Le Pagine di Storia

 

Il Regno Siculo-Partenopeo

I successori di Tanucci

Sambuca, Caracciolo e Caramanico

di Fara Misuraca

Fontana del Genio di Palermo, sita in piazza Rivoluzione al centro dell’antico mercato della Fieravecchia. Il genio indossa abiti regali ed è effigiato nell’atto di allattare un serpente. Ai suoi piedi il motto “ALIOS NUTRIT; SUOS DEVORAT”

Giuseppe Beccadelli di Bologna, marchese della Sambuca

L’estromissione di Bernardo Tanucci dal governo nel 1776 e il conferimento della carica di Primo Segretario al siciliano marchese della Sambuca [1] fu conseguenza del cambiamento della politica estera dello Stato meridionale fortemente voluto dalla giovane ma decisa Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria e sorella di Giuseppe e Leopoldo, imperatori in successione. Si interruppero i rapporti con la Spagna e si creò un nuovo asse Napoli-Vienna, e il marchese della Sambuca, già ambasciatore in Vienna, ne fu l’esecutore.

Un punto a favore di Maria Carolina ma certamente un punto a sfavore della precaria stabilità del regno meridionale!

Non furono infatti (volutamente?) valutate o comprese le conseguenze di un cambiamento di alleanze sul piano internazionale. Il sistema duale istaurato nel regno delle Sicilie aveva come modello quello della Spagna che reggeva un impero fondato su questi principi, cioè la decentralizzazione del potere [2]. L’impero asburgico invece si reggeva sulla centralità del potere e combatteva ogni tendenza autonomista: Vienna non avrebbe mai tollerato l’autonomia della Sicilia da Napoli così come non tollerava l’autonomismo lombardo da Vienna.

Tuttavia lo stato siculo-partenopeo, interamente circondato dal mare non si sentiva molto a suo agio in questo rapporto con l’Austria, una potenza continentale con forti interessi nel controllo della politica italiana. Fu importante pertanto, per non essere soffocati, impostare una politica estera di tipo marittimo e pertanto cercare un avvicinamento con la Gran Bretagna nella persona di John Acton [3], inizialmente chiamato per organizzare e rafforzare la flotta.

Durante i dieci anni del suo “premierato”, il Sambuca non espresse una grande politica né grandi progetti atti a rafforzare e migliorare l’ancora fragile regno. Pur non di meno è bene ricordare nel bene e nel male, alcune delle sue iniziative.

Palazzo Reale o dei Normanni

Una delle più importanti e certamente la più dannosa fu di carattere economico sociale. Si iniziò infatti la privatizzazione dei beni della Chiesa, sia quelli del disciolto ordine gesuitico che quelli di regio patronato.

Mentre il Tanucci aveva salvato i beni confiscati ai gesuiti dalle mire dei privati, il Sambuca riuscì a privatizzare tutto il possibile e soprattutto i beni della Chiesa impiegati al servizio dello stato.

Egli stesso concorse alle aste per accaparrarsi i migliori feudi e costruirsi un’immensa fortuna ottenendo da re Ferdinando il mero e misto imperio con licentia populandi sui alcuni dei feudi acquistati (diploma del 30 agosto 1779)[4].

Dopo aver sciolto l’Azienda gesuitica, l’ente statale preposto alla gestione dei beni confiscati sia scolastici che agricoli, gli ex beni gesuitici furono messi in alienazione, o forse sarebbe meglio dire saccheggiati e, non sazi, furono pure alienati parte dei beni appartenenti ad arcivescovadi e chiese abbaziali “statali”. Insomma nulla di nuovo sotto il sole, beni dello stato o gestiti dallo stato trasferiti per pochi ducati o onze nelle mani di privati con la formazione di enormi patrimoni.

Le procedure di alienazione di questi beni furono talmente scandalose che il Sambuca venne accusato di approfittare della sua carica (di “conflitto d’interessi” si direbbe oggi) e trascinato in tribunale. Al processo però il Sambuca fu assolto e l’accusatore fu condannato per scorrettezze commesse durante il dibattimento[5]. Nonostante l’assoluzione la vendita ad amici e parenti del Sambuca divenne così vergognosa che nel 1782 re Ferdinando ritenne necessario emanare una legge che bloccava tali “affari”. Ma il danno era già fatto!

Danno che si ripercorse sugli enfiteuti che erano stati beneficiati dalla “onesta” gestione del Tanucci. Teoricamente gli enfiteuti non avrebbero dovuto subire alcun danno ma in realtà la “Giunta d’educazione” che sostituì l’Azienda gesuitica di stato non stanziò più i fondi da anticipare per l’acquisto delle sementi né per i soccorsi per l’alimentazione umana ed animale nei periodi non produttivi dell’anno. Molti enfiteuti pertanto, indebitatisi, dovettero abbandonare le terre ed a chi rifiutava di andarsene furono pignorate le masserizie e in alcuni casi inviati i soldati per scacciarli.

In pratica si era tornati alla situazione precedente la riforma tanucciana, con il più bieco sfruttamento dei contadini, ridotti alla fame e trattati come servi della gleba. Solo alcuni, i più fortunati, rimasero come enfiteuti dei nuovi proprietari, quelli meno avidi.

Un’altra iniziativa, in parte positiva , fu quella riguardante la riforma delle Università degli studi di Napoli e di Catania e l’istituzione della Regia Accademia degli Studi a Palermo [6].

Ciò segnò l’inizio di un movimento culturale e scientifico non più legato al dogmatismo ecclesiastico ma aperto alle novità che giungevano dal resto d’Europa pur se molto edulcorate in quanto la maggior parte dei docenti erano “uomini di chiesa”.

Cominciarono ad emergere studiosi come il pedagogo De Cosmi (che, ricordiamo, ai tempi del Tanucci, non era stato assunto a Catania, pur se vincitore di concorso, in quanto canonico), lo storico Gregorio, il giurista Balsamo, il poeta dialettale Meli e si formarono nuovi storici come Domenico Cinà.

Non si tenne in molto conto però l’organizzazione della programmazione didattica che avrebbe dovuto essere unitaria sia in territorio partenopeo che siciliano. Come giustamente fa notare il Renda “… ci fu una differente scuola di Diritto pubblico al di qua e al di là del Faro. Per Napoli il Regnum non aveva il suo confine sulle sponde peninsulari dello stretto, e sebbene non detto in modo esplicito, il Faro prima o poi era destinato a non esser più il confine tra i due regni, onde il richiamo al Codice del Regno di Sicilia del 1232 promulgato a Melfi da Federico II non aveva solo valore storico ma anche rilevanza pragmatica.” [7]

Palazzo dei Normanni, particolare della sala di Ruggero II (XII sec.)

Proprio il Codice di Melfi era stato causa della rivoluzione del Vespro da cui ebbero origine i regni separati di Napoli e di Sicilia perennemente in guerra e sempre divisi anche sotto le egemonie straniere.

In verità da parte napoletana si guardava ai sistemi a dispotismo illuminato di tipo europeo mentre da parte siciliana si sottovalutò, o non si volle o non si fu capaci di affrontare, il problema d’ammodernamento del parlamento feudale. Carlo III aveva intuito l’importanza della questione e, forse inconsciamente o forse no, si era ispirato al moderno sistema che stava attuandosi in America dove le ex colonie inglesi, pur mantenendo la loro autonomia avevano dato vita alla Confederazione degli Stati Uniti [8]. Ma non servono i se e i ma! Torniamo al Sambuca. Da ascrivere al suo operato è anche l’avvio per le pratiche di abolizione del Sant’Offizio dell’inquisizione di Sicilia portate brillantemente e platealmente a termine durante il vicereame di Caracciolo [9].

Insomma l’operato del Sambuca non brilla certo per iniziative rivoluzionarie e riformiste, anzi distrusse in buona parte ciò che Tanucci aveva iniziato a costruire e l’influenza austriaca finì con il concretizzarsi nel regno di Napoli in un aumento del potere della massoneria, ispirata al concetto illuminista di politica che vedeva nel “sovrano” il fulcro attorno al quale una società “livellata” doveva girare ed obbedire. Il “sovrano” tuttavia era spesso succube delle potenti logge massoniche! E questo in tutta Europa.

Nel caso del regno siculo-partenopeo la Massoneria era fondamentalmente napoletana ma il “sovrano” o meglio la “sovranità” non era rappresentata solo da re Ferdinando, napoletano di nascita, persona bonaria ma politicamente assai poco preparato, ma anche e soprattutto dall’arcigna Maria Carolina, austriaca e desiderosa di misurarsi con i fratelli Francesco e Leopoldo nel costruire un bel regno di tipo asburgico.

Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina

E’ proprio in questo ambiente che matura la decisione di mandare in Sicilia come vicerè un napoletano, Domenico Caracciolo marchese di Villamaina [10], contravvenendo a quanto deciso da Carlo III (vedi “La nascita del regno meridionale” in questo stesso sito). Perché fu scelto proprio il Caracciolo, che era allora ambasciatore a Parigi non è chiaro. Ma certamente Caracciolo aveva ben capito quale era il compito che l’aspettava e forse per questo ritardò la sua partenza da Parigi per oltre un anno. Inoltre c’era da considerare il fatto che il Viceré di Sicilia doveva render conto al primo ministro e al presidente della Giunta di Sicilia [11]. E in quel periodo, ricordiamolo, era primo ministro il Sambuca e presidente della giunta siciliana il di lui padre, il principe di Camporeale! [12]

Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina

Caracciolo indubbiamente non poteva accettare, dato il suo carattere assai deciso, di trovarsi stretto in una morsa che gli avrebbe impedito di lavorare liberamente e fu per questo che, in deroga alla costituzione, il suo referente in Napoli non fu il primo ministro Sambuca, ma John Acton, il “pupillo” della regina, che si dice avesse sostituito nel suo letto il Caramanico [13]. Ma queste sono “solo” “maldicenze”! In realtà si rafforzava l’intesa con Londra.

Il compito del Caracciolo era di restaurare l’autorità del re e della legge, contrastare lo strapotere dei baroni siciliani cercando di mantenersi però nell’ambito dell’ordinamento costituzionale vigente. Non era prudente rischiare una guerra civile! Gli si chiedeva un governo energico, capace di far valere la supremazia dello stato ma Caracciolo andò ben oltre; ebbe la capacità di attaccare frontalmente la nobiltà siciliana, la sua arroganza e gli abusi feudali presentandoli agli occhi dell’Europa come i veri nemici del proprio paese. Tentò anche di modernizzare quell’obsoleto parlamento, di trasformarlo in un “Congresso” della Sicilia ma la proposta fece infuriare i baroni più riottosi e retrogradi che erano anche i più potenti. Iniziò così una guerra senza quartiere contro il Vicerè. Ciò spiega perché il Caracciolo, abituato all’ambiente parigino, definisse “incivili, rozzi e barbari” i siciliani. Come altro designare simili personaggi legati a leggi e costumi feudali, lontanissimi dagli ideali dell’illuminismo settecentesco, di cui Caracciolo si era nutrito, e attenti solo al tornaconto personale?

Dovettero trascorrere diversi anni prima che i baroni cominciassero a capire la bontà delle iniziative Caraccioliane e modificarle a proprio vantaggio.

La politica Caraccioliana seguì in fondo due grandi linee: la prima, continuare il giurisdizionalismo tanucciano ed in ciò fu coadiuvato dal ministro De Marco, dall’opinione pubblica di entrambi i regni ed anche da parte dei nobili siciliani, quelli più “illuminati”.

La seconda, in linea con i dettami della scuola politica napoletana, tendeva a rifarsi alle costituzioni di Melfi (cioè di regime feudale originario) che contrastava con la feudalità istauratasi in Sicilia dove l’assenza perenne di un governo centrale aveva lasciato mano libera alle prevaricazioni di nobili e clero.

In questo, ovviamente, trovò scarso appoggio tra i nobili e nessuno tra il clero! Inoltre bisogna ricordare che il potere parlamentare dei baroni era stato ripristinato e rafforzato dalla “controriforma” del Sambuca.

E’ necessario anche ricordare che durante i sei anni di viceregno caraccioliano si susseguirono una serie di calamità naturali e politiche molto gravi: nel 1783 ci fu il terremoto di Messina e Reggio e quindi necessità economiche straordinarie che comportarono nuove tasse; nel 1784 ci fu la carestia, non grave come quella del ’63-64, ma talvolta arrivò a mancare il pane nelle città, con i consueti disordini; fallirono in quel periodo il Banco Pubblico ed il Monte di Pietà che costituivano gran parte del sistema creditizio e finanziario del regno e molta gente fu rovinata.

Nonostante tutto ciò il baronaggio non riuscì mai a trascinarsi dietro il popolo contro Caracciolo. Non dimentichiamo che egli compì una serie di azioni che diedero fiducia al popolo. Fu lui che aveva disposto che i contadini vassalli potessero muoversi liberamente, senza restrizione da parte del proprietario, parliamo di centinaia di migliaia di persone trattate come servi della gleba! Fu lui che procedette senza tentennamenti con l’abolizione del Sant’Offizio di Sicilia, sfidando personalmente l’ira del clero e dei baroni, fu lui che mise a disposizione dei commercianti alcuni navi da guerra per scortare i mercantili e difenderli dai pirati barbareschi, che tassò le carrozze dei signori per lastricare le strade, che pose le ronde notturne sotto il comando del ceto civile e ordinò, per far capire che faceva sul serio, che tutti gli uffici corrispondessero con Napoli tramite lui e non direttamente.

A Caracciolo si deve anche la fondazione del più celebre mercato di Palermo, La Vucciria, che sorge nella piazza che ancora oggi porta il suo nome.

Fu per questo che la sua proposta di riformare il sistema fiscale isolano istituendo un moderno catasto dei beni fu accettata. Cosa che avrebbe dovuto essere fatta anche a Napoli, ancora ferma al catasto conciario voluto da Carlo III, ma rimasto in pratica allo stato di progetto.

Questa proposta non andò però in porto in quanto bocciata proprio dal Consiglio di Stato [14].

Durante la carestia del 1783-74, inoltre, per evitare le più dure conseguenze il Vicerè pose il veto all’esportazione dei grani. A questo punto il vicerè, mettendosi anche contro il governo di Napoli, fu costretto a venire allo scoperto e , alla maniera dei ministri francesi, pubblicò in un opuscolo, Riflessioni sull’economia e l’estrazione di frumenti in Sicilia,[15] il suo programma per il miglioramento dell’economia dell’isola nel quale si sosteneva tra l’altro “la necessità di fondare la ricchezza della Sicilia nell’avanzamento dell’agricoltura, nella buona distribuzione dei beni e degli uomini e nella giusta ripartizione dei pubblici pesi: la ricchezza delle nazioni non è proporzionata alla quantità del loro denaro, ma a quella del loro travaglio, il quale è il solo che la produce, che la sostiene e la rappresenta e la quantità del travaglio è sempre proporzionata alla divisione delle fortune e della popolazione [16], cercando di evitare di introdurre per sistema la libertà di commercio del grano, voluta dai baroni  e caldeggiata da Napoli. La riorganizzazione dell’economia rurale farà sentire i suoi effetti anche su tutta l’industria manifatturiera e sull’economia urbana.

Di provvedimenti ce ne furono moltissimi, alcuni ben accetti altri no [17], ma il viceregno di Caracciolo fu fondamentale per il cambiamento statuale che si istaurò nell’isola: il baronaggio perse il monopolio della direzione pubblica [18] e di ciò i siciliani non potevano che esserne scontenti! [19]

Questa politica diede tuttavia coraggio ai ceti medi e popolari e maggior libertà agli intellettuali ai quali si avvicinò anche la nobiltà più “moderna” recependo quanto di meglio girava allora in Europa.[20]

Autore molto amato dall’aristocrazia fu soprattutto Montesquieu, che teorizzava la nobiltà come ceto intermedio tra il re e il popolo. I baroni cominciarono a capire che non era proficuo contrapporsi al Caracciolo tanto per contrapporsi (come fanno le odierne opposizioni) ma cavalcarne le riforme a proprio vantaggio[21].

Le cose stavano a questo punto quando, alla fine del 1785, il Sambuca rassegna le dimissioni. I motivi delle dimissioni del primo ministro non sono espliciti, ma quasi sicuramente ha avuto un peso rilevante la sua duplice veste di primo ministro e di rappresentante del baronaggio siciliano contro un viceré che non rispondeva a lui ma a Acton e lottava contro il baronaggio.

John Francis Edwards Acton

Francesco d’Aquino, principe di Caramanico

Il posto del Sambuca fu occupato dallo stesso Caracciolo e vicerè di Sicilia fu nominato Francesco d’Aquino principe di Caramanico. Io non so se fu una mossa politica ponderata “nel bene” o “nel male”. Caracciolo non ebbe alcun ruolo fondamentale a Napoli, praticamente non aveva nulla da fare se non firmare carte e la sua presenza sarebbe stata più utile in Sicilia. Promoveatur ut amoveatur, verrebbe da pensare! Tuttavia il governo viceregio del Caramanico, fin quando fu vivo Caracciolo, fu caratterizzato 1) dalla accentuazione della politica anticlericale, 2) dalla continuazione della politica antibaronale [22], 3) dall’avvio di una politica economica che promuoveva gli strati contadini riscattati dalle angherie [23] e prevedeva un programma di riconversione colturale agricola in stile colonia di San Leucio, 4) da una politica culturale costruttiva con la creazione di scuole normali e di nuove cattedre universitarie.

Il viceré Caramanico, sulla scia di Caracciolo, portò una ventata di modernità che coinvolse attivamente buona parte della nobiltà!

Francesco d'Aquino principe di Caramanico

Insomma si era arrivati ad un punto per cui la mediazioni di persone capaci avrebbe potuto veramente creare uno stato meridionale “moderno”, ma così non fu. Di li a poco Caracciolo morì (la sua morte coincise con la caduta della Bastiglia!) e con lui si interruppe il processo di riformazione e le forze più conservatrici ebbero la meglio al di qua e al di la del Faro. Fu solo un caso la tragica scomparsa del vicerè Caramanico? In realtà il ruolo politico del Caramanico, dopo la morte di Caracciolo, si era andato riducendo sempre più. I beni comunali ed ecclesiastici continuarono ad essere privatizzati ma solo a vantaggio dei baroni vicini alla corona o per risanare il bilancio dello stato fino ad arrivare, da parte del governo, alla rinuncia della nomina di un viceré lasciando l’amministrazione nelle mani del Presidente del Regno, l’arcivescovo di Palermo e Monreale, Filippo Lopez y Rojo. Sono anni cupi, di arresti e di processi contro persone che fino a qualche mese prima avevano collaborato con Caracciolo prima e Caramanico dopo [24]. E a questo punto che gli ex-riformisti si volgono al giacobinismo, in Sicilia ma soprattutto a Napoli.

Filippo Lopez y Royo arcivescovo di Palermo e Monreale, presidente del Regno (1794)

Il 21 novembre 1798 il governo borbonico dichiara guerra alla Francia repubblicana. In appena un mese l’esercito napoletano è ridotto alla rotta. A causa dell’approssimarsi dell’esercito francese alla città, in tumulto e con i giacobini pronti a insorgere, il re e la corte abbandonano Napoli e si rifugiano a Palermo. Gli eventi che seguiranno rappresentano il momento cruciale della storia del regno siculo-partenopeo.

Fara Misuraca

ottobre 2006


Bibliografia

  • Giuseppe Bonomo, Pitrè la Sicilia e i siciliani, Sellerio, Palermo 1989

  • Isidoro La Lumia, Palermo, il suo passato, il suo presente, i suoi monumenti, Antares editrice, 2004, 1° edizione Pedone Lauriel, 1875

  • Francesco Renda, Storia della Sicilia , Sellerio, Palermo, 2003

  • Rosario Romeo, Il risorgimento in Sicilia, La Terza, Bari, 1982

  • Giuseppe Pitrè, La vita in Palermo cento e più anni fa, Editrice Il Vespro, Palermo, prima edizione Barbera, Firenze, 1904

  • Leonardo Sciascia, Le Parrocchie di Regalpetra- Morte dell’Inquisitore, La Terza, Bari,1982

  • AAVV Storia di Sicilia, edizioni storia di Napoli e della Sicilia, Napoli, 1978


Note

[1] Giuseppe Beccadelli di Bologna (1726-1813), Principe di Camporeale, Duca d’Adragna, Marchese d’Altavilla, Marchese della Sambuca ecc., fu dal 1781 Primo Ministro di Stato.

[2] Il sistema “federale” spagnolo non è da confondere con le odierne confederazioni, semplicemente si basava sul mantenimento della condizione di regno autonomo.

[3] Sir John Francis Edward Acton (1736-1811), ammiraglio e uomo politico di origine irlandese viene chiamato a Napoli nel 1778 ed entrato nelle grazie della regina a lui viene affidata la riorganizzazione della Marina militare con la carica di Direttore della Real segreteria della Marina. Nel 1789, sempre con l’appoggio di Carolina, diviene ministro degli esteri con funzioni di Presidente del Consiglio.

Palermo, la tomba di John Acton, in Santa Ninfa dei Crociferi, in via Roma vicino ai Quattro Canti

[4] Il 30 Maggio 1779 Don Giuseppe Beccadelli di Bologna, Marchese della Sambuca e Principe di Camporeale, compra, pro persona nominanda, "li cinque territori o siano senimenti di terre…. Con case, fabbriche, acque, beverature, mercati, mandre, vigne, alberi domestici e silvestri, magazzini e tutt’altro in essi esistesti per onze ottantamila (88.930) di moneta del Regno di Sicilia". Per decreto del Re Ferdinando IV il 30 Maggio 1779 gli viene confermata la "concessione del mero e misto imperio con l'alta giurisdizione di poter farvi università popolazioni e reluirvi i censi accollati nella compra."

[5]il primo ministro nel 1782 fu accusato dal principe di Campofranco “de furto magno contro la Real Camera nella compra de feudi e masserie gesuitiche.” Villabianca, Diari della città di Palermo, in Bonomo , Pitrè la Sicilia e i siciliani, pag 220.

[6] La regia accademia di Palermo non poté fregiarsi del titolo di Università per il veto opposto da Catania. Verrà promossa ad Università nel 1805.

[7] Renda, Storia di Sicilia, vol II, pag 251.

[8] Sono sempre i migliori che se ne vanno, stavolta non per morte ma perché incoronati re di Spagna!

[9] In realtà ad occuparsi de della faccenda fu il napoletano Saverio Simonetti, Consultore del governo durante i vicereami di Stigliano, Caracciolo e Caramanico ed il suo comportamento era in linea con la politica di Maria Teresa d’Austria. (Renda, storia dell’inquisizione in Sicilia). Un danno tuttavia Caracciolo lo fece: ordinò di bruciare tutti i registri dell’inquisizione, cancellando pagine di storia!

[10] Domenico Caracciolo (1715 - 1789) Marchese di Villamaina per rinuncia del fratello. Fu giudice della Gran Corte della Vicaria, ambasciatore a Torino, Londra e Parigi, Vicerè del Regno di Sicilia 1781/1-1786, Segretario di Stato e Sovrintendente Generale alle poste del Regno di Napoli dal gennaio 1786.

[11] I ministri di Carlo III (Santostefano, Montealgre e Tanucci) per garantire l'autonomia del regno di Sicilia avevano istituito, su modello del regno di Spagna, la Real Giunta di Sicilia. Durante la precedente dominazione spagnola esisteva il Consiglio d'Italia che era composto da un napoletano, un milanese, un siciliano e tre spagnoli con presidente spagnolo, quindi a maggioranza spagnola. Il Consiglio Supremo della Real Giunta di Sicilia era invece costituita da 2 giureconsulti siciliani, 2 napoletani ed aveva per presidente un barone parlamentare siciliano (che aveva anche le funzioni di Consigliere di Stato). [AAVV,Storia della Sicilia  vol VI].

[12] Pietro Beccadelli di Bologna (1695-1781), Principe di Camporeale, Duca d’Adragna, Marchese d’Altavilla, Marchese della Sambuca ecc., fu membro del consiglio di reggenza della Corona durante la minorità di Re Ferdinando IV (III), e presidente del Consiglio Supremo della Real Giunta di Sicilia.

[13] Questo è “gossip” ma non è escluso che abbia avuto il suo peso, A. Dumas, Napoli borbonica. Dumas era un narratore, non un falsario o una spia.

[14] Si ebbero tre voti favorevoli e tre contrari ma il primo ministro, Sambuca, ed il re si schierarono con i “no”.

[15] riportato da Giuseppe Bonomo in Pitrè, la Sicilia e i Siciliani.

[16] Caracciolo, riflessioni sull’economia l’estrazione de’ frumenti della Sicilia, cit. da Renda, in Storia della Sicilia, vol. VI p. 247.

[17] Grande ostilità suscitò l’ordine di ridurre i festeggiamenti per Santa Rosalia.

[18] Gli esponenti dell’aristocrazia isolana vennero sistematicamente estromessi dagli incarichi di governo ed anche intellettuali e politici come De Cosmi, Natale e Balsamo, i maggiori ingegni del tempo dovettero accontentarsi di incarichi di sottogoverno. Dopo l’estromissione del Sambuca tutti i ministri segretari di Stato e i vicerè furono tutti napoletani.

[19] A tal proposito annotava “Ammettendo che i siciliani si lagnassero di immaginari aggravi, di uno avevano sufficiente ragione di dolersi, cioè di essere interamente esclusi dal governo del proprio paese e totalmente assoggettati a quello degli stranieri, e specialmente dei napoletani loro naturali nemici e rivali”. Paolo Balsamo, Sulla istoria moderna, pag. 58. E’ per porre riparo a questo stato di cose che nasce l’esigenza della costituzione del 1812.

[20] Non pochi furono i nobili che sostennero Caracciolo.

[21] A tal proposito ricordiamo che il principe di Trabia, ispirandosi al Genovesi, arrivò a proporre l’alienazione dei beni ecclesiastici e demaniali, la loro quotizzazione e concessione ai contadini e l’abolizione degli usi civici nelle baronie.

[22] Furono incamerati dal demanio la baronia di Prizzi e di Palazzo Adriano, fu proposta la devoluzione dei feudi i cui baroni fossero morti senza eredi e fu promosso il riscatto dalle “angherie” feudali delle popolazioni dei feudi per i quali non era possibile dimostrare la legittimità dl titolo.

[23] Il 4 maggio 1789 il vicerè Caramanico abolisce le servitù personali e conferma la completa libertà di ogni individuo.

[24] Fra questi venne processato e condannato a morte Francesco Paolo Di Blasi, che aveva assolto incarichi ufficiali di governo sotto il vicerè Caramanico.

Le armi di Don Carlos III di Borbone (Carlo VII di Napoli e V di Sicilia), in una formella della cattedrale di Palermo in ricordo della sua coronazione avvenuta il 3 luglio 1735.


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