Le Pagine di Storia

L'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

I segni premonitori

di Flavio Russo e Ferruccio Russo [1]

Bacco ed il Vesuvio prima del 79, Museo Borbonico, Napoli

 

Le avvisaglie della tragedia

Come tutti oggi sappiamo perfettamente, e come invece nessuno all'epoca dei Romani sapeva affatto, un vulcano non si attiva senza una serie di fenomeni prodromici abbastanza espliciti: in particolare sciami sismici prolungati e, progressivamente, sempre più rilevanti e terrifici. Si potrebbe, anzi, affermare che quest'ultimi crescono per intensità ed entità in maniera esponenziale, con l'avvicinarsi dell'evento eruttivo. Nell'imminenza della crisi sono ormai talmente frequenti e violenti da non lasciare adito a dubbi neppure ai meno esperti in materia, costringendo, indipendentemente dalla cognizione della loro origine, una gran parte dei residenti ad allontanarsi dalla zona. Essendo il quadro sintomatologico una costante del vulcanesimo, sia pure con diverse varianti marginali, è lecito ritenere che anche nel 79 a.C. quelle sinistre premesse fossero in sostanza onorate dal Vesuvio. Peraltro trattandosi nella circostanza, più che di una vera eruzione, di una catastrofe vulcanica, di una esplosione di inimmaginabile violenza, la loro magnitudo dovette risultare, se mai, persino maggiore e più duratura. Assurdo, pertanto, credere che nessuno fosse intimorito da quel crescendo sismico, che nessuno ne percepisse, se non il sinistro suggerimento, per lo meno la generica quanto terribile minaccia! Si obietta, generalmente, che il Vesuvio da moltissimi secoli giaceva, coperto da una lussureggiante vegetazione, in una fase di assoluta quiescenza,  per cui anche morfologicamente non ricordava minimamente un vulcano, ammesso che qualcuno sapesse pure cosa fosse un vulcano. Un aspetto che noi non possiamo in alcun modo immaginarci, essendo drasticamente diverso dall'odierno. Quanto c'è, però, di esatto in queste affermazioni?

P. H. de Valenciennes, 1813, eruzione del Vesuvio 79 d.C.

Si è da più parti affermato che prima della catastrofe la connotazione del Vesuvio fosse radicalmente diversa, dal momento che il suo cono si sarebbe: "... formato solo in seguito all'eruzione del 79 e che perciò quando gli scrittori più antichi parlano del Vesuvio, intendono riferirsi al Somma. Quanto questo punto di vista si fondi su basi geologiche, qui ovviamente non può essere indagato. Tuttavia i geologi notoriamente sono per lo più fin troppo disposti a trarre dai passi controversi degli antichi conclusioni di ampia portata e a riferire ad età storica mutamenti della crosta terrestre che risalgono a tempi di gran lunga anteriori ad ogni tradizione storica. Contro siffatta tendenza non si può mai ribadire con la necessaria energia che nelle descrizioni del Vesuvio che l'antichità ci ha tramandato, e particolarmente nelle notizie sulla prima eruzione del 79, non si trova proprio nulla che possa autorizzarci a supporre un così radicale mutamento nella natura del monte.

Immaginiamoci inesistente il cono del Vesuvio: la fisionomia del paesaggio del golfo di Napoli si muterà fino ad essere irriconoscibile. E proprio questo particolare avrebbero omesso di menzionare gli antichi, e specialmente Plinio che ci ha descritto la prima eruzione con tanta fedeltà? Prescindendo poi del tutto dal fatto che la descrizione del monte in Strabone... presuppone comunque la presenza di un cono di cenere.

Probabilmente l'eruzione del 79 non è neppure la prima dell'era storica; tutto fa supporre piuttosto che il Vesuvio era già attivo quando i Greci posero piede sulla costa della Campania. Diodoro narra, infatti, rifacendosi a Timeo, che la Pianura Campana si chiamava 'Phlegraea' dal monte oggi detto Vesuvio e che un tempo ha vomitato un gran fiume di fuoco come l'Etna in Sicilia; e ancora oggi esso conserva molte tracce dell'antico incendio...".

mosaico, Villa di Cicerone

Strabone, dal canto suo, compose una descrizione del sito prima del 79, ricordando che: "tra Pompei ed Hercolaneum si trova il Vesuvio, tutt'intomo magnificamente coltivato ad eccezione della vetta... in gran parte spianata... del tutto sterile come un campo di cenere, e presenta caverne di pietre, simili a voragini, di colore fuligginoso come se fossero corrose dal fuoco. Quindi si può giustamente concludere che il monte in un primo tempo ha bruciato ed ha avuto un cratere attivo che poi si è spento quando il materiale igneo si è esaurito. Forse è proprio questa la causa della fertilità dei terreni circostanti, come a Catania la cenere decomposta dell'Etna...".

Medaglia in bronzo dedicata a Marco Tullio Cicerone (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire

La navi della flotta, che continuamente solcavano il golfo di Napoli, avranno pur avuto tra i loro tanti marinai qualche siciliano, originario delle falde dell'Etna in grado di ravvisare in quel curioso cono un fratello minore del Mongibello! In base alla recente esperienza, il protrarsi di appena un secolo della quiescenza eruttiva del Vesuvio, è sufficiente a farne ricoprire le pendici da una fitta vegetazione che cancella, quasi completamente, le rossastre lave solidificate. Nessuna difficoltà ad immaginare quanto lussureggiante fosse divenuta la copertura boschiva del Vesuvio negli oltre quattro secoli di inattività che precedettero la catastrofe del 79. Ma quel sottile strato verde non poteva alterarne l'inconfondibile profilo vulcanico! Logico concludere, quindi, che almeno gli eruditi sapessero della malcelata tipologia orogenetica alle spalle della strana configurazione del Vesuvio che, come certificano alcuni affreschi di Pompei, non differiva molto dall'odierno profilo. E se l'inesatta identificazione della natura della montagna potrebbe ammettere qualche attenuante, non così un'eruzione ben nota anche all'epoca. Plinio, per la sua inesauribile curiosità, più e meglio degli altri doveva sapere e conoscere, con sufficiente completezza, le caratteristiche delle eruzioni vulcaniche. La conclusione, paradossalmente, appare perciò di sconcertante modernità: molti sapevano cosa fosse un vulcano e che il Vesuvio era appunto tale, ma non ne temevano i furori reputandolo spento definitivamente o quiescente a tempo indeterminato!

Discorso alquanto più articolato e complesso per i segni premonitori. Sappiamo da un racconto di Seneca che la zona vesuviana fu devastata da un terribile terremoto nel 62 d.C. L'evento di per sé non appare eccezionale, essendo l'intera regione fortemente sismica. Potrebbe, perciò, tranquillamente rientrare in uno dei tanti terremoti di origine tettonica, che si succedono con una ricorrenza approssimativamente trentennale, se non fosse per un singolare ed anomalo dettaglio. Dunque stando a Seneca: "... alcune ville, sì, sono crollate; altre, qua e là, hanno avvertito la scossa, ma senza subire danni. A ciò si aggiungano queste altre conseguenze: un gregge di numerosissime pecore morto asfissiato...".

Macellum

I crolli delle costruzioni sono lo scenario estrinsecativo tipico dei sismi: la morte di interi greggi, sicuramente all'aperto, per intossicazione da gas venefici, invece, non lo sono affatto. La manifestazione è tipicamente vulcanica ed in quanto tale riconduce al Vesuvio anche il terremoto. E questo evento, tramandateci soltanto per la sua eccezionale violenza, fu perciò senza dubbio il primo e forse il maggiore sintomo che la pressione interna stava crescendo poderosamente già da quasi un ventennio. Impossibile, tuttavia, recepirlo all'epoca nella sua giusta valenza prodromica. Quanto agli sciami sismici, che precedono una eruzione, sappiamo proprio dalla seconda lettera di Plinio il giovane che, almeno nel corso della settimana precedente la catastrofe, se ne percepirono anche a Miseno, cioè a quasi 30 km dal cratere del Vesuvio, con crescente frequenza. Logico supporre che alle sue pendici la loro percezione fosse ancora più netta e terrificante: difficile resistere a lungo a tale supplizio, soprattutto laddove, meno di venti anni prima, l'abitato era stato devastato con innumerevoli morti e feriti. Non sappiamo quanti scapparono ma, una ragionevole ipotesi, induce a credere che furono la maggioranza di quelli liberi ed in grado di farlo.

Significativamente Plinio il giovane ricorda, nella sua prima lettera, che un  certo Pomponiano, la cui villa si trovava nei pressi di Stabia forse addirittura non lontano della foce del Sarno, aveva già da alcuni giorni caricato quanto di più prezioso possedeva su alcune sue imbarcazioni. Essendo a vela attendeva, con comprensibile ansia, il vento propizio per allontanarsi dalla paventata minaccia. Spesso, in seguito ad un evento sismico, la gente fugge dalla propria abitazione, soggiornando nei paraggi per qualche giorno all'aperto, in attesa del ritorno della normalità. Se, però, oltre a fuggire si porta dietro gli oggetti di valore, come accade ad esempio nelle traversie belliche, significa che ha maturato la motivata certezza di una incombente catastrofe irreversibile.

Pomponiano non reagì istericamente alle continue scosse, né tradì una sua debolezza psicologica, né meno che mai presagì la tragedia: si limitò a valutarne la devastante potenzialità in base alle eloquenti premesse e si regolò di conseguenza. Come lui tanti altri attinsero la medesima conclusione, ma diversamente da lui non avendo granché da salvare e non avendo proprie imbarcazioni, si allontanarono a piedi. È verosimile stimare che una rilevante aliquota di abitanti il 24 agosto del 79 fosse già abbastanza lontana dal Vesuvio, forse rifugiata sui prospicienti monti Lattari, forse sfollata verso Napoli o Sorrento, in ogni caso a distanza di sicurezza. Una valutazione prudente indurrebbe a ritenere i rimasti meno della metà degli abituali residenti, percentualmente di più a Pompei che ad Ercolano, essendo la seconda una cittadina di vacanza. In conclusione poche migliaia di persone in tutto.

Paradossalmente le vittime furono proprio fra quelli che non vollero o non poterono abbandonare per tempo le loro abitazioni o perché troppo ricchi per volerlo fare o perché troppo poveri per poterlo fare: ricchi patrizi e miseri schiavi!

La linea di costa romana

Nel 1859, durante i lavori per la costruzione di un nuovo ponte sul Sarno, affiorarono dapprima alcuni reperti romani, quindi diversi ruderi, che divennero sempre più consistenti. Per una serie di motivazioni, quelle scoperte indussero a ritenere che proprio lì, di fronte allo scoglio di Rovigliano, il fiume, prima di entrare in mare formasse un'insenatura, utilizzata come porticciolo di Pompei. Ma i Romani attribuivano la spiaggia in cui si apriva la foce, a Pompei o a Stabia? Di Stabia, sappiamo con certezza che venne investita ed espugnata da Silla. Da quel momento decadde ad un gruppetto di casali. Lo stesso Plinio così la rievocava nella sua Naturalis Historiae: "Poi nell'agro campano vi fu la città di Stabia fino al tempo che Gneo Pompeo e Lucio Catone erano consoli al 30 aprile [dell'89 a.C.], nel quale giorno Lucio Silla, delegato per la Guerra Sociale, la distrusse, e ora si è trasformata in varie ville".

Sebbene apparentemente irrilevante, ai fini dell'indagine è fondamentale stabilire che proiezione avessero quei casali sulla costa e, se possibile, le rispettive giurisdizioni. Un importantissimo indicatore al riguardo può ravvisarsi nello scoglio di Rovigliano, il piccolo isolotto che si trova a poche centinaia di metri al largo dell'attuale foce del Sarno, su cui, con assoluta certezza, i Romani prima della catastrofe eressero una qualche costruzione come testimoniano gli estremi lacerti murari in opera reticolata, ancora ben evidenti.

In particolare, secondo la maggior parte degli studiosi, nelle sue rocce viene: "... in genere identificata la Petra Herculis ricordata da Plinio presso Stabiae: l'identificazione rimane però incerta... Nella base della torre è inglobato un muro in accurata opera reticolata di tufo, inserito nella cortina della scarpata di base della torre di difesa costiera dal lato che guarda verso Torre Annunziata, munito di una robusta fondazione in concreto con scaglie di pietre calcaree. Di esso è visibile anche lo spiccato di fondazione, a testimonianza dell'antico piano di calpestio, più alto di circa 2 metri rispetto alla scogliera naturale: il terreno fu evidentemente tagliato e regolarizzato per la costruzione delle opere militari, che hanno sconvolto l'isolotto. Nelle vicinanze del muro sono stati recuperati resti di intonaci dipinti. Lo scoglio fu dunque occupato da considerevoli strutture romane del I sec. d.C., distrutte dalla fatale eruzione del 79 d.C., forse pertinenti ad una villa".

L'identificazione dello scoglio con la Pietra d'Ercole e la sua collocazione all'interno di Stabia nasce, paradossalmente, proprio da un altro brano di Plinio il Vecchio che così recita: "A Stabia della Campania, presso la Pietra d'Ercole, i pesci chiamati melanuri mangiano il pane gettato in acqua e non si accostano a nessun cibo nel quale vi sia infisso un amo...".

La presenza dei pesci certifica la pietra come un grosso scoglio circondato dal mare e, la sua adiacenza a Stabia, non lascia molti dubbi sulla correttezza dell'identificazione. Infatti in quel tratto di costa non esiste alcuna roccia sporgente nel mare, come del resto nell'intero golfo di Napoli non esiste un altro isolotto simile, maggiore o minore. Quanto alle sovrastanti costruzioni di epoca romana, ci: "... troviamo, evidentemente, di fronte al riutilizzo di materiale da costruzione pertinente ad un edificio di prima età imperiale che occupava l'isolotto: sulla base del noto passo pliniano che ricorda la «petra herculis» nel golfo stabiano, e di una notizia pubblicata in un manoscritto del 1599/1601, relativa al rinvenimento di una statuetta di Ercole, nel corso dei lavori per l'edificazione della torre vicereale (1564 circa), è possibile ipotizzare che l'edificio di età romana ospitato sull'isolotto di Rovigliano fosse un luogo di culto dedicato a Ercole: edifìcio in evidente funzione di segnalazione per la navigazione costiera e di controllo dell'accesso all'area portuale di Pompei, e dunque riferibile territorialmente proprio alla città pompeiana".

Che, in prossimità della foce, il Sarno formasse un'insenatura lo si può arguire dal seguente brano di Seneca: "Ho udito che Pompei, importante città della Campania, verso la quale convergono da un versante la costa di Sorrento e di Stabia, dall'altro quella ercolanese chiudendo il mare, insinuatesi nella terraferma, con un magnifico golfo, è rovinata a causa di un sisma".

Pertanto appare ulteriormente confermato che: "... la costa di Ercolano e quella sorrentino-stabiana si univano dunque in una baia amena presso Pompei. Nessuna ulteriore testimonianza sulle dimensioni di tale baia ne sulla sua esatta posizione ma solo che essa era verosimilmente vicina a Pompei o ricadente nel suo territorio... Il fiume Sarno, che attraversava e attraversa la piana compresa tra il Vesuvio e i monti Lattari, viene solo brevemente nominato dalle fonti classiche, che mettono spesso in relazione Pompei ed il fiume. In particolare Strabone ricorda che Pompei, porto di Nola, Nocera e Acerra, è situata presso il fiume Sarno, dove si ricevono e spediscono le merci (Geog.V.4,3).

La natura del fiume viene descritta più analiticamente da Procopio nel resoconto della Guerra Gotica (IV,35), in cui il Sarno è chiamato Dracone... Infine va ricordata la testimonianza di Columella che accenna alla presenza di saline e alla loro vicinanza rispetto ad una palude (Colum. X, 13536); gli elementi morfologici noti e le infrastrutture relative da ricercare sono dunque: la linea di costa, il fiume con la sua foce, le saline, la palude, la baia, il porto e la viabilità che lo collegava alla città".

Ed è per lo meno significativo che una palude presso la foce del Sarno, prossima a Pompei, venga così ricordata da Columella: "... la deliziosa palude di Pompei vicina alle saline di Ercole... [da intendersi come Orti di Schito]...".

In base ai dati fomiti dai ritrovamenti archeologici ed alle diverse trivellazioni di sondaggio, effettuate in zona, si può affermare con sufficiente sicurezza che il Sarno disegnava, prima di guadagnare la foce, una serie di anse e di meandri, raggiungendo pigramente il mare, dando perciò origine a ristagni e paludi laterali al corso principale. In particolare: "... il tratto terminale del fiume Sarno, a valle dell'ansa di Resinaro, risultava verosimilmente ben definito, infossato tra l'esteso e più antico cordone litoranee di Bottaro/ Pioppaino, oramai inattivo in epoca romana, ed un ulteriore cordone litoranee di minor estensione ed altezza che, partendo dall'ipotizzato estuario del rio Gragnano, ostacolava il definitivo sbocco del Sarno, deviandolo verso Nord fin quasi all'area dei mulini di Bottaio... [dal che] due ipotesi di foce del fiume. La più settentrionale, corrispondente ancora una volta con un meandro del tracciato prerettifìca, presenta in destra l'allineamento delle numerose costruzioni del c.d. pagus maritimus.

L'andamento topografico ricostruito delineerebbe invece, contrariamente a quanto ritenuto da Iacono, Sogliano ed altri, una tipica conformazione di porto fluviale sull'estuario del fiume. La seconda ipotesi presentata, che non esclude la precedente ma potrebbe succedersi ad essa, localizza l'estuario poco più a sud, dove, nonostante le profonde trasformazioni avvenute nell'area in epoca moderna e recente, l'andamento topografico tende ad evidenziare la presenza di probabili barre di foce. Tale soluzione implicherebbe una deviazione naturale o antropica (?) che avrebbe trasformato l'ultimo tratto del fiume in una darsena priva di apporti detritici: l'antica linea di costa seguirebbe in modo più o meno fedele l'attuale isoipsa dei 2.5 m s.l.m. e la relativa piattaforma di abrasione/ battigia si estenderebbe localmente fino a lambire l'isoipsa dei 4.0 m; ad Est del cordone litoranee di Bottaro-Pioppaino in un'area depressa, potevano realizzarsi condizioni tali da determinare ristagni ed acquitrini stagionali con l'apporto di acque torrentizie dalla vicina collina di Pompei e dal settore antistante Villa dei Misteri Villa di Diomede. Sabbie litoranee e successioni palustri consistentemente più antiche sono invece quelle rinvenute alla base della parete lavica dell'area archeologica compresa tra Porta Stabiana e Porta Marina... ".

In conclusione, in base alle più recenti indagini geologiche sono state formulate alcune ipotesi che così descrivono la linea di costa, presso la foce del Sarno intorno al 79. In dettaglio secondo J.B. Ward Perkins, in epoca imprecisata si sarebbe formato: "per effetto di una colata lavica... «un promontorio elevato, i contorni meridionali ed occidentali del quale dominano tuttora il paesaggio circostante. Prima di questa eruzione, il fiume Sarno doveva lambire le pendici meridionali della montagna, probabilmente sfociando nelle vicinanze di Torre Annunziata. A seguito dell'eruzione, il fiume fu costretto ad aggirare la colata formando un'ansa, che ebbe un ruolo importante nella pianificazione urbanistica attorno al sito dell'Anfiteatro e sboccando in mare poco più a sud della città»

«L'evidenza disponibile non consente ancora di definire con esattezza la linea di costa anteriore al 79, nelle immediate vicinanze di Pompei. Verso ovest, invece, a Torre Annunziata, essa può essere determinata con certezza almeno ad Oplontis, dove la villa recentemente scavata era solo uno dei tanti insediamenti sul litorale marino dei tempi classici; e a sud, si sono a più riprese rinvenuti ruderi pertinenti ad un sobborgo costiero o pagus maritimus, distanti fino ad un chilometro da Pompei, intomo al Mulino De Rosa (loc. Bottaio). Questo insediamento comprendeva case di abitazione, magazzini ed altre costruzioni di carattere palesemente mercantile. In questa direzione, sul lato ovest della foce del Sarno, esisteva già una sporgenza abbastanza grande e piatta che comprendeva lagune, paludi e saline. Ad est di questa sporgenza doveva essere una notevole insenatura da usare come ancoraggio marittimo e, lungo il suo lato occidentale, le attrezzature per il carico e lo scarico delle merci che potevano raggiungere Pompei per via sia fluviale che di terra. Verso oriente, la linea della costa prima del 79 poteva ben corrispondere, più o meno, a quella della strada costiera per Stabiae...".

La ricostruzione per quanto minuziosa, non diradava tutte le incertezze vigenti, per cui i lavori di indagine vennero ulteriormente approfonditi, fino a conseguire una più attendibile riformulazione delle linea di costa. Alla fine risultò che: "... tenendo conto della ricostruzione del lido e delle istallazioni portuali, si può ipotizzare, invece, con molta verosimiglianza, che vi fosse stato un porto marittimo nella prima ansa del seno pompeiano nel quale approdavano le navi. Questo porto proprio in vicinanza della serie di magazzini deposito scoperti nel 1899 era unito a Pompei alle Saline Herculae, ad Oplontis ed al territorio vesuviano da una rete stradale che assicurava un agevole collegamento tra le diverse località ed il porto".


[1] Tratto da: Flavio Russo - Ferruccio Russo, 79 d.C. Rotta su Pompei, Rivista Marittima n. 10, 2004

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