giacomo appare più elevato, più adatto ad esprimere i suoi stati
d’animo petrarcheschi e ad articolare versi di grande eleganza e
musicalità. È evidente che una tale poesia risulta più vicina al
mondo di un Verlaine o di un Metastasio che a quello di un popolo
sofferente, affamato, esasperato.
Una ulteriore riprova di quanto affermato si ha nei canti d’amore.
Qui è facile riscontrare la mancanza di un’ispirazione veramente
terrena, sanguigna, corposa, magari con risvolti piccanti, con donne
capaci di suscitare amori e desideri concreti. Le donne digiacomiane
sono costruzioni letterarie, figure vaghe e indefinite prive di
spessore realistico, a volte, come nel caso di Oilì, oilà, si
caratterizzano per il solo fatto di avere un nome. Fanno parte tutte
di una «finzione» creativa finalizzata a un esercizio poetico di
grande eleganza e raffinatezza ma lontano dal modo di sentire delle
classi popolari mancando in esso la concretezza nei personaggi, nei
problemi, nelle passioni. Più che un prodotto popolare, le canzoni
del Di Giacomo sono un tipico prodotto borghese inquadrabile nella
tradizione colta. Scrive in proposito Gianni Cesarini, musicologo e
scrittore e giornalista del Mattino
«[...] questo straordinario poeta [...] seppe, almeno nei primi
vent'anni della sua attività, scendere tra il popolo, riuscendo in
non pochi casi a far amare alla massa canzoni che in realtà erano
sofisticate romanze da salotto».
È interessante, però, osservare come alcune canzoni, nello spirito
più che nella struttura formale, sono modellate molto felicemente su
prototipi sicuramente popolari. È il caso questo di Oilì, oilà.
I pochi versi di questa canzone, molte volte ripetuti, sono poco più
di un esercizio in rima, nel quale il protagonista, innamorato di
Carmela, chiede insistentemente alla donna di sposarlo. Le tre
strofe riprendono in modo giocoso ed allegro tematiche radicate
nella tradizione popolare, rielaborate secondo il gusto, il
linguaggio e la sensibilità dell’autore. Il ritornello, che fa da
collante tra le strofe riconducendo di volta in volta il discorso al
tema matrimoniale, è intonato da un Coro che ripete ed appoggia la
richiesta di matrimonio del protagonista: nu bellu maretiello / è
sempe buono. Esso differisce in ogni sua riproposizione solo per
il verso iniziale (Carmè, dincello, poi Carmè, tu 'o
ssiente! ed infine Carmè, dancillo).
Nella prima strofa troviamo il tema del batticuore in presenza
dell’amata sviluppato secondo un’ottica tipicamente borghese che
conduce direttamente alla richiesta di matrimonio. Osserviamo che,
come sempre accade nella tradizione popolare, è la mamma della
ragazza, e non il padre, che decide sull’eventuale matrimonio della
figlia.
Il tema della fontana, presente nella seconda strofa e così
ricorrente in tanta poesia popolare, riprende il paragone “amore /
acqua della fontana” ca nun se secca già presente in
Era de maggio. Qui, però, l’argomento è trattato in maniera
scherzosa facendo ricorso a una piccola e graziosa ovvietà: una
catena che si spezza non può più incatenare.
La terza strofa propone l’immagine del cuore lasciato in strada, un
tema ripreso (rubato?) probabilmente dalla Capuana (Lo core
sperduto) di G. Cottrau e che troviamo anche nell’altra canzone
digiacomiana Munasterio. A differenza di quest’ultima
canzone, nella quale il cuore perduto serve per creare un forte e
suggestivo scenario poetico, qui il cuore serve invece per dar luogo
al gioco tra innamorati del “nascondere e ritrovare”.
Il brano testimonia la pulitezza del verso e la musicalità impressa
al ritmo dal poeta, ma ne svela anche la personalità. La
dichiarazione d’amore a Carmela, infatti, è fatta da un personaggio
certamente non popolare perché la grazia e la gentilezza con la
quale viene espressa non sono caratteristiche dei ceti bassi. Di
Giacomo, d’altra parte, non concepisce l’amore dei ceti più
derelitti, amorale e disinibito, fatto spesso di appetiti violenti e
sensuali, nel quale il matrimonio non precede né sta al centro della
vita di coppia. Per renderci meglio conto di quest’ultima
affermazione vediamo quanto espresso dal nostro autore in ’E
spingole frangese, un testo che è un rifacimento abbastanza
fedele di un canto popolare campano. In esso il protagonista,
personaggio stavolta realmente popolare, non chiede ovviamente alla
ragazza di sposarlo, ma solo tout court una prestazione sessuale
“ricompensata”. In Oilì, oilà, invece, il peso della cultura
letteraria si avverte e non poco, tanto che la richiesta di
matrimonio finisce per presentare in qualche modo le caratteristiche
di quell’ossequio che, nella poesia medioevale, il cavaliere rendeva
alla bella castellana. Di Giacomo non comprende o non accetta che
gli amori sbrigativi fino ad essere grossolani, capaci di gesti
osceni, di allusioni o epiteti volgari e finanche di lazzi e di
sberleffi sono quelli veramente praticati dal popolo e, proprio per
questo, profumano di vero, di vivo, di vitale.
Osserviamo che la situazione amorosa descritta in Oilì, oilà
si presenta statica, sospesa, senza alcuno sviluppo: al poeta non
interessa infatti raccontare una storia, ma descrivere in modo
elegante e giocoso una profferta d’amore e di matrimonio. L’elemento
corale, che arricchisce questa come tante altre canzoni digiacomiane,
è di chiara derivazione tradizionale: il coro del popolo qui ascolta
le iniziative amorose del protagonista, le commenta come nella
tragedia greca (Si no tu rieste sola) e le appoggia con
adesione.
L'impiego del coro è tipico della produzione piedigrottesca del Di
Giacomo, anzi esso è «diventato quasi un discrimine per la
canzone di Piedigrotta» (Plenizio). Altro elemento, ricavato dal
canto popolare e presente in questa canzone è il mottozzo,
cioè un'espressione essenzialmente fonica, un gioco sonoro, un
intercalare, una sequenza ritmico-fonica senza significato, usata a
volte allusivamente e la cui funzione è quella di modellare la rima;
esso ha la caratteristica di non presentare attinenza alcuna col
senso logico dei versi o col senso stesso di tutta la canzone. Qui
troviamo lariulà (un mottozzo tronco come
carcioffolà, ndrighete ndrà, tiriti tiritommolà ecc...)
oltre a oilì oilà che dà il titolo alla canzone ed è
destinato ad essere utilizzato in molte altre canzoni non solo
napoletane (Sebben che siamo donne, È arrivato l'Ambasciatore, La
Fiera di San Lazzaro, Tarandella, Ho perso una pecorella, Buon
Lupetto, La campagnola, La Zita e molte altre ancora...).
È un Di Giacomo minore questo di Oilì oilà? Sicuramente lo è.
Tanto che lo stesso poeta non ritiene la canzone meritevole di
essere inserita nell’ultima raccolta delle sue poesie del 1927. Ma
non possiamo non notare la straordinaria freschezza dei versi, la
loro agilità, il loro garbo e, se non ci ostiniamo a volere a tutti
i costi riconoscere in essi l’anima popolare, possiamo allora
tranquillamente affermare che ci troviamo di fronte a una deliziosa
e spigliata composizione sul corteggiamento borghese d’autore colto.
Le reminiscenze di forme popolari, il melos dei versi, l’arguta e
allo stesso tempo semplice costruzione armonica e, quella che oggi
si definisce “orecchiabilità”, sono la base della fortuna di questo
brano che, diventato un classico della canzone napoletana, resta
nella coscienza collettiva del popolo, impresso nel suo profondo
emotivo. La musicalità del verso digiacomiano è straordinaria, sono
le parole stesse a farsi musica. Ovviamente, per rivestire di
melodia siffatti versi occorre una grande sintonia tra la
sensibilità del poeta e il “mestiere” del compositore.
Sulle immagini fresche ed immediate del testo poetico Costa articola
una tarantella di piglio vivace, brillante e spensierata basata su
una scala di poche note (stratagemma utilizzato, secondo il Plenizio,
dal compositore quando vuole essere "orecchiabile" e "colorire" la
melodia in senso popolaresco). È un allegro con brio, che privilegia
gli aspetti giocosi e si incrocia con modelli tipici tradizionali.
Il musicista si ispira, infatti, a un canto popolare tarantino,
tanto che il titolo assegnato originariamente al brano era quello di
Canzone tarantina.
Il metro di 6/8, l'agogica e la tonalità di Re maggiore non cambiano
lungo tutta la composizione «L'accompagnamento
cambia, invece, passando da un'alternanza di semiminima al basso e
accordo di crome per ogni movimento con uno schema armonico:
tonica/dominante, dominante/tonica ad un modello terzinato su
un'ottava, formato da: fondamenta-le/quinta/fondamentale. Per quanto
riguarda la melodia si segnala l'indicazione «(Coro)» in
corrispondenza delle terze parallele di Carmè dincello / nu bellu
maritiello / è sempe buono. / Si no tu rieste sola / sola, sola / e
lariulà!... / 'A verità, ce vò na cumpagnia! che non è molto comune»
(Carla Conti).
La fantasiosa elaborazione degli spunti popolari articolata su una
semplice, e perciò efficace, tessitura eleva la melodia a creazione
originale. L’impianto di gusto deciso e allegro e di ben definiti
contorni si stempera con proprietà d’espressione in un vivace e
frizzante affresco sonoro. La musica, che si imprime nella mente e
nell’orecchio di chi l’ascolta, ha un gradevole senso evocativo e
contiene nel ritmo di tarantella, negli accenti, nel colore del
tema, i sapori tipici della musica popolare, ripresi e filtrati
dalla sensibilità del musicista colto. Costa, come sempre, cesella
il brano con grande eleganza non piegando la qualità della scrittura
all’urgenza espressiva e non rinunziando alla pulizia del
componimento, alla grazia decorativa, alle finezze armoniche pur
utilizzando un impianto robusto ed essenziale, articolato su un ben
modulato slancio propulsivo e spumeggiante, ricolmo di sentimento
dal quale fa scaturire un periodare ricco di determinazione.
Note
[1]
Prima di questa data la città è già stata colpita dal colera in più
occasioni a partire dal
1836 - '37, anni in cui l'epidemia provoca 20.000 morti. Dopo di
allora, con frequenza pressoché decennale, la malattia ritorna a
infierire a Napoli e la notevole diffusione che vi ha, soprattutto
in alcuni anni, rappresenta quasi una sorta di misurazione delle
condizioni di estremo degrado igienico in cui versa gran parte della
città. L'epidemia del 1884 ripropone, come già in passato, una netta
linea di demarcazione tra i vari quartieri della città, mettendo in
luce l'esistenza della forte diseguaglianza che caratterizza la
società napoletana. La fascia più povera vive nei quartieri di
Porto, Mercato, Pendino e Vicaria quartieri nei quali si registrano
9.086 casi, rispetto ai 3.158 degli altri otto quartieri.
[2]
Le conseguenze del “Risanamento” sono devastanti: tra le cause
dell’organizzazione camorristica della plebe napoletana vi è
proprio la sua espulsione coattiva dall'area interessata al
"Risanamento" e la "concessione", quali enclaves extralegem,
degli altri quartieri popolari del centro storico. La camorra
acquista un potere prima impensabile e le infiltrazioni
camorristiche nel comune di Napoli diventano tali che in appena
trentanove anni dall'Unità d'Italia, la città dovrà essere
commissariata ben nove volte. Il piano portato avanti dal
Risanamento nasce, in realtà, superficiale ed approssimativo
avendo il torto di ridurre tutto al fatto edilizio: è un piano
tecnico, astratto, che taglia e distrugge parti vive del corpo
della città, prescindendo da problemi umani, storici, di lavoro,
di vita, vecchi di secoli e per risolvere i quali si sarebbe
dovuto affrontare e risolvere il problema di dare un lavoro,
moderno e civile, alla plebe cittadina. In sostanza, la classe
dirigente borghese identifica solo nella rendita fondiaria la
più concreta forma di reddito rifiutando l’investimento
produttivo della rendita che avrebbe potuto determinare anche lo
sviluppo sociale. In tale ottica la distruzione dei quartieri
"bassi" assicura l'acquisizione dei suoli per lucrare nuove
rendite immobiliari.
Renato Gargiulo
Pubblicazione del Portale
del Sud, ottobre 2015
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