Le Pagine di Storia

Sintesi del “Quadro Storico”

Tratto per gentile concessione dall’opera “Memento Domine” di Dora Liguori (Le verità negate sulla tragedia del Sud tra Borbone, Savoia e briganti), sito www.comitatomementodomine.it

Questo libro non vuole, in nessun modo, essere un saggio storico ma solo la rappresentazione di una storia, di tradizione orale, consumatasi, per la parte centrale, nell’arco di circa tre mesi. Gli avvenimenti che corredano il nucleo della vicenda sono invece tutti storicamente accertati e documentati. Altresì non vi è alcun’intenzione di dare giudizi compiuti sui fatti intervenuti nel meridione d’Italia in quei drammatici anni della seconda metà dell’Ottocento, soltanto l’occasione di offrire, attraverso un racconto, la parziale e forzatamente schematica visione della tragedia vissuta dal popolo di quelle terre.

Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele II di Savoia, re del Piemonte, intervenendo ad una seduta del parlamento torinese, con buona dose di retorica e per nascondere le sue mire espansionistiche, va a proclamare che da molteplici popolazioni italiane si è levato “un grido di dolore”che chiede la liberazione da tutti i regnanti in carica, nonché la conseguente unione di tali “addolorati popoli” al piccolo regno sabaudo. In sintesi, il re, dietro il paravento di tanto belle ed accorate parole, nella realtà sta annunciando l’avvio delle operazioni offensive per realizzare un progetto ambizioso che affonda le sue radici in Inghilterra dove, il progetto, ha avuto una sua lunga ed elaborata preparazione da parte di Lord Palmerston, ministro della regina Vittoria e alto iniziato della massoneria.

Infatti la massoneria inglese, con a capo mister Albert Pike, da oltre una decina di anni, aveva deciso di porre in cantiere un’operazione audace che doveva portare l’Inghilterra, per fini espansionistici e commerciali, a possedere un affaccio privilegiato sul Mediterraneo; non a caso in ballo v’erano due ottime ragioni: l’affare del prezioso zolfo siciliano e, procedendo i lavori, la prossima apertura presso Suez di un canale che diveniva d’importanza strategica per i commerci con il Medio Oriente.

Cosa v’era, dunque, di meglio della Sicilia? Nulla! Solo che la Sicilia non apparteneva a loro ma al Borbone. Aggiungasi che verso questa casa regnante la massoneria inglese aveva un vecchio conto in sospeso di tipo, per così dire “sentimentale”, riguardante una repressione portata con decisione avanti, proprio da un re Borbone, fra il ’25 e il ’30, contro i fratelli siciliani. Pertanto i motivi c’erano tutti, occorreva solo trovare il sistema per mettere, come si suol dire,”un piede in Sicilia”. Per l’attuazione di tale non facile disegno occorreva, dunque, quale esigenza prioritaria, assicurare il predominio, in quell’area, ad uno stato laico e amico che fosse soprattutto libero da sudditanze con la Chiesa Cattolica. In forza di questa logica, tolta la cattolica Austria, l’altrettanto cattolico Granducato di Toscana e il Regno delle Due Sicilie e tolto, ovviamente, lo Stato Pontificio, per esclusione la scelta non poteva che cadere sul Regno del Piemonte che, tra l’altro, e ciò era fondamentale, risultava aderente alla massoneria. Una volta individuata nei Savoia la casa regnante alla quale concedere l’appoggio per la realizzazione del progetto, non restava che consigliare al re di ammantare il progetto medesimo di spinte idealistiche, tutte riconducibili all’inderogabile esigenza di effettuare l’unità nazionale. Di qui il comodo e quanto mai opportuno “grido di dolore”, generosamente raccolto e con fremente passione denunciato da re Vittorio. In pratica il grido serviva a giustificare… l’ingiustificabile apertura delle ostilità avverso gli altri pacifici Stati italiani onde determinare, con la progressiva annessione degli stessi al Regno del Piemonte, la realizzazione del famoso progetto, tanto caro agli inglesi e ancor più caro ai Savoia, i cui fini erano del tutto meramente economici e per i soli gonzi… idealistici.

Un primo e fondamentale strumento di lotta venne subito individuato in un’abile propaganda negativa che, affiancata ad azioni di disturbo effettuate a cura di agitatori di professione e da una serie di inviati “molto speciali”, doveva rappresentare in Europa il presupposto stato deplorevole delle popolazioni italiane le quali, non avendo la ventura di essere governate da un regno illuminato, quale ad esempio quello dei “buoni” Savoia, soffrivano mille e atroci pene.

Nonostante l’ottima “orchestrazione” intervenuta per supportare simile propagandistica iniziativa, la “commozione europea” stentava a decollare. Alle menti dell’organizzazione non restò, allora, che chiamare a raccolta tutti gli altri esponenti della massoneria presenti in Europa, alcuni dei quali già da tempo impegnati nel progetto, al fine di unitamente decidere “l’esser scoccata l’ora” di dare la determinante “spallata”, o meglio l’affondo, per sconvolgere il Sud. La “bella” unione avrebbe consentito la vittoria al più impegnato dei fratelli massonici: il conte Camillo Benso di Cavour, creatore della struttura massonica in Torino denominata “Società Nazionale”. All’appello della loggia inglese risposero, chi per amore e chi per dovere, in tanti ma soprattutto si trovarono belli e pronti due “guerrafondai da niente”: Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. Essi, in modi diversi, il primo pontificando sui valori della libertà della povera Italia, ma restando a tavolino nella comoda Inghilterra, e l’altro correndo sulle italiche sponde, aduso com’era e per mestiere, a “rompere letteralmente l’anima” ovunque ci fosse odore di agitazione, s’impegnarono gagliardamente alla “bisogna” di unire chi non aveva mai chiesto di essere unito. Oltre ai citati “padri risorgimentali” dové rispondere, purtroppo, all’appello un altro affiliato di rango che rispondeva al nome di Napoleone III, imperatore dei francesi il quale, però, spesso risultava “in sonno”. A svegliarlo ci pensò un ben programmato attentato che, senza fargli troppo male, doveva rappresentare un utile avvertimento. Il buon Napoleone capì la “sonata” e contrariando le idee della cattolicissima moglie, l’imperatrice Eugenia, volente o nolente, si vide costretto a rispondere alla famosa chiamata. Senza con questo nulla voler togliere ai meriti della seducente Nicchia (la contessa di Castiglione) che erasi, in pieno senso letterale,“tutta” impegnata a convincere l’Imperatore circa la bontà dell’unificazione italiana fu, in effetti, il potere della “fratellanza” che indusse realmente il recalcitrante Bonaparte a sostenere le mire dell’odioso “vicino” re sabaudo che, a detta del francese, stava proprio esagerando. Infatti, passi per gli altri staterelli italiani ma, addirittura annettersi il rilevante e pingue “Regno delle Due Sicilie” era impresa da “far tremare i polsi”.

Un dubbio del genere, per onore del vero, oltre che all’imperatore francese, era venuto anche allo stratega politico dei Savoia – Cavour – che, ritenendo, anch’egli, alquanto impraticabile la citata impresa, fu assalito, in modo a lui non consueto, da una serie di remore. All’esperto politico non sfuggivano due significanti particolari che poco deponevano a favore dell’impresa: l’enormità del solo voler sperare nella conquista di uno stato solido e ricco come il regno del meridione e la considerazione morale (ma era l’argomento che meno lo affliggeva) della stretta parentela tra l’erede Francesco di Borbone, la cui defunta madre – Cristina – era una Savoia, e il regnante Vittorio Emanuele.

Fu allora che il primo ministro, forse per crearsi un alibi o cavarsi d’impaccio, offrì al Borbone di dare vita ad una confederazione tra nord e Sud. La proposta, notevolmente saggia... ammesso che fosse verace, non andò in porto per una certa diffidenza del re borbonico nei confronti dei Savoia e inoltre perché, in essa, era adombrata una inevitabile limitazione del potere temporale del papa, cosa che ripugnava al cattolicissimo Borbone. Caduto così il progetto confederativo, a Cavour non restò che procedere sulla via tracciata, ancorché pericolosa, dai “fratelli” inglesi ed iniziare quella che lui prevedeva, a ragione, la difficile conquista del meridione, oltre che delle restanti terre italiane.

Dal 1856 al 1859 nelle città del nord dell’Italia, fomentate dalla setta segreta che faceva capo a Mazzini e denominata “Giovine Italia”, scoppiarono violente sommosse, e nell’aprile del ’59 il granduca di Toscana fu costretto ad abbandonare il trono.

Il 28 aprile del 1859 l’Austria dichiara guerra al Piemonte, guerra che viene vinta dal re sabaudo grazie al consistente intervento della Francia e che si conclude, poi, con la cessione al regno dei Savoia della Lombardia. In pratica il fortunato Vittorio Emanuele ebbe ciò che nel ’49 sfuggì al tentennante padre, Carlo Alberto.

Con un plebiscito, sapientemente gestito dalla minoranza liberale (i cosiddetti carbonari), anche l’Emilia e la Romagna vengono annesse al Piemonte. Restava, ormai, la parte più consistente della torta: il Regno delle Due Sicilie. Con l’appoggio della “Gran loggia londinese” che impegna nel progetto una somma enorme, il già menzionato Giuseppe Garibaldi, avventuriero e agitatore di professione non privo di audacia, essendo aduso ad esporsi in prima persona, e già detentore di una condanna a morte comminatagli, nel 1834, per alto tradimento, proprio dal governo del Piemonte (non sarà l’unica delle condanne emesse dagli “amici” piemontesi), viene incaricato, con tutte le coperture possibili, di invadere, sbarcando in Sicilia, il regno del meridione.

Pertanto Garibaldi, il 5 maggio del 1860, con grande “battage” di stampa estera finalizzata a depistare le difese borboniche, le quali dovevano essere indotte a credere che i garibaldini fossero realmente in pochi, vien fatto partire da Quarto (Genova), con il dichiarato ed esiguo numero, per l’appunto, di 1089 pseudo patrioti (i più erano avventurieri), per dare inizio ad un viaggio verso la Sicilia, però tranquillamente scortato dalla flotta sabauda.

A Talamone, in Toscana, sulla rotta del Sud furono imbarcati 2000 soldati piemontesi e armi in abbondanza. L’11 maggio, Garibaldi sbarca a Marsala protetto questa volta dalla flotta inglese che, pronta, a poche miglia dalla costa siciliana, attende di “graziosamente” affiancare la flotta piemontese per opportunamente coprire, i non più “mille”, dal fuoco dei cannoni della marina borbonica.

In pratica la flotta britannica, con manovra subdola se non scorretta, si andò a porre innanzi alle navi dei Borbone che, colte di sorpresa, esitarono a sparare e la fatale esitazione fu sufficiente a far passare indenne il “signor Garibaldi”. Una volta superato lo sbarramento della marina borbonica il generale sbarcò, in santa tranquillità, con i garibaldini nell’isola dove lo attendeva, trepidante, il fratello massonico La Farina.

Sul controverso punto della sorpresa e conseguente “esitazione” qualcuno, prima o poi, ci dovrà pur raccontare se, quella dei comandanti della marina borbonica, fu “vera esitazione” o, anch’essa, una distrazione lautamente prevista e pagata. A tutt’oggi rimane un solo dato certo cosi riassumibile: le uniche difficoltà per i garibaldini intervennero quando, superati i cannoni borbonici, una delle navi – la Lombardo – sbagliò l’attracco nel porto di Marsala e si andò bellamente ad incagliare nelle secche. Fu allora che l’esercito di Garibaldi rischiò, di brutto, almeno per i cagionevoli di salute… una polmonite.

Infine la storia, agiografia a parte, ci racconta che mai impresa, che doveva essere per antonomasia l’impresa disperata di giovani patrioti e il colpo di testa di un eroe, fu invece più protetta, scortata e generosamente finanziata; senza contare l’oro del banco di Sicilia immediatamente incamerato dal generale Garibaldi il giorno che entrò in Palermo. A tale proposito l’appropriazione del rilevante tesoro palermitano risultò parecchio indigesta a Vittorio Emanuele che, indebitato con mezza Europa, attendeva quel denaro come ossigeno vitale per le sue casse. Circa la fine reale fatta dall’oro, in seguito, circolarono contrastanti notizie. Volendola proprio mettere sull’idealistico si potrebbe ipotizzare che il repubblicano Garibaldi intese, requisendo il tesoro, assicurarsi una certa autonomia caso mai insorgesse l’occasione di realizzare l’ancor vivo, in lui, progetto di repubblica in Italia. A pensarla male, invece, è probabile che Garibaldi, non credendo troppo nella gratitudine dei Savoia, decise di intascare il denaro riservandolo a sé ed ai suoi più fidati uomini onde pagarsi, in anticipo, l’impegno profuso in quella impresa e fronteggiare, come direbbe il poeta, i probabili “dì futuri e neri”. Certo è che, comunque fosse andata, il Savoia prese malissimo la disavventura pecuniaria subìta e ne mantenne tanta buona memoria che, il solo possibile ripetersi dell’evenienza, lo fece divenire ferocemente attento, nei confronti di Garibaldi, quando si trattò di difendere l’ancor più consistente tesoro del banco di Napoli.

Il poi nomato “eroe dei due mondi”, nel frattempo, suffragato dai liberali siciliani, e perché no dai “picciotti” di mafia, inizia la sua impresa. Purtroppo per Garibaldi, però, esaurito il primo facile approccio, iniziarono i guai: quelli seri. Infatti, essendo il Generale tutt’altro che un fesso, non ci mise molto a capire che, pur con tutta la buona volontà, nemmeno la ricchissima massoneria inglese, poteva comprare l’intero popolo siculo, né esso risultava particolarmente invaso da spirito liberale, anzi non lo era quasi per nulla, ritenendosi sufficientemente soddisfatto dell’amministrazione borbonica che, alla fin fine, lo faceva campare alla meno peggio.

Si scontrarono, infatti, i poveretti non certo, come falsamente venne poi raccontato dai vincitori, con un manipolo di “mille” improvvisati patrioti, bensì con un numero rilevante di militari di mestiere che le navi sabaude, in appoggio a Garibadi e subito dopo il suo arrivo nell’isola, avevano provveduto a sbarcare sulle coste siciliane. I soldati piemontesi, tra l’altro, erano ben equipaggiati e riforniti d’armi e fucili – ultimo modello – sempre per generoso intervento finanziario della “loggia inglese” la quale, in quella spedizione, sapeva di giocarsi il tutto per tutto. A ragione si può, dunque, dire che i “mille”, nella realtà, furono mille… più mille, più mille, più mille; e la famosa e decantata spedizione… quasi una crociera in un mar Tirreno particolarmente affollato di amici e “fratelli”.

In forza di queste verità è lecito affermare che nessun esercito, apparentemente improvvisato, di liberazione o meglio di occupazione fu altrettanto sistente, protetto e fornito degli appoggi logistici necessari per condurre a buon fine l’impresa prefissata. Ugualmente, la tanto decantata conquista di Messina, attribuita al valore dei garibaldini, va ascritta, al contrario, a due elementi determinanti: il merito della flotta piemontese e il demerito di alcuni generali borbonici, fra i quali il Ghio e il Lanza, entrambi aderenti alla massoneria. Costoro, per l’appunto, non “mossero paglia” per contrastare l’azione garibaldina e, in pratica, non affiancando concretamente l’eroica resistenza del generale Dal Bosco consegnarono, l’isola all’invasore, ritirandosi persino in buon ordine.

L’atteggiamento dei due passibile, in altra situazione, di deferimento alla “corte marziale”, creò, prima lo sconcerto e poi, come già detto, le violente reazioni dei soldati borbonici. Queste proteste, iniziate in Sicilia, proseguirono a Reggio Calabria ove, nel corso di una rivolta, venne ucciso o giustiziato, come si preferisce interpretare i fatti, un generale, resosi colpevole, a detta dei militari, di non combattere e d’aver così permesso l’entrata in quella città di Garibaldi.

Aiutati da alcune sommosse, tanto “spontanee” dall’essere lungamente già programmate, procedé l’occupazione o la liberazione, a seconda dei punti di vista, dei garibaldini nel mezzogiorno d’Italia, e l’unico contrasto che venne fatto a Garibaldi fu quello attuato, questo sì spontaneamente, da sparuti gruppi del già esercito borbonico che tentarono, con il loro sacrificio, di riscattare il disonore dei generali. Pertanto lo spregiativo “esercito di Franceschiello” va esclusivamente riferito ai capi militari.

L’8 settembre 1860 (per i Savoia esiste certamente un destino in questa data) Francesco II, a bordo della fregata “Partenope”, onde evitare spargimenti di sangue, lascia Napoli per raggiungere la fortezza di Gaeta, nella quale intende porre in atto l’ultima strenua resistenza che riesce, con atti di eroismo ascritti ai soldati e soprattutto al coraggio dimostrato dalla moglie Maria Sofia, a procrastinare di cinque mesi la caduta del suo regno. Il 13 febbraio 1861 Francesco II, questa volta a bordo della nave francese “Mouette”, prende la via dell’esilio. Raggiunge Civitavecchia e di lì Roma ove, paternamente accolto, è ospite del papa Pio IX prima al Quirinale e poi in Palazzo Farnese, di proprietà dei Bor bone. Al contrario della moglie, donna di carattere e tutt’altro che disponibile ad accettare la perdita del regno, Francesco di Borbone organizza una stanca resistenza e dà vita, durante il soggiorno romano, ad una specie di governo del Regno del Sud in esilio chiamato “Comitato generale”. Il novello comitato, posto sotto la presidenza del conte di Trapani, ha quale segretario il generale Clary e a costui viene affidato il delicato compito di organizzare e costituire una serie di comitati in tutte le principali città dell’ex regno. A questi comitati, secondo le intenzioni dei legittimisti borbonici, spettava il ruolo di promuovere e preparare la reazione che doveva intervenire ad opera e per il supporto di truppe formate da: ex soldati borbonici, ex garibaldini delusi, contadini che divenivano briganti, alcuni nobili idealisti provenienti da tutta Europa e da il nemmeno troppo sotterraneo appoggio del clero. Il coacervo di persone e d’intenti avrebbe dovuto riportare, se tutto andava bene, sul trono del Sud la dinastia borbonica. Invece, vuoi per autentica sfortuna o, a voler credere alle favole, per effetto dei riti magici ai quali si diceva fossero adusi i Savoia, da sempre sostenitori e protettori di stregoni, veggenti e cartomanti, non ne andò una dritta. Tutti i tentativi fallirono, a volte inspiegabilmente, come la mancata presa di Potenza da parte dei reazionari borbonici, un avvenimento, come detto, sconcertante che, a parere di chi scrive, e non solo, fu la causa determinante per la sconfitta dei Borbone e che rappresenta l’oggetto del presente romanzo.

Riprendendo i fatti, il più importante di questi tentativi di restaurazione venne realizzato da un generale spagnolo – José Borjés – che, su incarico del generale Clary, organizza una spedizione nell’Italia del Sud, in compagnia di quattordici ufficiali suoi amici. Costoro partono da Malta e sbarcano sulle coste calabre a Brancaleone. Purtroppo il generale Clary, con eccessiva faciloneria, aveva fatto credere al valoroso soldato spagnolo che l’intera popolazione del Sud Italia era in attesa di un capo per insorgere. Palesemente si voleva replicare l’impresa garibaldina con la differenza che, Borjés, non era scortato dalla flotta piemontese e inglese e ad attenderlo non trovò nessuno. Non a caso è stato detto che, al Sud, in pochi conoscevano a fondo la situazione e quei pochi ancora non avevano deciso come schierarsi. La stessa banda del brigante calabrese Mittica, che pur affermava di battersi per i Borbone, diffidando del Borjés, non gli prestò il necessario soccorso.

Lo spagnolo, nonostante le avversità, con un coraggio eccezionale riuscì, comunque, a raggiungere la Basilicata dove sapeva si concentravano le bande meglio armate ed organizzate al comando del brigante Carmine Crocco Donatelli, capo genialissimo per furbizia, strategia e capacità organizzative. L’incontro fra questi due uomini che, volendo (ma almeno il brigante non volle), avrebbe potuto determinare una svolta nella reazione borbonica, avvenne il 22 ottobre 1861. I rapporti, da subito, si presentarono tutt’altro che idilliaci, per totale diversità di carattere, di vedute di strategia militare e soprattutto per l’elementare motivo che Crocco non aveva alcuna intenzione di cedere il comando. Una specie d’intesa venne per intanto raggiunta ma, è il caso di dire, il rattoppato accordo si deteriorò del tutto allorché il Borjés dové registrare l’inspiegabile rinuncia del Crocco a conquistare l’importante città di Potenza. Il brigante, infatti, giunto dopo una faticosa avanzata che aveva duramente impegnato l’esercito sabaudo (valga per tutti la cruenta battaglia dell’Acinella), il 16 novembre 1861 ai piedi della città, fece suonare, nel pomeriggio di quel giorno tanto atteso, improvvisamente la ritirata e, invece di assalire il capoluogo lucano, ripiegò con mossa discutibile su Pietragalla. Un errore strategico che comprometterà definitivamente le già limitate speranze di restaurazione del trono borbonico.

Il perché di quest’assurda ritirata rimane uno dei misteri della storia. Con ogni probabilità Crocco (questa potrebbe essere una spiegazione), avendo compreso la svolta decisiva che detta conquista avrebbe impresso alla lotta, ossia un ritorno alla legalità, ed essendo già stato deluso, a tal proposito, nell’esperienza avuta con Garibaldi (liberato dai garibaldini dalla galera li aveva seguiti con la promessa di un condono che poi non ebbe), preferì restare brigante per continuare ad essere un capo, sia pure sempre in fuga.

La storia, comunque, non può sostenersi sui “presupposti”. Rimane il fatto che, essendo il Crocco in materia di strategia militare superiore, e di gran lunga, anche alle notevoli capacità del Borjés, risulta poco attendibile l’ipotesi d’attribuirgli un semplice errore. Non era, infatti, suo costume sbagliare.

L’amara vicenda determinò, in chi comprendeva l’importanza di Potenza, come il Borjés, un tremendo sconforto per la consapevolezza di aver perso l’unica occasione veramente utile per vincere. Non occorreva essere grandi strateghi per capire che, se l’“affondo” su Potenza fosse stato sferrato al momento opportuno e nei termini del progetto lungamente predisposto, difficilmente i Savoia sarebbero sfuggiti ad una disfatta che avrebbe posto serie ipoteche sul loro regno.

Essi vinsero, invece, quando stavano proprio per perdere. Fallita, o meglio non conquistata, Potenza, anche l’impresa del Borjés ebbe tragicamente termine dopo poco. Il generale spagnolo, non potendo sopportare oltre quello che, a ragione, riteneva un tradimento decise di abbandonare il Crocco e le terre di Lucania per dirigersi verso gli Abruzzi ove tentare l’impresa di varcare il confine con lo stato pontificio. Con ogni probabilità, il suo gesto non era teso a rinunciare definitivamente alla lotta ma solo a portare, e questo forse gli costò la vita, a diretta conoscenza del re le incongruenze del brigante. Intercettato ad un passo dal confine, presso Tagliacozzo, con precisione sospetta (qualcuno è evidente lo tradì) venne, senza alcun processo fucilato, con i suoi uomini, dai piemontesi al comando del maggiore Franchini.

Il caso, per lo spregio dimostrato dai piemontesi a qualunque parvenza di legalità e che vedeva vilmente ucciso un valoroso avversario, per di più un generale spagnolo conosciuto e stimato da molti, fece riflettere e scandalizzò profondamente l’Europa sui sistemi dei Savoia.

Crocco, catturato nel 1864, ebbe salva la vita poiché un tribunale, stranamente clemente, lo condannò “solo” ai lavori forzati. Morì nel 1905 nel penitenziario di Portoferraio con un regime di prigionia, per quei tempi, tutt’altro che duro, anzi gli fu consentito persino di scrivere le sue memorie, ovviamente infarcite di rispetto per i Savoia. Ma Crocco era pur sempre l’uomo intelligente che aveva tenuto in scacco duramente l’esercito piemontese, e non si smentì neppure in occasione delle memorie poiché, a parte la facciata pro-Savoia, dalle parole del brigante, per chi sapeva leggere, trasparì tutta la grandezza e la portata della lotta di popolo che, per anni, i vincitori avevano tentato di negare innanzi al mondo intero.

Dal 1860 al 1870 il meridione, come in parte racconta Crocco Donatelli, fu percorso da continue rivolte nelle città e nei centri minori e le bande armate che si andavano, in continuo, per disperazione a costituire poterono, da un certo momento, annoverare, tra le loro fila, anche ex liberali che, avendo in buona fede sospirato e cospirato per uno stato libero e costituzionale, si erano brutalmente ritrovati col peggiore dei poteri in casa. Lo stesso don Liborio Romano, come sopraccennato, già ministro borbonico e già incaricato da Garibaldi di formare un governo provvisorio del Sud, eletto nel nuovo parlamento italiano con suffragio strepitoso, quando afferrò in pieno la situazione non ebbe remore a denunciare, in quella sede, coraggiosamente e più volte, lo scempio e la politica scellerata che veniva effettuata nel meridione. Don Liborio, essendo in fondo uomo onesto, si sentiva responsabile, in prima persona, della rovina del Sud e schiumava rabbia per l’abile raggiro subìto ad opera del luogotenente delle province del Sud, il principe Eugenio di Savoia Carignano e del segretario generale della luogotenenza, il cavaliere Costantino Nigra.

I due, conoscendo l’autorità e la stima che il politico pugliese godeva in quelle terre, per averlo interamente dalla loro parte, prima gli avevano fatto credere in una situazione di tipo confederale e con pari dignità fra nord e Sud e, poi, lo avevano fatto piombare in una realtà che vedeva un meridione schiacciato dalla protervia dei Savoia e reso privo di qualunque libertà e prospettiva. Infine se non ne fosse stato impedito dagli anni e dalla precaria salute, se solo avesse potuto, don Liborio si sarebbe rimesso a cospirare, però, questa volta in senso inverso. Infatti i più traditi dell’intera vicenda risultavano essere proprio i liberali della prim’ora, come don Liborio Romano i quali, avendo in perfetta buonafedecombattuto per ottenere una confederazione paritaria con il Piemonte, si ritrovarono, invece, con una forzata quanto umiliante annessione dei territori meridionali allo stato sabaudo, uno stato che, con il massimo dispregio, definiva le genti delle testé conquistate terre “più incivili dell’Africa”. Sempre ammesso che, anche all’Africa, fosse giusto e legittimo affibbiare il concetto di inciviltà.

Questa profonda delusione, ormai sentita coralmente nel Sud, fatti salvi alcuni beneficiari della situazione, diede molto filo da torcere al nuovo Regno d’Italia. Il popolo intese una cosa sola, elementare ma tremenda: i liberatori erano di fatto oppressori e che i nobili, i padroni di una volta, erano stati bellamente sostituiti da pseudo liberali dell’ultima ora. Questi borghesi, dichiaratisi al momento giusto fedeli ai nuovi padroni, divennero, in breve, i nuovi ricchi. Infatti essi si rivelarono ancor più famelici, in quanto a privilegi e “terre” da accaparrare, rispetto ai nobili e ai sistemi dell’antico regno, al punto da far rimpiangere, al popolo, il passato. E proprio in nome delle terre demaniali, sempre promesse e mai ottenute, il ceto più debole ed infelice – i contadini – decisero di instaurare un’aspra ribellione purtroppo conclusasi nel sangue per non essere stata combattuta e vinta al momento giusto. Tutte le province del già Regno delle Due Sicilie, nell’arco del citato decennio insorsero e in ogni angolo del meridione, da “terra di lavoro” (Caserta) agli Abruzzi, dalla Basilicata al Principato Citeriore (Salerno), Molise, Calabrie, Puglie e nel 1866 violentemente dalla Sicilia, fu un moltiplicarsi e un susseguirsi di sommosse, tutte brutalmente represse senza nemmeno il tentativo, da parte dei piemontesi, di comprenderne almeno le motivazioni.

Di conseguenza, il governo sabaudo si trovò ben presto, nell’imbarazzante situazione di dover rispondere all’opinione pubblica europea che, inorridita dalle parziali notizie che iniziavano a trapelare, chiedeva lumi sui “molti perché” della repressione. Tanta ferocia lasciava presupporre una contrarietà e una strenua resistenza dei popoli che, definiti dai Savoia liberati dal giogo tirannico dei Borbone, dimostravano, invece, di non gradire affatto la sbandierata “liberazione”. La risposta dei piemontesi consisté nell’abile tentativo di svilire e negare le ragioni oggettive delle popolazioni meridionali, relegandole ad atti di puro brigantaggio.

Nel contempo, il governo tentò di coprire anche l’entità delle perdite militari che, vergognosamente, stavano subendo ad opera, come dicevano loro, di “quattro briganti”.

I conti, comunque non tornavano e il quadro che ne usciva fuori era quanto mai contraddittorio e poco lusinghiero per i piemontesi poiché: o erano veramente quattro i briganti, e allora l’esercito piemontese, palesemente incapace di tenere testa a costoro, era costituito da un insieme di rammolliti oppure, e la spiegazione diveniva la più credibile, occorreva ammettere che i cosiddetti “quattro” erano tutt’altro che quattro e, in aggiunta, potevano contare sul soccorso e il consenso di una intera popolazione. Nessuno, in breve tempo, credé più alla sbrigativa favola dei banditi, ed oggi lo storico inglese Denis Mack Smith non teme di affermare tranquillamente che: “il numero dei piemontesi che perirono in questa lotta fu superiore a quello di tutte le guerre d’indipendenza”. Il che la dice lunga sulla portata della rivolta e sull’impegno militare che, per stroncarla, ne aveva fatto seguito. Apparve chiaro, anche ai più ingenui, che essa non fu, come la voleva contrabbandare il governo piemontese, la necessaria repressione di volgari banditi di strada, ma una vera guerra di popolo che reclamava il diritto, è il caso di dire, proprio all’indipendenza.

Il governo, pressato da più parti, fu costretto a chiedere al Parlamento di istituire una “commissione d’indagine” che, dopo lunghe quanto fasulle, per l’appunto pseudo indagini, partorì la cosiddetta “relazione Massari”.

Di conseguenza, il governo sabaudo si trovò ben presto, nell’imbarazzante situazione di dover rispondere all’opinione pubblica europea che, inorridita dalle parziali notizie che iniziavano a trapelare, chiedeva lumi sui “molti perché” della repressione. Tanta ferocia lasciava presupporre una contrarietà e una strenua resistenza dei popoli che, definiti dai Savoia liberati dal giogo tirannico dei Borbone, dimostravano, invece, di non gradire affatto la sbandierata “liberazione”. La risposta dei piemontesi consisté nell’abile tentativo di svilire e negare le ragioni oggettive delle popolazioni meridionali, relegandole ad atti di puro brigantaggio.

Nel contempo, il governo tentò di coprire anche l’entità delle perdite militari che, vergognosamente, stavano subendo ad opera, come dicevano loro, di “quattro briganti”.

I conti, comunque non tornavano e il quadro che ne usciva fuori era quanto mai contraddittorio e poco lusinghiero per i piemontesi poiché: o erano veramente quattro i briganti, e allora l’esercito piemontese, palesemente incapace di tenere testa a costoro, era costituito da un insieme di rammolliti oppure, e la spiegazione diveniva la più credibile, occorreva ammettere che i cosiddetti “quattro” erano tutt’altro che quattro e, in aggiunta, potevano contare sul soccorso e il consenso di una intera popolazione. Nessuno, in breve tempo, credé più alla sbrigativa favola dei banditi, ed oggi lo storico inglese Denis Mack Smith non teme di affermare tranquillamente che: “il numero dei piemontesi che perirono in questa lotta fu superiore a quello di tutte le guerre d’indipendenza”. Il che la dice lunga sulla portata della rivolta e sull’impegno militare che, per stroncarla, ne aveva fatto seguito. Apparve chiaro, anche ai più ingenui, che essa non fu, come la voleva contrabbandare il governo piemontese, la necessaria repressione di volgari banditi di strada, ma una vera guerra di popolo che reclamava il diritto, è il caso di dire, proprio all’indipendenza.

Il governo, pressato da più parti, fu costretto a chiedere al Parlamento di istituire una “commissione d’indagine” che, dopo lunghe quanto fasulle, per l’appunto pseudo indagini, partorì la cosiddetta “relazione Massari”. La commissione istituita per accertare e far rispondere, agli eventuali colpevoli, degli efferati abusi commessi al Sud dalle truppe piemontesi fu anch’essa, come c’era da aspettarsi, abbondantemente manipolata e contraffatta. Chi mai avrebbe osato processare, per quei pezzenti del Sud, tanto per citarne qualcuno, i potenti, famosi, e loro sì autentici banditi, generali Cialdini e Pinelli?

Scritta e riscritta più volte, la famosa relazione, non poté, infine, negare del tutto l’evidenza e l’attendibilità, come da più parti denunciato, degli scempi commessi. Pertanto, dopo alcune sedute parlamentari e risposte imbarazzate dell’Onorevole Massari, il Parlamento invocò il “segreto di stato” e molte pagine della relazione conseguentemente furono segretate. (E purtroppo lo sono ancora oggi e, con esse, ugualmente segretate, vi sono circa altre centocinquantamila pagine, negate e rese, inspiegabilmente, inaccessibili a qualunque iniziativa d’indagine storica) Comunque, per quel poco che venne dato sapere, anche se stilata dal vincitore, i fatti che tra le righe emersero erano talmente efferati (fosse comuni e lager“ante diem” compresi) che non fu possibile nascondere compiutamente la verità ed ebbe ragione chi iniziò, molto prima dei tremendi fatti che interesseranno gli ebrei, a definire “olocausto” l’orribile sorte subita dalle popolazioni meridionali; un orrore che assale ancor oggi, sia pure a distanza di circa 150 anni. L’apice delle sofferenze fu raggiunto con l’applicazione della cosiddetta “Legge Pica” (dal nome dell’onorevole proponente), una legge speciale che, ipocritamente, si disse approvata per dare una concreta risposta alle richieste formulate dai ben-pensanti meridionali circa l’esigenza di stroncare la piaga del brigantaggio ma che, in effetti, mal celava il fine reale: stroncare a tutti i costi la disperata e coraggiosa reazione del Sud tramite un provvedimento legale che, però, di legale non conteneva assolutamente nulla. Per il numero delle vittime che la “bella legge” produsse in sovrappiù, i Savoia possono a pieno diritto, di fronte a Dio e agli uomini, “fregiarsi” del reato di “genocidio”.

Gli uomini ancora validi che riuscirono a sfuggire alla fucilazione prevista nell’infame legge, senza bisogno di prove o regolare processo, vinti dalla miseria e dalle vessazioni, furono deportati nel novarese, a Fenestrelle,( specie di lager ove solo da qualche anno è stata posta una lapide a ricordo di tanta sofferenza) o costretti ad emigrare.

Fu così che vennero bellamente dirottate le riserve auree e i restanti capitali del meridione verso il nord, risorse che furono adeguatamente impegnate per risolvere la miseria di quelle regioni, soprattutto nella pianura padana. In pratica, i Savoia, non potendo sedare la rivolta con le sole armi e le fucilazioni in massa di gente anche inerme, con queste ultime iniziative economiche ottennero di eliminare e prostrare definitivamente il “ribelle popolo”.

Morto, dunque, il pensiero e affamata la popolazione, ancora non paghi, escogitarono una specie di deportazione di massa che si divideva in due, per così dire, filoni: le deportazioni forzate in zone montane del Piemonte o plaghe desolate dell’America latina e, quando andava bene, il subdolo incoraggiamento ad un’emigrazione spontanea con libera scelta del paese straniero. Anche per quest’ultima brillante idea il guadagno era duplice poiché si toglievano di torno i restanti uomini validi e, inoltre, il regno poteva avvantaggiarsi delle rimesse fresche di denaro inviate, per l’appunto, dagli emigrati.

Il risultato di tutte le operazioni messe in atto fu un numero spaventoso di morti e, in particolare, l’eliminazione dell’ottanta per cento degli uomini validi del Sud: un vero e proprio genocidio. Non resta difficile comprendere come quello che era stato il regno più florido d’Europa, così ridotto e condannato nel fatale decennio (1860-1870) ad una miseria anche morale, non sarà più in grado (e non lo è in parte tuttora) di risollevarsi. E ciò anche dopo la caduta dei Savoia. Infatti, nemmeno lo stato repubblicano, nonostante i forti investimenti posti in essere attraverso la Cassa del Mezzogiorno (una cassa che al solito favorirà, ad onta del nome, più il Nord che il Sud) sarà capace di risarcire e alleviare i danni operati. Nessun sostanziale e definitivo recupero, occorre ammettere, è stato ancora possibile nel meridione anzi, questo Sud, così snaturato e avvilito per circa cento anni dai Savoia, non crederà più nello Stato e quando fingerà di farlo sarà solo per adagiarsi, ormai privo come è divenuto di reali iniziative, sull’assistenzialismo di governo: un’occasione d’oro per favorire, ovviamente, tangenti e malcostume.

In poche parole, al Sud, permane la muta vendetta di chi, tradito dalle istituzioni, ritiene, come pensarono con altro sistema i briganti, di doversi beffare di uno Stato che ancora non gli appartiene. E pertanto: autonoma licenza di derubarlo o, peggio, possibilità di procedere ad una giustizia di tipo personale. Questa distorta mentalità, con ogni evidenza, rappresenta il danno maggiore.

In conclusione senza procedere ad ulteriori, quanto troppo sbrigative, analisi o difficili giudizi storici, si può dire, a considerazione e parziale attenuante dei fatti, che esistono processi epocali impossibili da fermare. I Borbone avevano senz’altro, come casa regnante, esaurito la loro carica vitale e non fu d’aiuto, anzi la pagarono ad alto prezzo, la loro predilezione ad essere, da sempre, più attenti e vicini al popolino e come ovvio ai nobili, e molto poco al nuovo potere che, in età moderna, si andava affermando: la borghesia. Un errore che, nonostante i molti meriti, costò, all’antica casa regnante, il trono.

Dire che, comunque, il loro regno fosse “un paradiso di delizie” sarebbe non solo eccessivo ma non corrispondente ad una realtà storica, anche se le cifre, essendo anch’esse obiettive realtà storiche, ci raccontano che, agli inizi della presa di potere da parte di un Borbone – Carlo III – (1734), il meridione contava tre milioni e mezzo di abitanti e a metà Ottocento, con Ferdinando II, la popolazione era salita a circa nove milioni, con un tenore di vita che poteva definirsi, per quei tempi, abbastanza soddisfacente.

Con ogni evidenza il relativo benessere non poteva che essere ascritto ad una politica lungimirante e aperta al progresso di tipo industriale operata dai tanto bistrattati Borbone; una politica che fu capace di promuovere e portare il Regno delle Due Sicilie ad essere considerato il più ricco e progredito stato in Europa.

E per ottenere questo risultato occorreva che il benessere non fosse prerogativa di pochi singoli ma diffuso in tutti i ceti sociali. Infatti, il progresso mal si adatta e si coniuga con un popolo carico di disagi e oppresso; ciò non toglie la reale esistenza di una polizia particolarmente aggressiva e di carceri non propriamente definibili luoghi di “relax”. Esattamente come non lo erano le carceri di altri stati europei. La stessa Inghilterra che, per i motivi espansionistici già elencati all’inizio, risultava la più impegnata ad una sistematica politica di denigrazione del cosiddetto sistema repressivo borbonico, dimenticava di guardare al suo interno.

Infatti, sul suolo inglese prosperava il peggior sistema carcerario d’Europa. Notoriamente la storia è un susseguirsi di vicende che si ripetono e da secoli, essa, ci racconta che le grandi rivoluzioni epocali sono portate avanti da pochi elementi ricchi di ideali che vengono, però, immediatamente “confortati” se non scalzati da opportunisti allorché si profila la vittoria per una delle fazioni. Non a caso vien detto che l’esercito degli opportunisti è “l’esercito più nutrito del mondo”.

Anche l’unità d’Italia non fece eccezione a questa squallida regola e i veri liberali che perseguirono il disegno unitario, sia pure con molti disaccordi interni ma anche con rischio e sacrificio personale, furono pochi e soprattutto operanti, in massima parte, nelle grandi città. Nei centri minori e nelle campagne, invece, il popolino fu poco incline ad aderire alle proteste e altrettanto poco incline al concetto di unità portato avanti dagli intellettuali.

A dimostrazione di questo sentire fu la fine che, per moto spontaneo della gente del posto, venne riservata, il primo luglio 1857, nel Cilento (Sapri), al povero Pisacane ed ai suoi trecento compagni, massacrati barbaramente dagli abitanti della zona. Infatti, i poveretti, furono considerati, dai locali, estranei e brutali invasori delle loro terre. Questo episodio rende alla perfezione il dato inoppugnabile che i liberali del Sud, impegnati nella lotta di indipendenza (e debbono ancora spiegarci da cosa volevano essere indipendenti), furono pochi e vinsero nel 1860, pronubo Garibaldi, non solo perché i tempi in qualche modo erano maturi ma in massima parte, se non proprio del tutto, perché i fautori dell’unità poterono contare ed ebbero, in maniera determinante, l’apporto massiccio di tutti i fratelli massonici.

Ciò premesso rimane arduo ed azzardato dare un giudizio compiuto sulle scelte della massoneria, scelte che valide o meno non avevano di sicuro la volontà di distruggere un popolo. Il genocidio fu una operazione tutta Savoia, frutto di arroganza, mancanza di cultura e avidità economica, non disgiunta da un celato senso di inferiorità e di invidia verso l’allora progredito, in tutti i sensi, meridione.

La storia, comunque, non può arretrare ed oggi, qualunque sia la lettura autentica dei fatti, a nessuno è consentito negare quel valore, anche sacro, che è divenuto e costituisce l’unità nazionale. Ugualmente va ribadito che nulla deve e può giustificare il comportamento sciagurato degli esponenti della casa reale piemontese; una dissennatezza e una mancanza di apertura mentale che nemmeno l’intelligenza e le capacità umane delle donne della casa regnante riuscirono mai a mitigare. Essi, i maschi della casa, come nel loro stile, e fatta eccezione per il povero Umberto II – il re di maggio – (per carattere abbastanza somigliante al trisnonno Carlo Alberto), rimasero sempre chiusi e tetragoni ai consigli di chicchessia. Un aspetto caratteriale che li portò a non saper amministrare, in modo illuminato, la scelta fortunata caduta su di loro, ed essi furono pronti a scambiare un insieme di situazioni favorevoli per un’investitura divina di quel Dio al quale, tra l’altro, poco davano rispetto e credito. Volendo, potevano risparmiare molti lutti alla nazione italiana e, soprattutto, risparmiare le migliaia di vittime che, anche nelle fasi successive del loro regno, non mancarono di provocare, addebitando, per giunta, sempre ad altri il peso delle loro colpe.

Essi, infine e con particolare pervicacia, non abbandonarono mai la linea di asservire sistematicamente o eliminare tutte quelle genti o popoli che non conoscevano e non capivano. In questa logica vanno collocati gli eccidi, i massacri e le persecuzioni del sud, un insieme di azioni criminali che nulla, né un trono, né un concetto di patria potrà mai giustificare.

Sarebbe giusto che gli attuali Savoia, oltre che chiedere scusa agli ebrei per l’infelice firma apposta da Vittorio Emanuele III circa le discriminazioni razziali, ritenessero altrettanto utile e doveroso fare pubblica ammenda, verso il Sud dell’Italia, per il dolore che la loro dinastia ha provocato dissennatamente e falsamente in nome di una unità nazionale che poteva avvenire con ben altri sistemi. Per fare questo, però, occorrerebbe che, come prima cosa, conoscessero, compiutamente, la storia d’Italia.

In conclusione, a parte ragioni politiche, dinastiche e strategie espansionistiche di poteri internazionali, nonché interessi di Savoia o Borbone, la storia, come già detto, procede e non può tornare indietro. Ciò non toglie che una memoria ritrovata dell’immane sofferenza che questo processo unitario è costato ai popoli del meridione, oggi, renda a tutti gli italiani, più indiscutibile e sacro che mai, il concetto stesso di “unità nazionale”.

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