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Gruppo ’63 e Antigruppo

di Vittorio Riera

Ilapalma 2012

1971: Neoavanguardie a Palermo

recensione di Lucio Zinna

Vittorio Riera raccoglie in un fine quaderno due interviste, a Pietro Terminelli e a Salvatore Di Marco, apparse il 18 e il 25 maggio del 1971 sulla terza pagina del settimanale “Trapani Nuova” (allora curata da Nat Scammacca): due autori facenti parte, il primo dell’Antigruppo, il secondo della rivista letteraria “Fasis” attorno alla quale si raccoglievano alcuni esponenti del Gruppo 63 palermitano. I due gruppi, di formazione marxista, erano su posizioni contrapposte.

Opportuna appare l’idea di Riera di ripubblicare questi testi, in quanto documenti, benché parziali, di quel convulso periodo. Utile rileggerli, se non altro per confermare quel che nella nostra memoria si era andato, in questi decenni, stratificando, in relazione a quella temperie. Lucide e gustose le pagine del prefatore, Nicola Lo Bianco, un po’ divertito un po’ coinvolto nel suo assistere alla diatriba attraverso lo schermo degli anni trascorsi, più o meno alla stregua dell’intervistatore (“sornianamente coinvolto”, dice Lo Bianco), con le sue sollecitanti domande, sottilmente e vanamente desiderose di un ‘incontro’.

Lo Bianco sintetizza egregiamente il clima di allora con i termini “passione e ideologia”; al di fuori di tale ottica non sarebbe possibile, oggi, comprendere i termini delle questioni allora dibattute. Non potrebbero comprendersi, ad es., la ferrea convinzione di Terminelli – che traspare dalla maggior parte della sua produzione letteraria – di un’imminente, ineludibile rivoluzione comunista in Italia, né la sua difesa a denti stretti di un’ortodossia marxista, con bordate degne di alcuni storici inquisitori della Controriforma. Da qui il polemico trasferimento di tali posizioni sul piano estetico. Tipica di Terminelli fu la tendenza ad affermare sotterraneamente il principio secondo cui uno scrittore più vicino all’ideologia marxista avesse maggior diritto a considerarsi scrittore. Il marxismo nella sua radicalità si poneva per lui come unico termometro dell’arte, con aspri giudizi nei confronti di chiunque egli ritenesse fuori da tali parametri.

E sarebbe stato vano obiettare che l’arte, per sua natura, procede per la propria strada, sbircia le ideologie solo se e in quanto contribuiscano a farla essere arte, in caso contrario privilegia i propri parametri e non valuta un baiocco ideologie politiche o teorie estetiche, seppure mirabolanti, in quanto le une e le altre, da sole, ovvero senza la genialità dell’artista, non fanno, appunto, arte. Ma in quel torno l’arte, da alcuni, veniva data per spacciata, ne era considerato obsoleto lo stesso concetto. Gli autori de “la scuola di Palermo” (Roberto Di Marco, fratello di Salvatore, Michele Perriera, Gaetano Testa) erano, ad es., secondo Terminelli, da scartare, assieme agli scrittori del Gruppo 63, in quanto, « le loro opere mancano di questa ideologia ». Insomma, non erano neanche eretici del marxismo, erano fuori (Sanguineti compreso). Afferma altresì che essi « intersecano forme di squilibri freudiani » (?) in compromesso con «strati dei politici della sinistra parlamentare». E dato che questa sinistra era “parlamentare”, implicava che essi non fossero sufficientemente né rivoluzionari né comunisti, dunque non considerabili come scrittori. Un perfetto serpente mordicoda.

Conferma ancora, il documento, la tendenza di Terminelli a certi “contorsionismi espressivi” (icastica espressione, che mutuiamo da Lo Bianco), mimetizzati da una profluvie verbale. Esempio: «arrancando [parla degli autori de “La scuola di Palermo”] dietro esperimenti americani trasmessi per metempsicosi nell’ipnosi della vita esemplare della sregolatezza», con riferimento esplicito a Sulla strada di Kerouac. Cosa è una trasmissione per “metempsicosi”? E “l’ipnosi della vita esemplare della sregolatezza”? E la “metempsicosi nell’ipnosi”? Si riesce a comprendere cosa voglia dire, ma – vivaddio – che confusione!

Non era neanche vero che i maggiori esponenti del Gruppo (« i giganti della neoavanguardia del Gruppo 63 », quelli di Palermo erano i nani), si fossero “serviti” dei poeti e scrittori della beat generation americana (sono citati, oltre Kerouac, Ferlinghetti e Borroughs), dato che la neoavanguardia italiana tendeva al neoformalismo, con ripudio del “messaggio”, compreso quello politico, mentre la neoavanguardia americana puntava sul messaggio, a principiare da quello politico. In quel contesto, furono a Palermo i giovani del Gruppo Beta (1965-1971), che interagì dialetticamente, non pedissequamente, con il Gruppo 63, a stigmatizzare, prima dell’Antigruppo, l’avventatezza di una sperimentazione tutta pencolante sulla forma; fu questo Gruppo satellite, che considerava la letteratura una “operazione sull’uomo”, a sentirsi vicino alla beat generation, in quanto espressione di una ricerca poetica in cui non si verificasse uno iato tra significato e significante.

Ma torniamo al linguaggio terminelliano. Citiamo, sempre a proposito degli esponenti del Gruppo 63: «I tempi lunghi (del piazzamento delle loro opere) sono stati frustrati, svirilizzati e accorciati dalla barella del dimenticatoio.» Bene la metafora: nel dimenticatoio si è come in barella: né sul campo né in ospedale, in transito tra l’uno e l’altro e anche tra vita e morte. Resta da considerare come potessero quei “tempi” essere “accorciati” da una barella. E ancora: « Ritardata consequenzialmente è la nuova formazione epigona (di vecchi e giovani), un continuo-discontinuo dalle orecchie otturate al mondo circostante, liete di potersi impinguire di un ozio tardo-romantico di estrazione novecentesca con un io esasperato proprio per la natura fuorviante e obbediente agli “ideali di falsa coscienza”.» Magnifiche davvero queste “orecchie (otturate) liete di potersi impinguire” (di un “ozio tardo-romantico” etc.)!

Orientato anch’esso su posizioni polemiche, appare più equilibrato il discorso di Di Marco, il quale aveva sostenuto, in linea con il Gruppo 63, la concezione di uno scrittore « al di là dell’impegno e del disimpegno » e da qui prende le mosse Riera nella sua intervista. Di Marco precisa in che senso: «Quando io dico che lo scrittore deve oggi collocarsi – almeno come disposizione mentale – al di là dell’impegno e del disimpegno, penso in realtà di affermare una cosa semplice e cioè che lo scrittore debba sentirsi impegnato a guadagnare e a difendere quella sfera di autonomia della intelligenza, della immaginazione, del gusto o, se vuoi, della coscienza, senza di che mi pare impossibile che egli possa realizzarsi e come scrittore e come uomo.» Una posizione non intransigente, sulla quale non sarebbe stato difficile convenire, ma che era rifiutata secondo una logica conflittuale. E infatti Di Marco parava il colpo, come si suol dire: «[…] mi pare assai sciocco il discorso di chi distingue libertà che vengono prima da libertà che vengono dopo, separate le libertà collettive da quelle individuali, le libertà sociali da quelle professionali. Io ho sempre pensato che la libertà è tale proprio perché, nel suo farsi, non tollera discriminazioni del genere.»

Appare evidente, nel corso dell’intervista, che Di Marco ambisse l’approdo a un superamento (egli che si era, fino a pochi anni prima, seriamente impegnato, a livello internazionale, su una possibilità di dialogo tra cattolici e marxisti, ricercandone i punti di contatto), ma avvertiva anche che tale logica risultava impraticabile dall’altro lato della barricata e ne rimaneva come interiormente irritato, lasciandosi lambire dal fuoco della conflittualità. Non esitava, in quel contesto, e secondo il gioco al massacro praticato a livello nazionale, a considerare lo scrittore e la letteratura quali «istituzioni malate di un mondo borghese e conservatore già in disfacimento».

Un fuoco sacro parimenti alimentato, con diversi tizzoni. Alimentarlo significava spegnere ogni altro focolaio. Ci riferiamo alla tendenza a sminuire l’immagine di prestigiose figure del mondo letterario, uno sport nazionale all’interno di tutte le neoavanguardie. Se ne trova traccia anche in queste due interviste. Terminelli accenna a «anchilosati ripristini dei soliti autori esauriti come il recente Montale delle Sature», Di Marco parla delle «cadaveriche presenze dei Moravia o dei Pasolini», mentre la letteratura siciliana tocca, con Sciascia, «il suo più doloroso momento agonico». Insomma, tutti cadaveri ambulanti, espressioni, per l’appunto, di un mondo borghese in disfacimento.

Nessuno immaginava, allora, che tra questo mondo borghese in disfacimento e quello sovietico, sole dell’avvenire, robustoso e forte, polo di attrazione di tutti i marxisti rivoluzionari, dovesse essere, da lì a pochi decenni, proprio il secondo a sfaldarsi. Nessuno avrebbe potuto preconizzare che tra il ‘modello’ capitalistico, con le sue gravi discrasie e le profonde ingiustizie su cui si reggeva e si regge, e quello collettivistico, con le sue non meno gravi e diverse discrasie, con altre sue ingiustizie divenute storiche, dovesse essere proprio quest’ultimo ad ammainare bandiera, la “bandiera rossa che trionferà” cantata da milioni di lavoratori nel mondo. Ammainata proprio sulle mura del Cremlino, nella Piazza Rossa in cui sorge il mausoleo che conserva le spoglie di Lenin, imbalsamate come la sua rivoluzione. Un regime che si era abbaffato su se stesso «come un corpo marcio di scorbuto», espressione usata da Ippolito Nievo a proposito dell’ingloriosa fine della Serenissima Repubblica di Venezia minacciata dalle armate napoleoniche, ma qui, addirittura, senza nessuna armata che battesse alle porte. Inimmaginabile lo sgretolamento del muro di Berlino come uno scenario cinematografico in polistirolo espanso.

Altri tempi davvero. Perciò quei due documenti appaiono datati, come se fossero trascorsi non quaranta ma quattrocento anni. I nostri tempi non sono migliori. Non sono migliorati senza la deterrenza comunista (che frenava, a tutela dei più deboli, l’arroganza capitalistica), né con il transito dal capitalismo al neocapitalismo, in cui le leggi del mercato valgono più della dignità del lavoro e della persona, con il prepotere di una finanza aggressiva e spericolata (che qualcuno, spudoratamente, chiama creativa!), che cerca di contendere il primato alla politica, che nel Bel Paese va facendosi, a sua volta, sempre più arruffona e onnivora. Una finanza, ancora, che persegue la logica, portata agli estremi, del pesce grosso che mangia il pesce meno grosso e tutti e due, nelle more, mangiano i pesci piccoli, protesa a smantellare lo stato sociale, con lo stesso Stato che finge di ignorare che se non è sociale non ha molta ragione d’essere. Non sono migliorati, i nostri tempi, con altri insospettabili fascismi, con estremismi impensabili, con il medievale rinfocolarsi di intransigenze religiose, e così via.

E con una letteratura che rischia di ridursi ai margini, in buona parte soggetta alle esigenze di mercato, fatta per lo più di poeti equilibristi e narratori di intrattenimento che mimano grandezze inesistenti e tutti, anche i critici, fingono di non accorgersene, come nella fiaba del Re Nudo.

Lucio Zinna


Vittorio Riera, Gruppo 63 e Antigruppo. Un frammento di memoria rivoluzionaria, ILA Palma, Palermo, 2012, pp. 24, s.i.p.

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