Note e Versi Meridiani

 

 

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Oilì, oilà

Saggio sulla canzone di Renato Gargiulo

 

È una canzone della coppia Di Giacomo-Costa, del 1885 o del 1886. L'incertezza sulla data appare ancora più evidente se si considera che Salvatore Palomba sceglie il 1885 nel suo libro La canzone napoletana e il 1886 nell'altro suo libro Canzoni napoletane (di Salvatore Di Giacomo). È questo un periodo, comunque, molto fruttuoso per il nostro poeta: si pubblicano sue raccolte di poesie ('O funnaco verde) e di novelle (Mattinate napoletane) e diverse canzoni napoletane, tra cui Era de maggio (1885), Oje Carulì (1885), Oje 'marenà (1885), Statte, Peppì (1885), Marechiare (1885), Mena, me'! (1886)...

La canzone viene presentata alla rassegna di Piedigrotta dando origine ad una furibonda rissa tra gli entusiasti e i detrattori del brano. Una rissa sottolineata dall’indignazione e dal biasimo dei giornali del nord ai quali pare impossibile, se non indecoroso, che una città così duramente provata dall’epidemia di colera l’anno precedente (o forse due anni prima) potesse azzuffarsi solo per una canzonetta. Perché Napoli, nel 1884, era stata colpita da una terribile epidemia di colera[1], una calamità alla quale aveva fatto seguito da parte della monarchia e del governo solo di tante belle parole e di tanta, tanta retorica. Ma, mi si perdoni qui una breve digressione: il colera in quel momento rappresentava un’occasione troppo ghiotta per poter dare una parvenza di provvidenziale al “risanamento” di Napoli: la più colossale, vergognosa e criminale speculazione edilizia perpetrata ai danni della città a vantaggio delle lobby speculative del nord e della camorra oltre che la più clamorosa espulsione delle classi povere dalle aree centrali cittadine appena “bonificate”[2].

Ma Oilì oilà c’entra poco con gli avvenimenti politici e sociali della sua epoca. Di Giacomo, tutto proiettato spiritualmente ed affettivamente verso il secolo precedente, sembra alquanto distratto dagli accadimenti contemporanei. Perciò concentriamoci solo sull’analisi del testo qui di seguito riportato.

                 I

Carmè, quanno te veco

Carmè, quanno te veco

Carmè, quanno te veco

mme sbatte 'o core!

Dimmello tu ch'è chesto

Dimmello tu ch'è chesto

Dimmello tu ch'è chesto

si nun è ammore?

Chest'è ammore,

oilì, oilà!

E dincello a mamma toia,

si te vo fa mmaretà.

Chest'è ammore,

oilì, oilà!

E dincello a mamma toia,

si te vo fa mmaretà!

                      (Coro)

Carmè, dincello,

nu bellu maretiello

è sempe buono.

Si no tu rieste sola,

sola, sola,

e lariulà!...

'A verità, ce vo' na cumpagnia!

tricche - tricche, e llariulà...

tricche - tricche, e llariulà...

                 II

Comm'acqua a la funtana

Comm'acqua a la funtana

Comm'acqua a la funtana

ca nun se secca,

l'ammore è na catena

l'ammore è na catena

l'ammore è na catena

ca nun se spezza.

Nun se spezza,

oilì, oilà!

Si se spezza... bonasera,

nun se pò cchiù ncatenà!

Nun se spezza,

oilì, oilà!

Si se spezza... bonasera,

nun se pò cchiù ncatenà!

                      (Coro)

Carmè, tu 'o ssiente!

nu bellu maretiello

è sempe buono.

Si no tu rieste sola,

sola, sola,

e lariulà!...

'A verità, ce vo' na cumpagnia!

tricche - tricche, e llariulà...

tricche - tricche, e llariulà...

                 III

Stu core aggio perduto

Stu core aggio perduto

Stu core aggio perduto

mmiezo a na via!

Tu certo l'haie truvato!

Tu certo l'haie truvato!

Tu certo l'haie truvato!

bellezza mia!

L'haie truvato,

oill, oilà!

l'haie truvato e l'annascunne,

ma vengh'io pe m''o piglià!

L'haie truvato,

oilì, oilà!

L'haie truvato e l'annascunne,

ma vengh'io pe m''o piglià!

(Coro di donne)

Carmè, dancillo,

nu bellu maretiello

è sempe buono.

Si no tu rieste sola,

sola, sola,

e lariulà!...

'A verità ce vo' na cumpagnia!

tricche - tricche, e llariulà...

tricche - tricche, e llariulà...

tricche - tricche, e llariulà...

tricche - tricche, e llariulà...

Come si vede Oilì, oilà è una canzone di fattura ed ispirazione completamente diversa da Era de maggio: mentre quest'ultima è lirica sofisticata di ispirazione colta, la prima è invece più leggera di ispirazione popolaresca; mentre la seconda si pone come un componimento di notevole spessore estetico la prima si colloca su un livello più modesto pur mantenendo una notevole qualità compositiva e un lessico particolare, gustosamente accattivante.

Oilì, oilà può dirsi il tipico esempio della produzione popolaresca del nostro autore. A questo proposito secondo Sebastiano Di Massa (forse più apologeta che critico dell’opera digiacomiana) il poeta ha il merito di rinnovare il canto popolaresco partenopeo facendo confluire in esso due nuovi elementi: l’elemento culturale e quello della partecipazione dell’autore alla vita popolare cittadina.

Indiscutibile l’importanza data all’elemento culturale: Di Giacomo è un fine conoscitore del canto popolare ed un attento studioso del settecento. Egli può con facilità e competenza immettere nelle sue canzoni spunti e motivi tradizionali rivedendoli ed arricchendoli alla luce della sua sensibilità, riproponendo vecchi modelli di tradizione scritta e orale rivisitati, riassorbiti, trasformati. In questo senso Oilì, oilà, nato non come poesia ma direttamente come canzone, ha la caratteristica di riecheggiare canti popolari perfettamente assimilati facendo rivivere con spirito nuovo il vecchio tema della dichiarazione d'amore.

Riguardo, invece, la partecipazione del poeta alla vita delle classi popolari che avrebbe permesso una comunione profonda e perfetta tra il sentimento del poeta e quello del popolo trasferita poi nelle sue liriche c’è invece molto da obiettare ed è necessario fare una lunga digressione.

La vita del popolo a Napoli alla fine dell’800 è particolarmente tragica e tutto si può dire tranne che Di Giacomo vi partecipi anche solo moralmente. Dopo l’unificazione dell’Italia, il popolo napoletano vive, infatti, una situazione di profondo malessere e di gravi tensioni sociali che si esprime attraverso continue agitazioni e proteste contro il governo che non mantiene la promessa di industrializzare la città e poi contro le tasse, contro il rincaro del pane, contro il dilagare della corruzione nel Municipio, contro la guerra coloniale. In particolare nel 1887, venendo aumentato il dazio sul grano con conseguente rincaro del costo del pane, hanno luogo agitazioni che raggiungeranno il culmine sul finire dell'inverno del 1898, anno in cui l'esasperazione delle masse cittadine per la miseria e la carestia si traduce in una serie di tumulti e di scontri con l'esercito eretto garante dell'ordine pubblico. In seguito a questi sanguinosi “tumulti della fame”, il presidente Rudinì estende a Napoli lo stato d'assedio già imposto nel Nord, accentuando la repressione attraverso i tribunali militari.

Di questi fatti non vi è traccia nelle opere del Di Giacomo. Il suo spirito creativo, che secondo alcuni critici sarebbe in perfetta comunione con lo spirito popolare, non viene assolutamente turbato né da quel sangue né da quelle violenze: egli semplicemente sembra vivere in un altro mondo dove i personaggi che propone hanno più le caratteristiche di figurine che di esseri in carne ed ossa.

Salvatore Di Giacomo sembra non comprendere il senso di questi moti popolari, egli è sostanzialmente insensibile al grido di dolore che viene dalla città, non riesce a penetrare le motivazioni e i sentimenti dei protagonisti dei tumulti e farne oggetto della sua opera. Per quanto i fatti del 1898 siano di una gravità eccezionale, qualcosa che mancava dal palcoscenico cittadino dai tempi di Masaniello, ovvero un susseguirsi di sangue, violenze, arresti indiscriminati, tribunali speciali, stato d’assedio e quant’altro, Di Giacomo non riesce a comprendere cosa sta avvenendo non capisce la disperazione ed la sofferenza di tanta gente. Egli, che è un benpensante, rifugge dalla violenza e forse giudica i rivoltosi come mostri sanguinari, allo stesso modo della stampa conservatrice. Nella sua opera vengono ignorate completamente popolane disperate o furiose o semplicemente imbestialite dalla fame, donne come ’A Pazzarella che guida coraggiosamente le donne del quartiere a forzare gli sbarramenti di soldatesca armata per protestare sotto i balconi della Prefettura contro il caro pane. Egli si trova moralmente dall’altra parte: se fosse vissuto ai tempi di Masaniello con ogni probabilità avrebbe riprovato o ignorato del tutto il capopopolo napoletano. Nelle sue liriche continuano ad esserci le solite Caroline dagli occhi neri-neri, le acquaiole e le “chianchere”, le Carmele con le loro “vocche azzeccose” e le loro trecce, le Caterine e le Concette capricciose, crudeli e sventate. Qualcuno ha osservato che il poeta sembra solo interessato a creare nella poesia napoletana una specie di dólce stil nòvo in vernacolo, è teso soltanto a travestire l’arcadia in panni moderni.

In realtà i letterati napoletani di fine ottocento, tra cui Di Giacomo, non brillano certo per impegno sociale e partecipazione civica. Sono fuori dal mondo reale e da quel processo storico che porterà inesorabilmente alla irreversibile crisi del «blocco agrario» al quale, invece, tutti loro si sentono in qualche modo legati. La cultura cittadina è schierata grettamente e meschinamente dalla parte di ha paura del popolo perché teme di perdere le sue posizioni egemoni.

Queste considerazioni hanno il solo scopo di mostrare come né in Oilì, oilà, né in nessuna altra canzone del nostro autore esista una qualche comunione tra il sentimento del poeta e quello del popolo.

Perché, allora, Oilì, oilà e tante altre liriche paiono riflettere così bene lo spirito del popolo napoletano che questo sembra quasi identificarsi in esse? In realtà, Di Giacomo, studioso attento del canto popolare si ispira molto ad esso, richiamando nelle sue composizioni motivi e spunti proprio da questo filone. Egli, in ultima analisi, ripropone suggestioni ed echi antichi dei canti popolari cercando di renderli voci del suo tempo. E, proprio perché lo spirito di tali elementi è rimasto vivo nella tradizione, le sue composizioni vengono accolte come genuina espressione del popolo. Ma in realtà egli si limita solo a fare folklore documentario: propone le situazioni così come esse in apparenza si presentano, si limita essenzialmente all’impressione, alla notazione gustosa. Perciò la sua opera ci offre non la più «attendibile» ma la più «alta interpretazione» dell'anima napoletana. Egli sostanzialmente resta un artista che colorisce.

Proprio per queste sue caratteristiche la poesia digiacomiana anticipa in qualche modo un certo crepuscolarismo quanto a esteriorità dei contenuti: traboccante di richiami all’arcadia e all’idillio, dichiaratamente ispirata all’arietta metastasiana.

Ma c’è un’altra ragione che induce molti a credere che nelle poesie diagiacomiane si rispecchi lo spirito del popolo napoletano: la canzone napoletana di questo periodo sta diventando espressione della classe piccolo-borghese, la classe dominante. Questa, come ha acutamente osservato Roberto De Simone assegnatosi il compito di educare il popolo, impone dall’alto i suoi modelli culturali spacciandoli come unica espressione possibile di canto. È proprio questa pretesa della classe dominante di farsi unica interprete del sentimento popolare eliminando nel contempo ogni espressione diretta del “vero” popolo napoletano a generare la falsa convinzione che la voce del poeta possa essere quella del popolo stesso che si riconoscerebbe in lui.

In realtà, Di Giacomo non viene dal popolo: egli è figlio di un medico, consegue la licenza liceale e frequenta per tre anni l’Università. Sua moglie è figlia di un magistrato e fa l’insegnante. Di Giacomo, impiegato alla biblioteca, rappresenta il ceto medio di basso reddito con idee piccolo-borghesi e benpensanti, chiuso nelle sue frequentazioni ad artisti e a persone di cultura. Le sue osservazioni sul popolo vengono fatte senza “mischiarsi” con esso, standosene alla finestra, a giusta distanza. La sua poesia è, perciò, il risultato di una “trasfigurazione” lirica della realtà nella quale manca proprio il soggetto protagonista: il popolo napoletano. La conseguenza di ciò è la mancanza di un rapporto dialettico tra il linguaggio utilizzato ed il contenuto dell’opera: non dipingendo egli fatti reali, personaggi concreti, idee e sentimenti di cui riesca ad essere partecipe, è indotto ad utilizzare un linguaggio artefatto, una specie di “dialetto colto” che non è affatto la lingua parlata in città. È un linguaggio non privo di termini in disuso, più simile all’idioma partenopeo settecentesco e di chiara derivazione colta, ricavato da quello dei grandi seicentisti, Basile, Cortese, Sgruttendio, e da quello ricavabile dalle Villanelle. Questo dialetto agli occhi del Di Giacomo appare più elevato, più adatto ad esprimere i suoi stati d’animo petrarcheschi e ad articolare versi di grande eleganza e musicalità. È evidente che una tale poesia risulta più vicina al mondo di un Verlaine o di un Metastasio che a quello di un popolo sofferente, affamato, esasperato.

Una ulteriore riprova di quanto affermato si ha nei canti d’amore. Qui è facile riscontrare la mancanza di un’ispirazione veramente terrena, sanguigna, corposa, magari con risvolti piccanti, con donne capaci di suscitare amori e desideri concreti. Le donne digiacomiane sono costruzioni letterarie, figure vaghe e indefinite prive di spessore realistico, a volte, come nel caso di Oilì, oilà, si caratterizzano per il solo fatto di avere un nome. Fanno parte tutte di una «finzione» creativa finalizzata a un esercizio poetico di grande eleganza e raffinatezza ma lontano dal modo di sentire delle classi popolari mancando in esso la concretezza nei personaggi, nei problemi, nelle passioni. Più che un prodotto popolare, le canzoni del Di Giacomo sono un tipico prodotto borghese inquadrabile nella tradizione colta. Scrive in proposito Gianni Cesarini, musicologo e scrittore e giornalista del Mattino «[...] questo straordinario poeta [...] seppe, almeno nei primi vent'anni della sua attività, scendere tra il popolo, riuscendo in non pochi casi a far amare alla massa canzoni che in realtà erano sofisticate romanze da salotto».

È interessante, però, osservare come alcune canzoni, nello spirito più che nella struttura formale, sono modellate molto felicemente su prototipi sicuramente popolari. È il caso questo di Oilì, oilà. I pochi versi di questa canzone, molte volte ripetuti, sono poco più di un esercizio in rima, nel quale il protagonista, innamorato di Carmela, chiede insistentemente alla donna di sposarlo. Le tre strofe riprendono in modo giocoso ed allegro tematiche radicate nella tradizione popolare, rielaborate secondo il gusto, il linguaggio e la sensibilità dell’autore. Il ritornello, che fa da collante tra le strofe riconducendo di volta in volta il discorso al tema matrimoniale, è intonato da un Coro che ripete ed appoggia la richiesta di matrimonio del protagonista: nu bellu maretiello / è sempe buono. Esso differisce in ogni sua riproposizione solo per il verso iniziale (Carmè, dincello, poi Carmè, tu 'o ssiente! ed infine Carmè, dancillo).

Nella prima strofa troviamo il tema del batticuore in presenza dell’amata sviluppato secondo un’ottica tipicamente borghese che conduce direttamente alla richiesta di matrimonio. Osserviamo che, come sempre accade nella tradizione popolare, è la mamma della ragazza, e non il padre, che decide sull’eventuale matrimonio della figlia.

Il tema della fontana, presente nella seconda strofa e così ricorrente in tanta poesia popolare, riprende il paragone “amore / acqua della fontana” ca nun se secca già presente in Era de maggio. Qui, però, l’argomento è trattato in maniera scherzosa facendo ricorso a una piccola e graziosa ovvietà: una catena che si spezza non può più incatenare.

La terza strofa propone l’immagine del cuore lasciato in strada, un tema ripreso (rubato?) probabilmente dalla Capuana (Lo core sperduto) di G. Cottrau e che troviamo anche nell’altra canzone digiacomiana Munasterio. A differenza di quest’ultima canzone, nella quale il cuore perduto serve per creare un forte e suggestivo scenario poetico, qui il cuore serve invece per dar luogo al gioco tra innamorati del “nascondere e ritrovare”.

Il brano testimonia la pulitezza del verso e la musicalità impressa al ritmo dal poeta, ma ne svela anche la personalità. La dichiarazione d’amore a Carmela, infatti, è fatta da un personaggio certamente non popolare perché la grazia e la gentilezza con la quale viene espressa non sono caratteristiche dei ceti bassi. Di Giacomo, d’altra parte, non concepisce l’amore dei ceti più derelitti, amorale e disinibito, fatto spesso di appetiti violenti e sensuali, nel quale il matrimonio non precede né sta al centro della vita di coppia. Per renderci meglio conto di quest’ultima affermazione vediamo quanto espresso dal nostro autore in ’E spingole frangese, un testo che è un rifacimento abbastanza fedele di un canto popolare campano. In esso il protagonista, personaggio stavolta realmente popolare, non chiede ovviamente alla ragazza di sposarlo, ma solo tout court una prestazione sessuale “ricompensata”. In Oilì, oilà, invece, il peso della cultura letteraria si avverte e non poco, tanto che la richiesta di matrimonio finisce per presentare in qualche modo le caratteristiche di quell’ossequio che, nella poesia medioevale, il cavaliere rendeva alla bella castellana. Di Giacomo non comprende o non accetta che gli amori sbrigativi fino ad essere grossolani, capaci di gesti osceni, di allusioni o epiteti volgari e finanche di lazzi e di sberleffi sono quelli veramente praticati dal popolo e, proprio per questo, profumano di vero, di vivo, di vitale.

Osserviamo che la situazione amorosa descritta in Oilì, oilà si presenta statica, sospesa, senza alcuno sviluppo: al poeta non interessa infatti raccontare una storia, ma descrivere in modo elegante e giocoso una profferta d’amore e di matrimonio. L’elemento corale, che arricchisce questa come tante altre canzoni digiacomiane, è di chiara derivazione tradizionale: il coro del popolo qui ascolta le iniziative amorose del protagonista, le commenta come nella tragedia greca (Si no tu rieste sola) e le appoggia con adesione.

L'impiego del coro è tipico della produzione piedigrottesca del Di Giacomo, anzi esso è «diventato quasi un discrimine per la canzone di Piedigrotta» (Plenizio). Altro elemento, ricavato dal canto popolare e presente in questa canzone è il mottozzo, cioè un'espressione essenzialmente fonica, un gioco sonoro, un intercalare, una sequenza ritmico-fonica senza significato, usata a volte allusivamente e la cui funzione è quella di modellare la rima; esso ha la caratteristica di non presentare attinenza alcuna col senso logico dei versi o col senso stesso di tutta la canzone. Qui troviamo lariulà (un mottozzo tronco come carcioffolà, ndrighete ndrà, tiriti tiritommolà ecc...) oltre a oilì oilà che dà il  titolo alla canzone ed è destinato ad essere utilizzato in molte altre canzoni non solo napoletane (Sebben che siamo donne, È arrivato l'Ambasciatore, La Fiera di San Lazzaro, Tarandella, Ho perso una pecorella, Buon Lupetto, La campagnola, La Zita e molte altre ancora...).

È un Di Giacomo minore questo di Oilì oilà? Sicuramente lo è. Tanto che lo stesso poeta non ritiene la canzone meritevole di essere inserita nell’ultima raccolta delle sue poesie del 1927. Ma non possiamo non notare la straordinaria freschezza dei versi, la loro agilità, il loro garbo e, se non ci ostiniamo a volere a tutti i costi riconoscere in essi l’anima popolare, possiamo allora tranquillamente affermare che ci troviamo di fronte a una deliziosa e spigliata composizione sul corteggiamento borghese d’autore colto.

Le reminiscenze di forme popolari, il melos dei versi, l’arguta e allo stesso tempo semplice costruzione armonica e, quella che oggi si definisce “orecchiabilità”, sono la base della fortuna di questo brano che, diventato un classico della canzone napoletana, resta nella coscienza collettiva del popolo, impresso nel suo profondo emotivo. La musicalità del verso digiacomiano è straordinaria, sono le parole stesse a farsi musica. Ovviamente, per rivestire di melodia siffatti versi occorre una grande sintonia tra la sensibilità del poeta e il “mestiere” del compositore.

Sulle immagini fresche ed immediate del testo poetico Costa articola una tarantella di piglio vivace, brillante e spensierata basata su una scala di poche note (stratagemma utilizzato, secondo il Plenizio, dal compositore quando vuole essere "orecchiabile" e "colorire" la melodia in senso popolaresco). È un allegro con brio, che privilegia gli aspetti giocosi e si incrocia con modelli tipici tradizionali. Il musicista si ispira, infatti, a un canto popolare tarantino, tanto che il titolo assegnato originariamente al brano era quello di Canzone tarantina.

Il metro di 6/8, l'agogica e la tonalità di Re maggiore non cambiano lungo tutta la composizione «L'accompagnamento cambia, invece, passando da un'alternanza di semiminima al basso e accordo di crome per ogni movimento con uno sche­ma armonico: tonica/dominante, dominante/tonica ad un modello terzinato su un'ottava, formato da: fondamenta-le/quinta/fondamentale. Per quanto riguarda la melodia si segnala l'indicazione «(Coro)» in corrispondenza delle terze parallele di Carmè dincello / nu bellu maritiello / è sempe buono. / Si no tu rieste sola / sola, sola / e lariulà!... / 'A verità, ce vò na cumpagnia! che non è molto comune» (Carla Conti).

La fantasiosa elaborazione degli spunti popolari articolata su una semplice, e perciò efficace, tessitura eleva la melodia a creazione originale. L’impianto di gusto deciso e allegro e di ben definiti contorni si stempera con proprietà d’espressione in un vivace e frizzante affresco sonoro. La musica, che si imprime nella mente e nell’orecchio di chi l’ascolta, ha un gradevole senso evocativo e contiene nel ritmo di tarantella, negli accenti, nel colore del tema, i sapori tipici della musica popolare, ripresi e filtrati dalla sensibilità del musicista colto. Costa, come sempre, cesella il brano con grande eleganza non piegando la qualità della scrittura all’urgenza espressiva e non rinunziando alla pulizia del componimento, alla grazia decorativa, alle finezze armoniche pur utilizzando un impianto robusto ed essenziale, articolato su un ben modulato slancio propulsivo e spumeggiante, ricolmo di sentimento dal quale fa scaturire un periodare ricco di determinazione.


Note

[1] Prima di questa data la città è già stata colpita dal colera in più occasioni a partire dal 1836 - '37, anni in cui l'epidemia provoca 20.000 morti. Dopo di allora, con frequenza pressoché decennale, la malattia ritorna a infierire a Napoli e la notevole diffusione che vi ha, soprattutto in alcuni anni, rappresenta quasi una sorta di misurazione delle condizioni di estremo degrado igienico in cui versa gran parte della città. L'epidemia del 1884 ripropone, come già in passato, una netta linea di demarcazione tra i vari quartieri della città, mettendo in luce l'esistenza della forte diseguaglianza che caratterizza la società napoletana. La fascia più povera vive nei quartieri di Porto, Mercato, Pendino e Vicaria quartieri nei quali si registrano 9.086 casi, rispetto ai 3.158 degli altri otto quartieri.

[2] Le conseguenze del “Risanamento” sono devastanti: tra le cause dell’organizzazione camorristica della plebe napoletana vi è proprio la sua espulsione coattiva dall'area interessata al "Risanamento" e la "concessione", quali enclaves extralegem, degli altri quartieri popolari del centro storico. La camorra acquista un potere prima impensabile e le infiltrazioni camorristiche nel comune di Napoli diventano tali che in appena trentanove anni dall'Unità d'Italia, la città dovrà essere commissariata ben nove volte. Il piano portato avanti dal Risanamento nasce, in realtà, superficiale ed approssimativo avendo il torto di ridurre tutto al fatto edilizio: è un piano tecnico, astratto, che taglia e distrugge parti vive del corpo della città, prescindendo da problemi umani, storici, di lavoro, di vita, vecchi di secoli e per risolvere i quali si sarebbe dovuto affrontare e risolvere il problema di dare un lavoro, moderno e civile, alla plebe cittadina. In sostanza, la classe dirigente borghese identifica solo nella rendita fondiaria la più concreta forma di reddito rifiutando l’investimento produttivo della rendita che avrebbe potuto determinare anche lo sviluppo sociale. In tale ottica la distruzione dei quartieri "bassi" assicura l'acquisizione dei suoli per lucrare nuove rendite immobiliari.

Renato Gargiulo


Pubblicazione del Portale del Sud, ottobre 2015

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