Pensiero Meridiano

 

La farsa elettorale del taumaturgo Berlusconi

di Pierfranco Pellizzetti

Ci è ritornato Eugenio Scalari nel suo pezzo domenicale sul silenzio dei moderati (immaginari). Certo è che, parlando con i "vecchi" di Confindustria, i dirigenti della confederazione quando era ancora la corazzata della rappresentanza nazionale (insomma, dalla presidenza Agnelli a quella Abete), continua ad avvertirsi - palpabile - lo sconcerto per i fatti di Vicenza. Lo spettacolo inaudito di un presidente del Consiglio che attacca frontalmente il vertice degli industriali italiani, reo di un ipotetico appoggio a Prodi, con il chiaro intento (gag della sciatica a parte) di destabilizzarlo.

Resta ancora da capire come il presunto grande comunicatore Montezemolo sia andato a cacciarsi in siffatta trappola, nel bel mezzo di elezioni trasformate in Armageddon, scegliendo come sede dell'incontro proprio il cuore sovreccitato del Veneto bianco-azzurro-leghista (nell'ambiente si ricorda sempre l'episodio di qualche anno fa, quando i padroncini di Vicenza contestarono il mega-capitalista Piero Marzotto al grido di "comunista"). Magari si poteva indire la riunione a metà aprile... magari a Modena e dintorni...

Ulteriore sconcerto alla mossa successiva di Montezemolo, della consistenza di un piumino da cipria: indire il "silenzio stampa" (Confindustria che è, una squadra di calcio?), per di più motivato – grossomodo - con un "stamo boni che quello ce mena". Le dimissioni del povero Diego Della Valle accettate senza colpo ferire, quasi con sollievo, lasciandolo in balia dei mastini del Cavaliere. I mazzieri mediatici che adesso lo irridono con le medesime "eleganze" dell'attricetta consorte del finanziere Ricucci da Zagarolo: "ciabattino". Della Valle, sino a ieri, non era un grande del Made in Italy?

D'altro canto, Vicenza risulta molto più di un siparietto grottesco in questa terribile farsa elettorale. È il definitivo disvelarsi della cifra comunicativa plebea nella strategia adottata da Berlusconi: insulti, spernacchiamenti e piazzate. Minacce varie. La vendetta rabbiosa dei parvenus che deliberatamente trasformano il confronto in rissa da stadio. Un terreno loro congeniale, quanto del tutto inagibile per le animucce anemiche del cosiddetto establishment: dagli acquartierati in un salotto buono ridottosi a tinello ai rappresentanti di un ceto politico cresciuto tra mozioni e tatticismi vari. Ora sono tutti là, con boccuccia a cuore, ad esprimere uno sdegno impotente davanti alla furia del plebeo che irrompe. La forza della possessività che travolge ogni ostacolo con barbarica "selvaggeria", come direbbe Carlo Freccero.

Perché Berlusconi è davvero "l'autobiografia della Nazione", almeno di quella grossa fetta che nell'ultimo quarto del XX secolo è venuta formandosi in un capitalismo sempre più sregolato e rampante, al limite straccione. Una Nazione istintivamente berlusconiana nell'avidità anarcoide, dunque refrattaria a rispettare la fila davanti a qualsivoglia sportello, ma in parte creata artificialmente dalla televisione commerciale con un'opera pluridecennale d'analfabetizzazione di massa, diffondendo "il sogno" di americanismi alla brianzola: balera e ragazze pon-pon.

Va detto che, in parallelo all'apoteosi del plebeo, scorre una seconda linea argometativa, invenzione o - se si vuole - illuminazione del genio di Gianni Baget Bozzo, che ha ulteriormente spiazzato il fronte degli oppositori (ma subito ripresa da Scalfari su Repubblica, nel perdurare del suo momento misticheggiante): l'iperpresenzialismo di Berlusconi quale "esposizione del corpo del sovrano"; secondo l'antica tradizione della sacralità regia, studiata come "biopotere" dagli archeologi d'oltralpe della cultura, da Marc Bloch a Michel Foucault. Una tradizione che divinizzava la figura del re, per metterlo al riparo dai rischi di usurpazione, attribuendogli poteri sovrumani; nella Francia medievale, quello di guarire con il proprio tocco i malati di "scrofole" (adenite tubercolare o infiammazione delle linfoghiandole). I re taumaturghi. Si narra come nell'aprile 1340, in piena guerra dei cent'anni, l'invasore inglese Edoardo III sfidasse il delfino Filippo di Valois a dimostrare la validità delle sue pretese al trono accettando una gara di tocco. Il delfino tracheggiò.

Nel nostro caso, il solito modo con cui don Gianni spariglia la discussione politica rivestendo le proprie argomentazioni nel lessico della teologia (un giochino che spesso funziona e che, all'inizio dell'avventura di Repubblica, spinse il solito Scalari ad eleggere proprio Baget, proveniente dalle pagine de il Manifesto, quale commentatore principe del quotidiano d'area sinistra-azionista). Berlusconi re taumaturgo è la modalità acrobatica (c'è in lui qualcosa di regale, a parte la corte dei miracoli/miracolati?) per affermare, sacralizzandola, quella superiorità rispetto agli avversari che - invece - la prima strategia persegue attraverso la pernacchia truce.

Visto che siamo in attesa del prossimo confronto con Prodi, si potrebbe rendere più vivace la sfida proprio declinando le due maniere della sfida berlusconiana: nel primo caso una gara a chi sputa più lontano; nel secondo, raccogliendo il guanto di re Edoardo, ci si misurerebbe sull'eccezionalità del proprio tocco. Ad esempio, vince chi riesce a far dire qualcosa di laico e progressista a Francesco Rutelli; oppure far dire qualcosa a Sandro Bondi.

Come si vede, sempre di commedia all'italiana si tratta: tragica ma non seria.


Pierfranco Pellizzetti è opinionista di Micromega (tratto da il Secolo XIX, aprile 2006)

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