Le Pagine di Storia

 

Antonella Danna

La Questione Meridionale

Tesi di Maturità, Liceo Classico dell'I.I.S.S. "Francesco Crispi" di Ribera

Renato Guttuso, La Vucciria

Con l'espressione “Questione Meridionale” si definisce lo sproporzionato divario, nelle attività sociali ed economiche, nell’intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, tra le regioni settentrionali e quelle meridionali dell’Italia; tale divario ha dato luogo ad un ampio dibattito relativo alle cause del mancato sviluppo economico, sociale, culturale del Sud dopo l'Unità d'Italia.

Analizziamo di seguito, e più nel dettaglio, in cosa consiste il grande divario tra il Nord e il Sud dell'Italia e individuiamo le cause che lo hanno determinato, ricercando le "precise responsabilità" sullo stato di abbandono e di miseria del Sud e, in particolare, della Sicilia.

Da decenni, in Sicilia, l’immobilismo sociale aveva sostenuto l’esistenza di una classe parassitaria, quella dei baroni, che affittavano le loro terre senza farvi alcun investimento. In più, i Borbone, dopo le tendenze riformatrici dei primi anni, promosse da Ferdinando, avevano rinunciato a modernizzare il Paese; dal XIX sec., infatti, stavano maturando le condizioni per nuovi sviluppi produttivi: si pensi, fra tutte, a quelle inerenti agli investimenti in agricoltura da parte degli inglesi e alle industrie metallurgiche della famiglia Florio. Quanto alla cultura politica siciliana, essa si era plasmata sui movimenti italiani più influenti, quello mazziniano e quello liberale. Alle soglie dell’unificazione vi erano condizioni politiche, sociali ed economiche che facevano pensare a una realtà dinamica. A contribuire allo spirito unitario siciliano vi era non solo l’odio dei siciliani stessi verso i Borbone, i quali avevano reso il loro territorio una provincia di Napoli, ma anche l’anelito di poter riacquistare la propria autonomia [1]. Fu in questo contesto storico che gli eventi siciliani, come, ad esempio, la Rivolta della Gancia guidata da Francesco Riso, si fusero ai tentativi di esponenti come Mazzini e Cavour di unificare tutti i territori abitati da italiani, costituendo, pertanto, gli episodi cardine del Risorgimento italiano.

Il 5 maggio 1860 Giuseppe Garibaldi, con il supporto di Francesco Crispi, salpò da Quarto con mille “camicie rosse” e sbarcò a Marsala l’11 maggio. Arrivato in Sicilia Garibaldi si dichiarò dittatore in nome di Vittorio Emanuele II di Savoia. Con l’aiuto dei patriottici siciliani, detti “picciotti”, come Riso, Garibaldi riuscì a strappare all’esercito borbonico le città di Calatafimi, Alcamo ed infine Palermo. Nonostante il suo intento fosse esclusivamente militare, poiché mirava all’unificazione, Garibaldi dovette rimanere qualche mese in Sicilia, impegnandosi in un programma di riforme che verrà soltanto in minima parte realizzato. Esso prevedeva una rapida modernizzazione del Paese, con la realizzazione delle prime ferrovie, l’istituzione delle scuole, la nazionalizzazione e la distribuzione delle proprietà ecclesiastiche. In concreto, Garibaldi, ad Alcamo, per ottenere l’appoggio delle masse, aveva abolito la tassa sul macinato e distribuito incarichi ai nobili, poiché non poteva prendere decisioni che impegnassero il governo piemontese. Dopo aver strappato l’ultima città siciliana, Messina, ai Borbone, Garibaldi risalì la penisola, attraversando quasi tutte le regioni meridionali e conquistandole. La sua azione si risolse con l’incontro di Teano del 26 ottobre 1860, durante il quale cedette le terre occupate a Vittorio Emanuele II e con il quale finisce simbolicamente la spedizione dei Mille. Con il plebiscito del 21 ottobre 1860, quasi il 75% dei siciliani votò per l’annessione al Piemonte, speranzoso che il nuovo governo avrebbe cambiato radicalmente le condizioni di vita. Ma come disse Massimo D’Azeglio all’indomani dell’Unità: "Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani" [2]. La nuova Italia, infatti, era costituita da popolazioni eterogenee sotto il profilo economico, sociale e culturale.

Non considerando questo aspetto, Cavour, protagonista del decennio precedente al 1860 e capo del governo nel 1852, per timore di insurrezioni popolari e di un intervento degli eserciti amici dei Borbone, aveva esteso a tutto il territorio la legislazione del Regno Sabauda che prevedeva la leva obbligatoria, la tassa sul macinato e gli addizionali.

I governi successivi, scartando l'ipotesi federalista o regionalista, optarono per un forte accentramento, con ripartizioni amministrative rette da un prefetto, in quella che venne definita “Piemontizzazione”. I prefetti che venivano assegnati ai diversi territori erano per lo più piemontesi e questo si risolveva in incomprensioni con la popolazione. Furono trascurate dallo stesso Cavour e dal governo centrale l’autonomia e le leggi speciali che la Sicilia possedeva sotto i Borbone e che ora aspirava a mantenere. Già con Garibaldi erano nati in Sicilia malcontenti diffusi circa la repressione di Bronte; ancora più accentuati divennero all’indomani dell’Unità, con l’affermazione del fenomeno del “Brigantaggio”. Tale forma di banditismo si esprime in azioni di rivolta da parte del proletariato rurale e di ex militari borbonici, spinti da diverse problematiche sociali ed economiche.

Giustino Fortunato, personalità storica e politica rilevante e uno dei rappresentati più importanti del Meridionalismo, riteneva che il brigantaggio fosse espressione della miseria in cui versava il sud e che per eliminarlo era necessario evitare l’isolamento del meridione e attuare un’azione politica volta al suo sviluppo con la costruzione di una rete ferrovia, stradale e infrastrutturale, con la promozione dell’attività industriale. Al riguardo i contadini e i braccianti si resero conto dell’impossibilità di realizzazione di una tale forma di sviluppo, ma anche di una riforma agraria, fondamentale per il loro sostentamento in quanto in Sicilia il settore più sviluppato era quello agricolo, e, quindi, della distribuzione delle terre della Chiesa; anzi si videro gravati da nuovi carichi fiscali per loro insostenibili e da una politica economica nettamente svantaggiosa. Inoltre la leva obbligatoria, che aveva determinato una riduzione sensibile della manodopera, e il confluire delle ricchezze dello stato dei Borbone nelle casse dello stato contribuirono a un ulteriore impoverimento della Sicilia, in quanto esse furono reinvestite soprattutto nell’industria e nelle infrastrutture del Nord. Ad alimentare le rivolte popolari dei briganti e ad aumentare il malcontento incise la politica liberista del nuovo Stato, che ostacolò la produzione locale a vantaggio delle grandi imprese nordiche. Un esempio di questa “disattenzione” del governo sabauda verso il Meridione può essere costituito dal mancato finanziamento di 80 milioni di lire ai Florio per la costruzione di un cantiere navale a Palermo, a fronte, invece, dei 150 milioni di lire ceduti alle industrie del Nord per le ferrovie.

Con l’Unità, non furono posti sotto un unico Stato popoli eterogenei per tradizioni, cultura e mentalità, ma vennero “nazionalizzate” le diverse condizioni economiche dei singoli territori.

Di fronte ad un Nord dal ceto borghese pieno di iniziative e volto agli investimenti capitalistici e ad un Sud in cui emergevano un sistema agricolo primitivo e semi-feudale e timidi elementi di un qualche processo di avviamento all'industrializzazione, la politica fiscale adottata dal nuovo governo non fu omogenea, in quanto il primo venne avvantaggiato e il secondo ulteriormente impoverito. Essa “faceva sì che l’Italia settentrionale, la quale possedeva il 48% della ricchezza del paese, pagava meno del 40% del carico tributario, mentre l’Italia meridionale, con il 27% della ricchezza, pagava il 32%” [3].

Un elemento alquanto insolito è che all’indomani dell’unificazione il Regno delle Due Sicilie non aveva debiti, al contrario del Regno Sabauda. Il primo seguì una politica del tutto opposta a quella del secondo, forse meno redditizia ma sicuramente più economica. Grazie all’opera La Scienza delle Finanze di Francesco Saverio Nitti e all’economista Giacomo Savarese, sappiamo che (...) "Il Regno delle Due Sicilie possedeva due volte più’ monete di tutti gli altri stati della penisola uniti assieme" [4]. Le monete degli stati pre-unitari al momento dell’annessione ammontavano a 670 milioni di lire, di cui solo 445.2 al regno dei Borbone, mentre i restanti 225 erano ripartiti tra il Regno di Sardegna, Lombardia, Ducato di Modena, Parma e Piacenza, Roma, Romagna. Addirittura la Borsa di Parigi, la più grande del mondo, quotava la rendita del Regno dei Borbone al 120%, la quota più alta di tutta l’Europa. Dagli studi condotti da Nitti e Savarese è emerso che tra il 1848 e il 1859 vi furono delle enormi differenze circa la politica economica adotta da questi due Regni: mentre il Regno delle Due Sicilie non vendette beni demaniali per fronteggiare i debiti, non impose alcuna nuova tassa, ebbe un debito pubblico di 411 milioni; il Regno dei Savoia impose circa venti nuove tasse, vendette cinque beni demaniali per un valore di 15 miliardi di lire ed ebbe un debito pubblico di un miliardo di lire. Lo stesso Nitti scrisse: (...) "Senza togliere nessuno dei grandi meriti che il Piemonte ebbe di fronte all'unità italiana, che è stata in grandissima parte opera sua, bisogna del pari riconoscere che senza l'unificazione dei varii Stati, il regno di Sardegna per lo abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento" [5].

È pure vero che se il Nord si presentava più progredito economicamente, socialmente e culturalmente rispetto al Sud, è altrettanto vero che quest’ultimo, da studi economici approfonditi, possedeva un sistema economico più stabile e quindi si trovava in condizioni economiche non effimere.

Cavour era consapevole della situazione economica in cui versava il Piemonte, poiché Torino aveva disperato bisogno di liquidi per pagare le indennità finanziarie (Armistizio di Vignale,1849), imposte dagli austriaci dopo la sconfitta nella Prima guerra di Indipendenza. Per questo decise di stipulare, nel caso in cui gli austriaci avessero attaccato, un accordo difensivo con la Francia (Trattato di Plombières, 1858), il quale prevedeva di rendere l’Italia una confederazione, dividendola in quattro aree, compreso il Regno delle Due Sicilie, dal quale sarebbero stati cacciati i Borbone. E' proprio questo momento la premessa alla spedizione dei Mille e all’Unità.

Quindi, sostanzialmente, Cavour promosse “implicitamente” l’Unità, soltanto per rimpinguare le casse dell'ormai “povero” Regno Sabaudo [6].

E le soluzioni che furono proposte dal neo stato italiano gravarono non solo sull’agricoltura siciliana, ma anche sull’industria. Il baricentro degli affari, infatti, si spostò in pochi anni dal Sud al Nord, in seguito all’investimento dei capitali statali per lo sviluppo delle aree industriali del Nord. Le fabbriche dell’ex Regno delle Due Sicilie vennero vendute, con metodi non molto chiari, a privati, al fine di ottenere ulteriori somme liquide.

Il modo rapido con cui si era precipitati all'unità non aveva, dunque, concesso di affrontare in itinere i problemi dell'accostamento e della compenetrazione di società, culture, economie a un differente grado di sviluppo: l'Italia nasceva, infatti, come aggregazione di "pezzi", di stati regionali, senza avere alle spalle un lungo processo di costruzione dello stato-nazione. E la prima delle linee di frattura che l'Italia ereditò fu proprio quella fra il nord e il sud del paese, che prima ancora che nel divario di sviluppo economico e sociale - con la cosiddetta questione meridionale, cioè -, si manifestò sul piano culturale e politico. Alla luce di ciò, lo studioso Paolo Macry ha notato che fu proprio in quegli anni che presso le classi dirigenti liberali e l'opinione pubblica settentrionale fu costruito e diffuso uno stereotipo che avrebbe caratterizzato a lungo l'identità nazionale, quello del sud come "male" italiano [7]. Lo stereotipo di un sud "barbaro", estraneo, anzi ostile, all'Unità nazionale non poté che enfatizzarsi con l'esplodere del brigantaggio, quando la scelta della più dura repressione militare parve al governo e all'opinione pubblica l'unica via per stroncare un conflitto del quale non si comprendevano le ragioni sociali. In più, ad una più lucida analisi, si può affermare che la miscela fra l'incomprensione culturale profonda del sud e dei suoi problemi e l'autoritarismo politico determinò l'"assenza" dello stato nazionale nelle regioni meridionali, da cui trasse alimento l'insediarsi di veri e propri "contropoteri", quali le organizzazioni mafiose [8].

Dal 1861 al 1876 l'Italia fu governata da esponenti della Destra Storica; dal 1875 al 1896 al governo salì la Sinistra Storica.

Quest'ultima, al contrario di una Destra di proprietari terrieri e di aristocratici interessati a difendere lo status sociale e il patrimonio, era costituita da professionisti che manifestavano una maggiore sensibilità verso la crisi del Meridione e il progresso. A tal proposito, la Sinistra di Depretis attuò una politica protezionistica atta a limitare le importazioni e a favorire il commercio interno, abolendo la tassa sul macinato e investendo sullo sviluppo industriale del paese. La Sinistra si mostrò più attenta alla mediazione tra Stato e società civile sia sul versante della politica economica, sia sul versante della politica sociale. Nonostante ciò, la guerra doganale con la Francia condotta da Crispi ebbe conseguenze devastanti in agricoltura per la Sicilia e il Meridione, favorendo, al contrario, l’industria del Nord. Inoltre Depretis aveva avviato l’iniziativa di una serie di inchieste per cercare di comprendere le vere condizioni in cui versava il popolo italiano, come la famosa inchiesta Franchetti- Sonnino o quella di Jacini. Tali inchieste svelarono le difficili condizioni in cui vivevano le popolazioni del sud, ponendo in evidenza le condizioni in cui lavoravano i "carusi", giovani costretti a lavorare duramente nelle miniere di zolfo, il fenomeno dell’emigrazione, che portò milioni di Siciliani a lasciare la propria terra e a trasferirsi nel Nord o nelle Americhe, l’analfabetismo diffuso tra i contadini, che evidenzia la carenza di istituzioni scolastiche e la mancata volontà del governo di rimediarvi.

Pertanto, e in definitiva, pur considerando quei tentativi di superamento di tale situazione, riteniamo che poco e nulla è stato fatto: se, da un lato, l'avvenuto processo unitario non ha fatto altro che aggravare le condizioni preesistenti di regressione e arretramento socio-economici, con l'incuria da parte del neo Stato, che non ha assolto quei compiti di risanamento a cui era stato demandato, dall'altro, bisogna anche riflettere sulla serie di scogli insuperabili ed endemici del Sud e, nel nostro caso, della Sicilia, come la presenza di una mentalità clientelare, legata agli interessi della borghesia terriera e alla classe baronale, l'omertà, la paura della mafia, l'ignoranza, in una spirale intrecciata e continua di cause e conseguenze, confluenti le une nelle altre, in cui, per l'appunto, risulta, a volte, poco o per niente possibile individuare il confine tra le prime e le seconde.

Da quanto detto, abbiamo potuto evincere come l'analisi delle condizioni economiche del Sud non era soltanto indispensabile per comprendere le differenze rispetto al Nord e la politica inerte del nuovo regno, incapace di superare tale impasse, ma era soprattutto necessaria per far capire agli italiani, e alle personalità influenti, che la “Questione Meridionale” era innanzitutto una questione umanitaria e sociale. Questo lo hanno intuito intellettuali e uomini di cultura come, ad esempio, Luigi Pirandello e Giovanni Verga.


Note

[1] G. Tommasi di Lampedusa ne Il Gattopardo scrive: (...) "Qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse com'era prima", cfr., G.Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, 1988, p.

[2] Alcuni attribuiscono questa espressione a Ferdinando Martini, uomo di spicco nella politica italiana per quasi sessanta anni.

[3] G. Bedeschi, La fabbrica delle ideologie, Roma-Bari 2002, p.

[4] Cfr. F.S. Nitti, La Scienza delle Finanze, Roma-Bari, 1972, p.

[5] Cfr. F.S. Nitti, La Scienza delle Finanze, cit., p.

[6] Festeggiati i centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, il conflitto tra Nord e Sud, fomentato da forze politiche che lo utilizzano spesso come una leva per catturare voti, pare aver superato il livello di guardia. Pino Aprile, pugliese doc, interviene con grande verve polemica in un dibattito dai toni sempre più accesi, per fare il punto su una situazione che si trascina da anni, ma che di recente sembra essersi radicata in uno scontro di difficile composizione. Percorrendo la storia di quella che per alcuni è conquista, per altri liberazione, l’autore porta alla luce una serie di fatti che, nella retorica dell’unificazione, sono stati volutamente rimossi e che aprono una nuova, interessante, a volte sconvolgente finestra sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Cfr. P. Aprile, Terroni, Milano, 2011, pp. 230-236.

[7] Cfr. P. Macry, Se l'unità crea divisione. Immagini del Mezzogiorno nel discorso politico nazionale, in: L. Di Nucci e E. Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea, Bologna, 2003, pp.122-124, e Unità a Mezzogiorno. Come l'Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, 2012, pp.95-99.

[8] P. Aprile, Terroni, cit., pp. 183-187.

Antonella Danna ha ottenuto il voto 100/100 all'esame di maturità. Pubblicazione Internet de Il Portale del Sud, luglio 2013

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