Sud Illustre

 

Padre Roberto da Eboli

di Mariano Pastore

Roberto Novella da Eboli nell'assedio di Malta del 1565. Olio su tela (cm. 133 x 100), Esprit Barthet (1919-1999), conservato nel Museo dei Padri Cappuccini di Floriana (Malta). mapa39.

 

Questa biografia si limita alle notizie reperite nelle pubblicazioni: “I Frati Minori Cappuccini nella Lucania e nel Salernitano di Padre Mariano da Calitri del 1940, nell’indagine storica di Francesco Azzopardi contenuta in “Collectania Francescana” del 1965, ne “L’Impegno Pastorale e Missionario: Roberto Novella da Eboli ed infine da estratti che ho fotocopiato nell’Archivio di Stato di Milano da un Tomo di Giacomo Bosio [1] dove sono citate notevoli notizie del suo impegno pastorale oltre alla descrizione del personaggio dal punto di vista caratteriale ed all’eroico comportamento che Roberto da Eboli dimostrò nella gloriosa campagna di Malta del 1565. L’ordine dei Frati Minori Cappuccini nacque nei primi decenni del “Cinquecento”, come riforma della grande famiglia francescana, con la bolla “Religiosis Zelus” emanata nel 1528 da ClementeVII. Aveva come motivazione l’osservanza della regola di San Francesco, la povertà, la preghiera, l’austerità di vita, l’assistenza e l’apostolato itinerante e popolare, l’amore per la natura e per gli uomini. In poco tempo stese le sue radici su tutto il territorio nazionale sebbene ad Eboli l’Ordine fu fondato nel 1558, molti ebolitani ne facevano già parte, e, tra questi, Roberto Novella che vi entrò intorno agli anni 1530-35 e, presumibilmente, fece il suo tirocinio religioso nel convento potentino di Sant’Antonio la Macchia, prima casa per novizi aperta dai cappuccini in Lucania subito dopo la riforma. Per la città di Eboli, che gli diede i natali, è tutt’oggi ancora uno sconosciuto ed ancor più sorprende, che negli archivi monastici provinciali non sia neppure menzionato, come se non fosse mai esistito, forse tutto ciò si può spiegare perché trascorse la sua vita lontano dalla sua terra, prima nelle perenni peregrinazioni di apostolato, in seguito la prigionia in Libia, poi il comando nella difesa durante l’assedio turco di Malta ed in ultimo le persecuzioni che ebbe a subire dai biechi pregiudizi di una “inquisizione” pronta ad ascoltare calunnie e menzogne da delatori improvvisati.

Non si sa con esattezza la sua data di nascita, dalle affermazioni di Padre Mariano da Calitri apprendiamo che nacque presumibilmente tra il 1510 e il 1520, perché quando si trovò a capeggiare i difensori dell’isola a Malta contro i mussulmani era il 1565 e non superava i cinquant’anni. Apparteneva alla nobile famiglia Novella che dimorava ad Eboli in via Atrizzi nello stabile cinquecentesco che attualmente, è ancora esistente avendo subito lievi danni nel corso dei secoli successivi. Da una sua lettera spedita il 15 novembre 1580 e diretta al duca di Mantova Guglielmo Gonzaga, sappiamo che era ritornato ad Eboli e con lui si trovavano la mamma, una sorella ed un fratello di nome Lucio. Il Bosio lo descrive “dotato di una grande personalità, con una mente vigorosa accoppiata ad una intelligenza superiore alla norma con un’eccellente preparazione biblica e teologica da farne un ricercato oratore. Di carattere tenace, battagliero, ingenuo, impulsivo con scatti improvvisi che spesso rasentavano l’imprudenza, difensore dei deboli e degli oppressi, sempre pronto a far valere i suoi sani principi e questo suo agire gli procurò una folta schiera di nemici e tanti guai; in un periodo della sua vita si trovò tra gli animatori che volevano la riforma della Chiesa tanto che subì persecuzioni per poi essere ritenuto martire del libero pensiero e vittima dell’Inquisizione”.

Nel girovagare per predicare il Vangelo tra la gente arrivò nel 1553 a San Vito lo Capo, paese siciliano del trapanese e, mentre si trovava su una spiaggia per il suo impegno pastorale, si verificò l’incursione piratesca del nipote del corsaro Dragut. In quel tempo le scorrerie dei pirati islamici erano all’ordine del giorno nel Mediterraneo e specialmente lungo le coste “joniche e tirreniche”, padre Roberto fu catturato insieme ad altri e portato schiavo a Tripoli dove subì le durissime condizioni carcerarie che i mussulmani infliggevano agli “infedeli predicatori del Vangelo”, egli solo con la sua fede ed il suo fascino carismatico seppe diventare la speranza ed il punto di riferimento di tutti i prigionieri che lo elessero portavoce e promossero una raccolta di danaro per chiederne il riscatto e restituirgli la libertà.

Era la fine del 1564, aveva passato ben dodici anni nelle carceri libiche, con mezzi di fortuna raggiunse la vicina Malta nei primi mesi dell’anno 1565 dove venne accolto dal Gran Maestro Giovanni de La Valette, governante dell’isola.

Un manoscritto conservato a Malta, dice: “Questo Venerabile Religioso (…) essendo stato schiavo in Tripoli di Barberia, non senza speciale divina provvidenza, liberato dalla potestà di quei barberi, ed avuta notizia dell’orribile Assedio di Malta, si ha procurato l’imbarco addirittura per Malta, ove era giunto poco tempo avanti della venuta dei Turchi”.

Fra Roberto seppe in breve tempo guadagnarsi l’ammirazione e la stima dei Cavalieri dell’Ordine di Malta e, con l’aiuto del vescovo Domenico Cubelles, ebbe il permesso di soggiornare sull’isola anche perché aveva informato i Cavalieri che i turchi stavano preparando un assalto per conquistare l’isola, notizia certa avuta durante la sua prigionia. In poco tempo fra Roberto seppe organizzare la popolazione isolana per non trovarsi impreparata nel momento dell’assedio, infatti, martedì 22 maggio 1565, l’orda ottomana si presentò pronta allo sbarco. Il Bosio dice: “Dopo una processione propiziatoria riunita la popolazione fece una dotta ed eloquente predica, mostrando la gran forza e virtù dell’orazione e massimamente di quella delle Quarant’hore fatta dinanzi al Santissimo Sacramento dell’altare con la quale mosse a sì gran fervore e devozione gli animi di tutti che in quella mattina istessa se le diede principio”.

Intanto, la flotta mussulmana, portato a termine lo sbarco di uomini ed armi di ogni genere, saggiò subito con le numerose batterie il cannonéggiamento della piazzaforte di Sant’Elmo situata sul promontorio ove oggi sorge la città di La Valletta. I colpi dei cannoni e l’assalto dei pirati, ben presto ridussero la fortezza ad un cumulo di macerie, costringendo lo sparuto gruppo difensivo ad abbandonare quel caposaldo ritirandosi nel Borgo per preparare una difesa migliore. Ritornarono a Sant’Elmo il 9 giugno del 1565 accompagnati da Melchiorre Montserrat e da fra Roberto il quale, apprendiamo dal Bosio: “… per ergere, confermare e ricreare gli animi di detti cavalieri con qualche consolatione spirituale fece loro un sì devoto, efficace e accomodato sermone, mostrando quanto vana, transitoria e di miserie sia questa vita humana, e quanto aventurata, degna e gloriosa cosa sia il finirla in servigio di Dio e il morire per Christo e per difesa della sua Santa Fede(…). Tutti, dopo che devotamente si furono confessati e comunicati- è sempre il Bosio che racconta- pareva che nulla più questa vita non stimassero, e che di venir alle mani con gl’infedeli ogn’hora mill’anni gli paresse. (…) E perché già più non si potevan congregar ad udire sermoni per havere continuamente i nemici alla punta delle picche loro in ogni parte della fronte, gli andò il devoto e buon frate con un crocefisso in mano che gli dava devotamente a basciare, tutti visitando e confortando nelle proprie poste, dove era necessario che se ne stessero in ginocchioni non potendosi alzar in piedi se non quando i nemici assaltando facevano impeto per entrare”. Dopo parecchie settimane d’assedio, il 23 giugno l’avamposto cadde in mano turca, gli assediati si ritirarono a difesa del Borgo, dove rinserrarono le fila nel forte di San Michele per rintuzzare l’attacco ottomano che giunse il 15 luglio e l’orda islamica subì gravi perdite senza riuscire ad aver ragione della strenua difesa degli assediati. Dietro le barricate, fra Roberto con il suo inseparabile crocefisso incitava i combattenti, sempre presente nei posti più pericolosi e dove più c’era bisogno: tra i difensori delle mura, tra i feriti dell’infermeria dell’Ordine al Borgo, condividendo tutti i pericoli della cruenta battaglia, tanto che in uno dei sanguinosi scontri rimase ferito e ne è rimasta testimonianza scritta da Francesco Balbi da Correggio. [2]

Il 29 agosto fra Roberto al cospetto del Gran Maestro e dei Cavalieri dell’Ordine disse di aver avuto una visione durante le orazioni e di aver sentito una voce che lo assicurava “che l’ira di Dio se era placata dietro l’intercessione della Vergine Maria e dei Santi Protettori dell’Ordine e dell’isola di Malta, Giovanni Battista e Paolo e che le forze Cristiane sarebbero state vittoriose e il nemico avrebbe lasciata definitivamente l’isola libera da ogni assedio”. [3]

Infatti la forza turca, decimata, batté in ritirata il 13 settembre del 1565 per far ritorno sconfitta a Costantinopoli: l’assedio era durato quattro mesi, le perdite erano state dolorose per entrambi gli schieramenti e toccò a fra Roberto da Eboli, ancora convalescente, fare una predica “ornata e copiosa” ascoltata da tutto il popolo in lacrime.

Fra Roberto ritenne compiuta la sua missione a Malta, dove aveva rifuso tutto il suo spirito francescano, aveva voglia di rivedere la sua famiglia e di ritornare alla vita conventuale che Malta non poteva offrirgli essendo sprovvista di conventi. Salutati i tanti amici, il Gran Maestro ed il Vescovo, fra Roberto partì per Napoli. Il suo passaggio in questa città è provato da una lettera datata 29 novembre 1565. Nello stesso periodo soggiorna ad Eboli con la sua famiglia che non vedeva dal tempo della sua cattura nel trapanese, voleva riprendere la sua missione evangelica, ma ebbe l’amara sorpresa da uno scritto del vicario generale cappuccino fra Evangelista da Cannobio, il quale gli ingiungeva di lasciare il saio, decisione presa in seguito a voci che circolavano negli ambienti dell’Ordine cappuccino per il comportamento tenuto a Malta che avrebbe dato luogo a “scandali et eccessi ”; era accusato di aver ricevuto danaro versato alla propria famiglia e di essersi fatto accompagnare da una donna di malaffare durante il rientro in patria. Per tutelare il suo buon nome, fra Roberto scrisse al vescovo di Malta, mons. Cubelles, per avere un attestato della sua condotta a Malta con la seguente lettera autografa:

Reverendissimo monsignor mio padrone in Christo osservandissimo.

Se io havesse saputo che doveva correre tantii infortunii et travagli in queste parti oltre quelli ch’ho passati in Tripoli et in Malta non mai sarei partito dalle falde di vostra signoria reverendissima. Li travagli miei sono tali et tanti che non posso non farne parte a lei acciò m’aiuti et rimedii a quelli col suo favore, non però con altro che col vero.

Monsignor mio, vostra signoria reverendissima saperà che venuto in Evoli ho trovato una lettera del reverendo padre generale in cui si come credevo di trovare alcun conforto de’ tanti miei affanni, trovai il colmo d’ogni mia tribulatione, poi che in quella et in due altre mi comanda che debba lasciar l’habito di cappuccino, perché tiene aviso che in Malta io ho fatti molti scandali et eccessi, né vuole ancor che da me pregato con lettere lasciarme andar da lui, né intenderme in modo alcuno. Tanto è che son stato astretto retirarme tra li padri di Santa Maria di Giesù, cioè de’ zoccolanti.

Non so quando mai da superiore si usò tal giustitia, condennare di tal sentenza un suddito senza admettere le sue difese; io per me vivo in tal rammarico che se come Iddio m’è testimonio non dispenso la mia vita in altro che in sospiri et pianto, et in scrivere questa lettera mi è stato bisogno con l’una mano tener la penna et con l’altra sciugarmi gli occhi.

Supplico vostra signoria reverendissima che voglia degnarsi per amor delle piaghe di quel Giesù che tanto pietosamente ci ha liberati in quello assedio fare un publico essamine della mia vita sinché so stato in Malta; et se pure si truova alcun huomo o donna che di me habia ricevuto scandalo io sarò contentissimo che si sappia per tutto il mondo et ne sia punito più tosto in questa che nel’altra vita.

Mi scrive il Padre che io ho avuti molti scudi in Malta et che l’ho portati a’ miei parenti. Vostra signoria reverendissima si degni anco deporre et informarsi se alcuno mai m’ha dati altri danari eccetto quelli che lei mi inviò a tempo della mia infermità. Si lamenta perchè è venuta meco suor Giovanna monaca cappuccina, la qual, come credo che vostra signoria reverendissima sa, è venuta per complere il voto di andar a nostra Signora di Loreto. In questo mi farà ancor gratia porre in carta se costei è donna di sospetto o mala fama, et come credo che lei sa quanto governo da madre mi fè nella mia infermitade, et lei volse accompagnarsi con me per venire più secura et honorata; adesso mi dicono per la menor cosa ch’io ho menata meco una cortegiana.

In questo et in ogni altra cosa che mi oppongono chiamo per testimonio Christo et tutta la corte del cielo, et espetto che vostra signoria reverendissima mi favorisca in mandarmi questa informatione o fede in atto pubblico, o che sia in favore o disfavor mio con la verità, che questo deseo et non altro; et vostra signoria reverendissima sia certa che, sino a tanto che non habia tal fede, io vivo una vita pur troppo dolorosa et infelice. Potrà essendo servita inviarmila qua in Napoli nel luogo de’Padri del osservanza, che si dice l’hospidaletto, dove io sto per stanza, et sia certa che io gli restarò obbligatissimo et da Nostro Signore ne riceverà mercede. Ho già inviate le sue lettere in Roma; quanto al fatto del vicario non ho potuto far cosa veruna perché con questi travagli né so andato né penso così presto andare in Salerno. La priego che perdoni alle cose del mondo, quai corrono a questo modo et m’hanno impedito di servirla come desideravo.

Et con ciò finisco e gli bascio humilmente le mani con supplicar Nostro Signore che la serbi in sua gratia; sempre me raccomando al signor Pietro, al signor donno Andrea et al signor don Giuseppe.

Di Napoli, li 29 novembre del 1xv (1565)

Di vostra signoria reverendissima humil servo in Cristo

Fra Rubberto da Evoli.

(Sul retro) “Al reverendissimo monsignor vescovo di Malta suo padrone in cristo osservandis-simo. Subbito subbito, Malta.

Il vescovo di Malta, Domenico Cubelles, non tardò a dare risposta per testimoniare e per difendere l’amico fra Roberto con una lettera del 7-9 gennaio 1566 “Die septimo mensis ianuarii 1566 a Nativitate Domini”, nella quale dichiarò di conoscere l’accusato fin dal giorno del suo arrivo e di averlo presentato al Gran Maestro, di averlo incaricato di tenere gli esercizi spirituali cattolici sia ai Cavalieri dell’Ordine, sia al popolo nella chiesa del Borgo. Aggiunse, inoltre, di aver sempre visto in fra Robertoun bon religioso et homo di buonissima vita et fama, senza mai haver dato scandalo alcuno de’ fatti soi a persona nata”, descrivendone lo spirito religioso che aveva manifestato durante tutto l’assedio e dichiarando non veritiera l’accusa mossa ed affermando che il denaro dato al frate proveniva dalla curia ed era appena sufficiente al suo sostentamento. Non mancò di dare spiegazioni sulla donna di malaffare che lo avrebbe accompagnato nel rientro in Italia, si trattava della cappuccina “soro Ioanna monica scapucina per donna virtuosa et bona religiosa, et non intese parola mala alcuna dire di questa religiosa”, rimarcando che né lui, né il Gran Maestro, né altre persone avevano notato alcunché di scandaloso in tale compagnia. Alle dichiarazioni del vescovo tre giorni dopo, 12 gennaio, si aggiunsero quelle del gran maestro Fra Giovanni de La Valette e di altri dodici venerabili Cavalieri a discolpa totale del loro confratello che eroicamente aveva contribuito a non far cadere in mano infedele la loro amata patria. “Come il rev. Padre fra Roberto de Evoli dell’Ordine de’ Capoccini ha predicato qui in Malta nella nostra Chiesa conventuale per tutto il spatio della quadragesima ultima passata, con buona, christiana, salutifera, canonica et ecclesiastica dottrina, et con ogni virtuoso essempio et morigerata vita; et non solamente questo, ma ancora nel passato longo assedio dell’armata turchesca, dal principio insin al fine di quello, tanto dentro quanto fuori di questa città et fortalezza di San Michele, senza spargnar in modo alcuno sua persona et vita propria in tutti gli assalti, continuamente con ‘l crucifixo da una et l’arme da un’altra mano, con franchezza d’animo et christinesche instruttioni et conse animando gli altri al medesimo, ha contra turchi molto animosamente combattuto et fatto tutto quel che ad uno perfetto defensoree de la fé christiana debitamente si conviene. La onde noi, mossi da tante sue buone operationi, havemo voluto fargli senza altra istantia benignamente le presenti aciochè il tutto ad ognun un sia in ogni luogo et tempo manifesto et chiaro.

Datum Melitae in conventu nostro die duodecima mensis Ianuarii MDLXV ab incarnatione.

Firmato La Valette gran maestro di Malta seguita da altre dichiarazioni di dodici fra cavalieri e uomini di rango.

Non si sa quale sia stato l’esito delle dichiarazioni, resta prova del suo comportamento evangelico irreprensibile che quei documenti forniscono a discolpa dalle accuse infamanti salvando l’onore dell’eroico frate ebolitano. Tuttavia rimase inspiegabile il silenzio e la rottura sopraggiunta a breve con il mondo Cappuccino, frattura insanabile, dovuta al suo irruente temperamento e, forse al passaggio di Roberto da Eboli dall’Ordine dei minori cappuccini a quello degli osservanti.

Nel gennaio del 1568, fra Roberto fu mandato come predicatore dai superiori a Mantova. La città lombarda era passata dallo stato comunale del medioevo allo stato signorile rinascimentale: la famiglia Gonzaga ne deteneva il potere fin da quando Ercole era diventato, nel 1540, marchese del Monferrato. Dal 1550 governava la città il terzo Duca Guglielmo insieme alla moglie Eleonora D’Asburgo, figlia dell’Imperatore Ferdinando I, dimorando in uno splendido palazzo circondati da maestri di tutte le discipline artistiche. Fra Roberto seppe crearsi il suo spazio tanto da entrare ben presto nelle grazie del Duca. In città, con l’apporto di nuove culture, s’erano accentuate le dottrine eretiche “luterane e calviniste” e, ben presto, giunsero le persecuzioni dell’Inquisizione, guidata dal Domenicano Camillo Campeggio, che fece arrestare, imprigionare e torturare cittadini di ogni ceto senza interpellare il Duca, seguivano processi sommari, su sospetto o denuncia di anonimi delatori, che, il più delle volte, infliggevano l’impiccagione. Fra Roberto nel febbraio del 1568, nella chiesa di Santa Barbara, osò denunciare dal pergamo la crudeltà dell’Inquisizione definendo il CampeggioSognatore esemplare di eretici in una città sotto il dominio di un Duca curatissimo della religione [4] ed alla minaccia di non giudicare più l’operato degli inquisitori, dal pulpito della chiesa di San Domenico mostrò tutta la sua indignazione per l’operato inquisitorio anticristiano. La reazione fu immediata: Fra Roberto venne arrestato a Piacenza il 6 marzo 1568 e su richiesta di papa Pio V fu condotto a Roma e chiuso nel carcere di Tor di Nona. A nulla valsero le proteste del Duca Guglielmo per tentarne la scarcerazione, l’unica concessione gli risparmiò il carcere duro e fu rinchiuso in una piccola cella con un’apertura posta nel tetto. All’interrogatorio del 25 marzo del 1569 si presentò firmando “Fr. Robertus Novella de Ebulo Ordinis Fratrum Minorum de Observantia”. Nel carcere Fra Roberto conosce Aonio Paleario umanista, filosofo e teologo che durante il suo insegnamento per varie città d’Italia, fu a contatto con i riformatori delle dottrine della Chiesa cattolica e professandone la riforma l’autorità ecclesiale diventando ben presto il bersaglio dell’Inquisizione che l’arrestò a Milano (1567) e portato a Roma venne incarcerato in una cella probabilmente con Fra Roberto. Scambiandosi le idee, avendo obiettivo comune e stesso sentire, si attirarono il controllo dell’Inquisizione. Il 15 marzo 1569 Roberto da Eboli presentò in tribunale un’accusa di simonia contro Pio V che accusava di aver offerto denaro ad un nipote del suo predecessore perché inducesse il cardinale Carlo Borromeo a favorire la sua elezione al soglio pontificio.

Il 18 maggio il Paleario venne interrogato, confermando le accuse di Fra Roberto ne aggiunse altre, ma, falliti i tentativi di farlo ritrattare, fu condannato all’impiccagione ed il suo corpo bruciato il 3 luglio del 1570. Fra Roberto si trovava ancora recluso nella rocca di Ostia e, si apprende dalle carte processuali del 18 marzo 1570, che aveva ritrattato tutte le accuse per cui trascorse altri quattro anni in carcere “murato in una camera senza veder altra aria che per un buco sopra il tetto”.

Il 1 aprile 1574 Gregorio XIII, successore di Pio V, emise la condanna definitiva in carcere a vita, ma l’intervento di Guglielmo Duca di Mantova il 29 aprile 1578 cambiò la pena e fra Roberto tornò libero con l’ordine di dimorare nel convento dei Frati Minori Osservanti in Santa Maria in Aracoeli avendo il permesso di uscirne due volte all’anno: una per far visita alle sette chiese e l’altra nel giorno della commemorazione dei defunti. Ottenne la libertà definitiva verso la fine del 1580 con il permesso di far ritorno nei suoi luoghi d’origine. A casa trovò la famiglia in condizioni di assoluta povertà ed il 15 dicembre dello stesso anno, da Potenza scrive un’accorata lettera di aiuto al Duca Guglielmo.

Serenissimo signor, unico mio refugio et speranza.

Se vorrò dire il vero all’altezza vostra, più cordoglio che allegrezza è stata al cuor mio la libertà resami doppo dodeci anni, poiché per la morte succeduta, in quel mezzo, del mio povero padre, ho trovato in casa mia madre vecchia et povera, et quel che è peggio una sorella grande, nubile et poverissima, et io quel tempo che l’arei havuto a faticarmi per porla ad honore l’ho consumato in pregione, tal che in caso di tanta calamità non so dove voltarmi, salvo che alle benignissime gratie di vostra altezza, la qual supplico per quelle piaghe che nostro Signore sostenne per noi et per pietà di quella pregione che per servir lei et la sua Mantua ho sostenuto, che si degni dar soccorso a tanta infelicità mia, acciò con l’aiuto suo, collocando questa sorella, et lei ne riporti mercè di Dio, il mondo conosca quanto bene io impiegai la servitù mia con un re benignissimo a’ suoi servidori, et io possa, sciolto da ogni pensiero, attendere con maggior quiete a supplicar nostro Signore per la felicità di sua altezza et di tutta la serenissima casa sua.

Mi sarà anco gratia et favor singolarissimo se si degnerà farmi gratia d’una lettera all’eccellenza del signor don Cesare, [5] acciò l’anno seguente concedesse l’ufficio di San Severino al magnifico Lucio Novella da Evoli, mio fratello et schiavo di vostra altezza, acciò così con honorate fatiche et ufficii, alli quali egli è attivissimo, possa, servendo a quella serenissima casa per cui semo prontissimi tutti a porre la vita, acquistar il pane alla povera sua famiglia.

Non spiaccia all’altezza vostra serenissima, signor mio, dar questo aiuto a me poveretto devotissimo suo servidore, che con questa speranza io vivo et tutti di casa mia; potrà dell’uno et dell’altro farmi gratia col mezzo di monsignor illustrissimo Gonzaga mio signore.

Con questo gli bacio con reverenza il piede e gli supplico da nostro Signore ogni bene.

Di Potenza, a’ 15 di decembre del’80.

Di vostra altezza

 Devotissimo servidore

 Fra Rubberto Novella da Evoli [6]

Questa lettera è l’ultima traccia lasciata da questo straordinario uomo di fede, in un secolo che conobbe solo guerre e persecuzioni dottrinali “Fra Roberto fece la sua parte che noi non presumiamo giudicare. Certo è che il suo nome non può e non devess’ere dimenticato”.

Con molta probabilità morì ad Eboli che ancora non ricorda il suo nome, potrebbe dedicargli una via, magari la strada dove esiste ancora la casa che gli diede i natali.

Mi auguro che questa ennesima richiesta venga finalmente accolta dai governanti della nostra città.

Copyright © mapa39

 

Mariano Pastore


Note

[1] Giacomo Bosio, “Istoria della Sacra Religione et Ill.ma Militia di San Giovanni Gerosolimitano”, Roma 1598, tomo III; 1. XXV, p. 521.

[2] Francesco Balbi di Correggio, testimone oculare, ci lasciò questa testimonianza: “Acabado el assalto, dimos infinitas gracias a nuestro Senor Dios de la grancia que nos auia hecho, y a ello nos guiava nuestro predicador fray Roberto y fue derido esta dia su paternidad”: La verdadera relacion, 73v; cf. G. Bosio, Dell’Istoria… III, p. 606.

[3] G. Bosio, ivi, 677; “I cronisti cappuccini, mentre continuano a mantenersi silenziosi sull’operato di P. Roberto, (con notizia non vera) attribuiscono questavisioneal fratello cappuccino Ivo da Messina, che pregava nella sua stanza nel convento di Messina per la liberazione di Malta”.

[4] A. Bertolotti, “Martiri del libero pensiero e vittime della Sacra Inquisizione nei secoli XVI, XVII e XVIII”, Roma 1892, p. 51–53.

[5] P. Litta, “Famiglie celebri, i Gonzaga di Mantova ”. Cesare, al quale si fa cenno, Conte di San Severino, era morto da cinque anni quando P.Roberto scrisse la lettera del 15 dicembre 1580. Il Conte Cesare era fratello dei due cardinali Gonzaga, cioè Francesco e Giovanni Vincenzo tutti figli di Ferrante I.

[6] A. Bertolotti, Questa lettera è stata edita, ma solo parzialmente, in “Martiri del libero pensiero e vittime della Sacra Inquisizione nei sec. XVI, XVII e XVII, Roma 1892”, p. 52-53.



Pubblicazione de "Il Portale del Sud", febbraio 2012

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