Le avvisaglie della tragedia
Come tutti oggi sappiamo
perfettamente, e come invece nessuno all'epoca dei Romani sapeva
affatto, un vulcano non si attiva senza una serie di fenomeni
prodromici abbastanza espliciti: in particolare sciami sismici
prolungati e, progressivamente, sempre più rilevanti e terrifici. Si
potrebbe, anzi, affermare che quest'ultimi crescono per intensità ed
entità in maniera esponenziale, con l'avvicinarsi dell'evento
eruttivo. Nell'imminenza della crisi sono ormai talmente frequenti e
violenti da non lasciare adito a dubbi neppure ai meno esperti in
materia, costringendo, indipendentemente dalla cognizione della loro
origine, una gran parte dei residenti ad allontanarsi dalla zona.
Essendo il quadro sintomatologico una costante del vulcanesimo, sia
pure con diverse varianti marginali, è lecito ritenere che anche nel
79 a.C. quelle sinistre premesse fossero in sostanza onorate dal
Vesuvio. Peraltro trattandosi nella circostanza, più che di una vera
eruzione, di una catastrofe vulcanica, di una esplosione di
inimmaginabile violenza, la loro magnitudo dovette risultare, se
mai, persino maggiore e più duratura. Assurdo, pertanto, credere che
nessuno fosse intimorito da quel crescendo sismico, che nessuno ne
percepisse, se non il sinistro suggerimento, per lo meno la generica
quanto terribile minaccia! Si obietta, generalmente, che il Vesuvio
da moltissimi secoli giaceva, coperto da una lussureggiante
vegetazione, in una fase di assoluta quiescenza, per cui anche
morfologicamente non ricordava minimamente un vulcano, ammesso che
qualcuno sapesse pure cosa fosse un vulcano. Un aspetto che noi non
possiamo in alcun modo immaginarci, essendo drasticamente diverso
dall'odierno. Quanto c'è, però, di esatto in queste affermazioni?
P. H. de Valenciennes, 1813,
eruzione del Vesuvio 79 d.C.
Si è da più parti affermato che prima della catastrofe la
connotazione del Vesuvio fosse radicalmente diversa, dal momento che
il suo cono si sarebbe: "... formato solo in seguito all'eruzione
del 79 e che perciò quando gli scrittori più antichi parlano del
Vesuvio, intendono riferirsi al Somma. Quanto questo punto di vista
si fondi su basi geologiche, qui ovviamente non può essere indagato.
Tuttavia i geologi notoriamente sono per lo più fin troppo disposti
a trarre dai passi controversi degli antichi conclusioni di ampia
portata e a riferire ad età storica mutamenti della crosta terrestre
che risalgono a tempi di gran lunga anteriori ad ogni tradizione
storica. Contro siffatta tendenza non si può mai ribadire con la
necessaria energia che nelle descrizioni del Vesuvio che l'antichità
ci ha tramandato, e particolarmente nelle notizie sulla prima
eruzione del 79, non si trova proprio nulla che possa autorizzarci a
supporre un così radicale mutamento nella natura del monte.
Immaginiamoci inesistente il cono del Vesuvio: la fisionomia del
paesaggio del golfo di Napoli si muterà fino ad essere
irriconoscibile. E proprio questo particolare avrebbero omesso di
menzionare gli antichi, e specialmente Plinio che ci ha descritto la
prima eruzione con tanta fedeltà? Prescindendo poi del tutto dal
fatto che la descrizione del monte in Strabone... presuppone
comunque la presenza di un cono di cenere.
Probabilmente l'eruzione del 79 non è neppure la prima dell'era
storica; tutto fa supporre piuttosto che il Vesuvio era già attivo
quando i Greci posero piede sulla costa della Campania. Diodoro
narra, infatti, rifacendosi a Timeo, che la Pianura Campana si
chiamava 'Phlegraea' dal monte oggi detto Vesuvio e che un tempo ha
vomitato un gran fiume di fuoco come l'Etna in Sicilia; e ancora
oggi esso conserva molte tracce dell'antico incendio...".
mosaico, Villa di Cicerone
Strabone, dal canto suo, compose una descrizione del sito prima del
79, ricordando che: "tra Pompei ed Hercolaneum si trova il
Vesuvio, tutt'intomo magnificamente coltivato ad eccezione della
vetta... in gran parte spianata... del tutto sterile come un campo
di cenere, e presenta caverne di pietre, simili a voragini, di
colore fuligginoso come se fossero corrose dal fuoco. Quindi si può
giustamente concludere che il monte in un primo tempo ha bruciato ed
ha avuto un cratere attivo che poi si è spento quando il materiale
igneo si è esaurito. Forse è proprio questa la causa della fertilità
dei terreni circostanti, come a Catania la cenere decomposta
dell'Etna...".
La navi della flotta, che continuamente solcavano il golfo di
Napoli, avranno pur avuto tra i loro tanti marinai qualche
siciliano, originario delle falde dell'Etna in grado di ravvisare in
quel curioso cono un fratello minore del Mongibello! In base alla
recente esperienza, il protrarsi di appena un secolo della
quiescenza eruttiva del Vesuvio, è sufficiente a farne ricoprire le
pendici da una fitta vegetazione che cancella, quasi completamente,
le rossastre lave solidificate. Nessuna difficoltà ad immaginare
quanto lussureggiante fosse divenuta la copertura boschiva del
Vesuvio negli oltre quattro secoli di inattività che precedettero la
catastrofe del 79. Ma quel sottile strato verde non poteva alterarne
l'inconfondibile profilo vulcanico! Logico concludere, quindi, che
almeno gli eruditi sapessero della malcelata tipologia orogenetica
alle spalle della strana configurazione del Vesuvio che, come
certificano alcuni affreschi di Pompei, non differiva molto
dall'odierno profilo. E se l'inesatta identificazione della natura
della montagna potrebbe ammettere qualche attenuante, non così
un'eruzione ben nota anche all'epoca. Plinio, per la sua
inesauribile curiosità, più e meglio degli altri doveva sapere e
conoscere, con sufficiente completezza, le caratteristiche delle
eruzioni vulcaniche. La conclusione, paradossalmente, appare perciò
di sconcertante modernità: molti sapevano cosa fosse un vulcano e
che il Vesuvio era appunto tale, ma non ne temevano i furori
reputandolo spento definitivamente o quiescente a tempo
indeterminato!
Discorso alquanto più articolato e complesso per i segni
premonitori. Sappiamo da un racconto di Seneca che la zona vesuviana
fu devastata da un terribile terremoto nel 62 d.C. L'evento di per
sé non appare eccezionale, essendo l'intera regione fortemente
sismica. Potrebbe, perciò, tranquillamente rientrare in uno dei
tanti terremoti di origine tettonica, che si succedono con una
ricorrenza approssimativamente trentennale, se non fosse per un
singolare ed anomalo dettaglio. Dunque stando a Seneca: "...
alcune ville, sì, sono crollate; altre, qua e là, hanno avvertito la
scossa, ma senza subire danni. A ciò si aggiungano queste altre
conseguenze: un gregge di numerosissime pecore morto asfissiato...".
Macellum
I crolli delle costruzioni sono lo scenario estrinsecativo tipico
dei sismi: la morte di interi greggi, sicuramente all'aperto, per
intossicazione da gas venefici, invece, non lo sono affatto. La
manifestazione è tipicamente vulcanica ed in quanto tale riconduce
al Vesuvio anche il terremoto. E questo evento, tramandateci
soltanto per la sua eccezionale violenza, fu perciò senza dubbio il
primo e forse il maggiore sintomo che la pressione interna stava
crescendo poderosamente già da quasi un ventennio. Impossibile,
tuttavia, recepirlo all'epoca nella sua giusta valenza prodromica.
Quanto agli sciami sismici, che precedono una eruzione, sappiamo
proprio dalla seconda lettera di Plinio il giovane che, almeno nel
corso della settimana precedente la catastrofe, se ne percepirono
anche a Miseno, cioè a quasi 30 km dal cratere del Vesuvio, con
crescente frequenza. Logico supporre che alle sue pendici la loro
percezione fosse ancora più netta e terrificante: difficile
resistere a lungo a tale supplizio, soprattutto laddove, meno di
venti anni prima, l'abitato era stato devastato con innumerevoli
morti e feriti. Non sappiamo quanti scapparono ma, una ragionevole
ipotesi, induce a credere che furono la maggioranza di quelli liberi
ed in grado di farlo.
Significativamente Plinio il giovane ricorda, nella sua prima
lettera, che un certo Pomponiano, la cui villa si trovava nei
pressi di Stabia forse addirittura non lontano della foce del Sarno,
aveva già da alcuni giorni caricato quanto di più prezioso possedeva
su alcune sue imbarcazioni. Essendo a vela attendeva, con
comprensibile ansia, il vento propizio per allontanarsi dalla
paventata minaccia. Spesso, in seguito ad un evento sismico, la
gente fugge dalla propria abitazione, soggiornando nei paraggi per
qualche giorno all'aperto, in attesa del ritorno della normalità.
Se, però, oltre a fuggire si porta dietro gli oggetti di valore,
come accade ad esempio nelle traversie belliche, significa che ha
maturato la motivata certezza di una incombente catastrofe
irreversibile.
Pomponiano non reagì istericamente alle continue scosse, né tradì
una sua debolezza psicologica, né meno che mai presagì la tragedia:
si limitò a valutarne la devastante potenzialità in base alle
eloquenti premesse e si regolò di conseguenza. Come lui tanti altri
attinsero la medesima conclusione, ma diversamente da lui non avendo
granché da salvare e non avendo proprie imbarcazioni, si
allontanarono a piedi. È verosimile stimare che una rilevante
aliquota di abitanti il 24 agosto del 79 fosse già abbastanza
lontana dal Vesuvio, forse rifugiata sui prospicienti monti Lattari,
forse sfollata verso Napoli o Sorrento, in ogni caso a distanza di
sicurezza. Una valutazione prudente indurrebbe a ritenere i rimasti
meno della metà degli abituali residenti, percentualmente di più a
Pompei che ad Ercolano, essendo la seconda una cittadina di vacanza.
In conclusione poche migliaia di persone in tutto.
Paradossalmente le vittime furono proprio fra quelli che non vollero
o non poterono abbandonare per tempo le loro abitazioni o perché
troppo ricchi per volerlo fare o perché troppo poveri per poterlo
fare: ricchi patrizi e miseri schiavi!
La linea di costa romana
Nel 1859, durante i lavori per la costruzione di un nuovo ponte sul
Sarno, affiorarono dapprima alcuni reperti romani, quindi diversi
ruderi, che divennero sempre più consistenti. Per una serie di
motivazioni, quelle scoperte indussero a ritenere che proprio lì, di
fronte allo scoglio di Rovigliano, il fiume, prima di entrare in
mare formasse un'insenatura, utilizzata come porticciolo di Pompei.
Ma i Romani attribuivano la spiaggia in cui si apriva la foce, a
Pompei o a Stabia? Di Stabia, sappiamo con certezza che venne
investita ed espugnata da Silla. Da quel momento decadde ad un
gruppetto di casali. Lo stesso Plinio così la rievocava nella sua
Naturalis Historiae: "Poi nell'agro campano vi fu la città di
Stabia fino al tempo che Gneo Pompeo e Lucio Catone erano consoli al
30 aprile [dell'89 a.C.], nel quale giorno Lucio Silla, delegato per
la Guerra Sociale, la distrusse, e ora si è trasformata in varie
ville".
Sebbene apparentemente irrilevante, ai fini dell'indagine è
fondamentale stabilire che proiezione avessero quei casali sulla
costa e, se possibile, le rispettive giurisdizioni. Un
importantissimo indicatore al riguardo può ravvisarsi nello scoglio
di Rovigliano, il piccolo isolotto che si trova a poche centinaia di
metri al largo dell'attuale foce del Sarno, su cui, con assoluta
certezza, i Romani prima della catastrofe eressero una qualche
costruzione come testimoniano gli estremi lacerti murari in opera
reticolata, ancora ben evidenti.
In particolare, secondo la maggior parte degli studiosi, nelle sue
rocce viene: "... in genere identificata la Petra Herculis
ricordata da Plinio presso Stabiae: l'identificazione rimane però
incerta... Nella base della torre è inglobato un muro in accurata
opera reticolata di tufo, inserito nella cortina della scarpata di
base della torre di difesa costiera dal lato che guarda verso Torre
Annunziata, munito di una robusta fondazione in concreto con scaglie
di pietre calcaree. Di esso è visibile anche lo spiccato di
fondazione, a testimonianza dell'antico piano di calpestio, più alto
di circa 2 metri rispetto alla scogliera naturale: il terreno fu
evidentemente tagliato e regolarizzato per la costruzione delle
opere militari, che hanno sconvolto l'isolotto. Nelle vicinanze del
muro sono stati recuperati resti di intonaci dipinti. Lo scoglio fu
dunque occupato da considerevoli strutture romane del I sec. d.C.,
distrutte dalla fatale eruzione del 79 d.C., forse pertinenti ad una
villa".
L'identificazione dello scoglio con la Pietra d'Ercole e la sua
collocazione all'interno di Stabia nasce, paradossalmente, proprio
da un altro brano di Plinio il Vecchio che così recita: "A Stabia
della Campania, presso la Pietra d'Ercole, i pesci chiamati melanuri
mangiano il pane gettato in acqua e non si accostano a nessun cibo
nel quale vi sia infisso un amo...".
La presenza dei pesci certifica la pietra come un grosso scoglio
circondato dal mare e, la sua adiacenza a Stabia, non lascia molti
dubbi sulla correttezza dell'identificazione. Infatti in quel tratto
di costa non esiste alcuna roccia sporgente nel mare, come del resto
nell'intero golfo di Napoli non esiste un altro isolotto simile,
maggiore o minore. Quanto alle sovrastanti costruzioni di epoca
romana, ci: "... troviamo, evidentemente, di fronte al riutilizzo
di materiale da costruzione pertinente ad un edificio di prima età
imperiale che occupava l'isolotto: sulla base del noto passo
pliniano che ricorda la «petra herculis» nel golfo stabiano, e di
una notizia pubblicata in un manoscritto del 1599/1601, relativa al
rinvenimento di una statuetta di Ercole, nel corso dei lavori per
l'edificazione della torre vicereale (1564 circa), è possibile
ipotizzare che l'edificio di età romana ospitato sull'isolotto di
Rovigliano fosse un luogo di culto dedicato a Ercole: edifìcio in
evidente funzione di segnalazione per la navigazione costiera e di
controllo dell'accesso all'area portuale di Pompei, e dunque
riferibile territorialmente proprio alla città pompeiana".
Che, in prossimità della foce, il Sarno formasse un'insenatura lo si
può arguire dal seguente brano di Seneca: "Ho udito che Pompei,
importante città della Campania, verso la quale convergono da un
versante la costa di Sorrento e di Stabia, dall'altro quella
ercolanese chiudendo il mare, insinuatesi nella terraferma, con un
magnifico golfo, è rovinata a causa di un sisma".
Pertanto appare ulteriormente confermato che: "... la costa di
Ercolano e quella sorrentino-stabiana si univano dunque in una baia
amena presso Pompei. Nessuna ulteriore testimonianza sulle
dimensioni di tale baia ne sulla sua esatta posizione ma solo che
essa era verosimilmente vicina a Pompei o ricadente nel suo
territorio... Il fiume Sarno, che attraversava e attraversa la piana
compresa tra il Vesuvio e i monti Lattari, viene solo brevemente
nominato dalle fonti classiche, che mettono spesso in relazione
Pompei ed il fiume. In particolare Strabone ricorda che Pompei,
porto di Nola, Nocera e Acerra, è situata presso il fiume Sarno,
dove si ricevono e spediscono le merci (Geog.V.4,3).
La natura del fiume viene descritta più analiticamente da Procopio
nel resoconto della Guerra Gotica (IV,35), in cui il Sarno è
chiamato Dracone... Infine va ricordata la testimonianza di
Columella che accenna alla presenza di saline e alla loro vicinanza
rispetto ad una palude (Colum. X, 13536); gli elementi morfologici
noti e le infrastrutture relative da ricercare sono dunque: la linea
di costa, il fiume con la sua foce, le saline, la palude, la baia,
il porto e la viabilità che lo collegava alla città".
Ed è per lo meno significativo che una palude presso la foce del
Sarno, prossima a Pompei, venga così ricordata da Columella: "...
la deliziosa palude di Pompei vicina alle saline di Ercole...
[da intendersi come Orti di Schito]...".
In base ai dati fomiti dai ritrovamenti archeologici ed alle diverse
trivellazioni di sondaggio, effettuate in zona, si può affermare con
sufficiente sicurezza che il Sarno disegnava, prima di guadagnare la
foce, una serie di anse e di meandri, raggiungendo pigramente il
mare, dando perciò origine a ristagni e paludi laterali al corso
principale. In particolare: "... il tratto terminale del fiume
Sarno, a valle dell'ansa di Resinaro, risultava verosimilmente ben
definito, infossato tra l'esteso e più antico cordone litoranee di
Bottaro/ Pioppaino, oramai inattivo in epoca romana, ed un ulteriore
cordone litoranee di minor estensione ed altezza che, partendo
dall'ipotizzato estuario del rio Gragnano, ostacolava il definitivo
sbocco del Sarno, deviandolo verso Nord fin quasi all'area dei
mulini di Bottaio... [dal che] due ipotesi di foce del fiume.
La più settentrionale, corrispondente ancora una volta con un
meandro del tracciato prerettifìca, presenta in destra
l'allineamento delle numerose costruzioni del c.d. pagus maritimus.
L'andamento topografico
ricostruito delineerebbe invece, contrariamente a quanto ritenuto da
Iacono, Sogliano ed altri, una tipica conformazione di porto
fluviale sull'estuario del fiume. La seconda ipotesi presentata, che
non esclude la precedente ma potrebbe succedersi ad essa, localizza
l'estuario poco più a sud, dove, nonostante le profonde
trasformazioni avvenute nell'area in epoca moderna e recente,
l'andamento topografico tende ad evidenziare la presenza di
probabili barre di foce. Tale soluzione implicherebbe una deviazione
naturale o antropica (?) che avrebbe trasformato l'ultimo tratto del
fiume in una darsena priva di apporti detritici: l'antica linea di
costa seguirebbe in modo più o meno fedele l'attuale isoipsa dei 2.5
m s.l.m. e la relativa piattaforma di abrasione/ battigia si
estenderebbe localmente fino a lambire l'isoipsa dei 4.0 m; ad Est
del cordone litoranee di Bottaro-Pioppaino in un'area depressa,
potevano realizzarsi condizioni tali da determinare ristagni ed
acquitrini stagionali con l'apporto di acque torrentizie dalla
vicina collina di Pompei e dal settore antistante Villa dei Misteri
Villa di Diomede. Sabbie litoranee e successioni palustri
consistentemente più antiche sono invece quelle rinvenute alla base
della parete lavica dell'area archeologica compresa tra Porta
Stabiana e Porta Marina... ".
In conclusione, in base alle più recenti indagini geologiche sono
state formulate alcune ipotesi che così descrivono la linea di
costa, presso la foce del Sarno intorno al 79. In dettaglio secondo
J.B. Ward Perkins, in epoca imprecisata si sarebbe formato: "per
effetto di una colata lavica... «un promontorio elevato, i contorni
meridionali ed occidentali del quale dominano tuttora il paesaggio
circostante. Prima di questa eruzione, il fiume Sarno doveva lambire
le pendici meridionali della montagna, probabilmente sfociando nelle
vicinanze di Torre Annunziata. A seguito dell'eruzione, il fiume fu
costretto ad aggirare la colata formando un'ansa, che ebbe un ruolo
importante nella pianificazione urbanistica attorno al sito
dell'Anfiteatro e sboccando in mare poco più a sud della città»
«L'evidenza disponibile non consente ancora di definire con
esattezza la linea di costa anteriore al 79, nelle immediate
vicinanze di Pompei. Verso ovest, invece, a Torre Annunziata, essa
può essere determinata con certezza almeno ad Oplontis, dove la
villa recentemente scavata era solo uno dei tanti insediamenti sul
litorale marino dei tempi classici; e a sud, si sono a più riprese
rinvenuti ruderi pertinenti ad un sobborgo costiero o pagus
maritimus, distanti fino ad un chilometro da Pompei, intomo al
Mulino De Rosa (loc. Bottaio). Questo insediamento comprendeva case
di abitazione, magazzini ed altre costruzioni di carattere
palesemente mercantile. In questa direzione, sul lato ovest della
foce del Sarno, esisteva già una sporgenza abbastanza grande e
piatta che comprendeva lagune, paludi e saline. Ad est di questa
sporgenza doveva essere una notevole insenatura da usare come
ancoraggio marittimo e, lungo il suo lato occidentale, le
attrezzature per il carico e lo scarico delle merci che potevano
raggiungere Pompei per via sia fluviale che di terra. Verso oriente,
la linea della costa prima del 79 poteva ben corrispondere, più o
meno, a quella della strada costiera per Stabiae...".
La ricostruzione per quanto minuziosa, non diradava tutte le
incertezze vigenti, per cui i lavori di indagine vennero
ulteriormente approfonditi, fino a conseguire una più attendibile
riformulazione delle linea di costa. Alla fine risultò che: "...
tenendo conto della ricostruzione del lido e delle istallazioni
portuali, si può ipotizzare, invece, con molta verosimiglianza, che
vi fosse stato un porto marittimo nella prima ansa del seno
pompeiano nel quale approdavano le navi. Questo porto proprio in
vicinanza della serie di magazzini deposito scoperti nel 1899 era
unito a Pompei alle Saline Herculae, ad Oplontis ed al territorio
vesuviano da una rete stradale che assicurava un agevole
collegamento tra le diverse località ed il porto".
[1] Tratto da: Flavio Russo - Ferruccio Russo, 79 d.C.
Rotta su Pompei, Rivista Marittima n. 10, 2004 |