Le Pagine di Storia

 

Dallo sbarco in Sicilia alle Quattro Giornate di Napoli, monografia in due parti

Prima Parte

Lo sbarco in Sicilia

di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso

 

Premessa

Nel 1940, alla vigilia della guerra, Palermo contava oltre 400.000 abitanti per una superficie che si estendeva su circa 1.600 ettari. Erano presenti strutture produttive e commerciali, un grande porto e un cantiere navale che occupava tra le 800 e le 1500 persone a seconda delle commesse. Era presente anche una piccola industria aeronautica gestita dalla Caproni-Ducrot costruzioni, un cementificio e una miriade di piccole industrie artigiane a conduzione semifamiliare o familiare. Palermo disponeva anche di un aeroporto militare (Boccadifalco), di un idroscalo, di varie stazioni ferroviarie: Centrale, Marittima, Lolli, Brancaccio e Sant’Erasmo. I trasporti urbani erano assicurati da un servizio di tram e filobus, elettrificati) che arrivavano fino ai sobborghi di Mondello (la spiaggia “bene” di Palermo) e Monreale. Sufficienti erano anche le reti di distribuzione elettrica, del gas e una buona rete idrica e fognaria. La rete idrica era approvvigionata da numerosi pozzi (qanat) urbani e da circa 40 acquedotti. Anche il telefono cominciava a diffondersi tanto che si contavano già oltre 8000 abbonati. I servizi erano pertanto in linea con quelli dell’epoca, anche se le condizioni economiche e occupazionali non potevano dirsi ottimali, provenendo da un lungo periodo di gestione fascista, e si erano aggravate con il rientro di molti emigranti a causa del clima di ostilità nei confronti dell’Italia di Mussolini creatosi alla vigilia della guerra nel mondo occidentale[1]. Una città quindi, che se fosse stata inserita in un contesto politico-economico democratico-liberale, avrebbe potuto vantare un buon tenore di vita e contare su uno sviluppo e una espansione costante.

A seguito della dichiarazione di guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna del 10 giugno 1940, la situazione precipitò. Iniziarono i bombardamenti. Dapprima furono gli Inglesi che tuttavia concentravano gli attacchi su bersagli militari come il porto e l’aeroporto. Poi, a partire dal gennaio del 1943 arrivarono gli americani che adottarono la strategia dei bombardamenti indiscriminati: rasero al suolo interi quartieri, chiese, monasteri e non risparmiarono neanche i ricoveri, alcuni dei quali dovettero essere murati con la calce per l’impossibilità di estrarre i cadaveri da sotto le macerie. Particolarmente crudeli furono i bombardamenti del rifugio di piazza Settangeli e di via Lincoln, dove rimasero intrappolati 300 bambini che usciti da una scuola vi si erano rifugiati con i loro insegnanti. Il massimo si raggiunse il 9 maggio. Il bombardamento fu talmente violento che rase al suolo intere zone di civile abitazioni e di alto valore artistico e costrinse alla fuga i cittadini che abbandonarono in massa la città. Tutte le città siciliane furono colpite, riportando danni materiali e morti e feriti e dispersi. Oltre Palermo ricordiamo in particolare Messina che, non ancora completamente ricostruita dopo il catastrofico terremoto del 1908 che la rase al suolo in 38 secondi, fu distrutta nuovamente da 8 mesi di bombardamenti anglo-americani. Da gennaio al agosto del 1943, migliaia di bombe caddero sulla città. Nel caso di Messina furono usate per la prima volta bombe incendiarie come quelle poi usate a Dresda (200.000 morti). La vita quotidiana era accompagnata dalle sirene di allarme per 8 mesi di inferno di fuoco e macerie.

Un bombardiere B-29 "fortezza volante"

Sulle città siciliane, fu inaugurata e messa a punto dall’esercito statunitense la successione di bombardamenti dimostrativa ed esemplare per piegare la resistenza della popolazione diventata di uso normale negli anni a venire. In quel luglio del 1943, contemporaneamente alle colonne della VII armata americana arrivò infatti a Palermo un gruppo di studiosi guidato dal professore Solly Zuckerman, docente di anatomia ed endocrinologia. Il professor Zuckerman e i suoi collaboratori erano stati chiamati dalla protezione civile britannica a collaborare alle ricerche sugli effetti delle incursioni aeree sull’organismo umano ma ben presto il lavoro degli scienziati si indirizzò diversamente: non più studiare il modo per limitare i danni ma piuttosto per massimizzare l’efficacia dell’offensiva aerea contro i nemici [3].

Un bombardiere americano B25 Mitchell in azione

Zuckerman per condurre i suoi studi si era trasferito in Sicilia con la sua squadra e nella sua relazione scrive “La cattura della Sicilia rappresenta la prima opportunità che ci sia stata finora offerta per una stima dettagliata degli effetti di una offensiva estesa e prolungata delle forze aeree alleate”.

Ecco a cosa servirono i tre anni di bombardamenti, oltre che a preparare il territorio e la popolazione per lo sbarco degli Alleati. Avevano bisogno di cavie. [4]

Palermo bombardata

Lo Sbarco

L’idea di invadere la Sicilia era nata dapprima a Londra durante l’estate del 1942, quando vennero fissati due importanti obiettivi strategici nel Mediterraneo per le forze inglesi: Sicilia e Sardegna, alle quali furono assegnati rispettivamente i nomi in codice di Husky e Brimstone. Ma la possibilità di un invasione tutta britannica della Sicilia, ovviamente, venne immediatamente esclusa. Gli Usa non avevano piacere che il mediterraneo divenisse un protettorato inglese. Così, dopo aver sconfitto le truppe italo-tedesche ad El Alamein, in Egitto, e dopo il successo dell’invasione del Marocco e dell’Algeria (novembre 1942, "Operazione Torch"), ora che la vittoria in Nordafrica era praticamente completa, bisognava preparare la mossa successiva: penetrare l’Europa; a tale scopo fu organizzata il 14 gennaio del 1943 la Conferenza di Casablanca ("Operazione Symbol"), per prendere una decisione comune sul da farsi. Alla conferenza parteciparono il Primo Ministro W. Churchill , il generale sir Alan Brooke, l’ammiraglio sir Dudley Pound, il maresciallo di campo sir John Dill ed il futuro maresciallo della Royal Air Force sir Charles Portal per l’Inghilterra; il Presidente F.D. Roosevelt, il generale George C. Marshall, capo di Stato maggiore dell’esercito americano, l’ammiraglio Ernest J. King, capo delle operazioni navali ed il generale H.H. Arnold, che comandava le Forze Aeree, per gli Stati Uniti.

La flotta alleata in navigazione verso le coste della Sicilia

La decisione su dove aprire il “secondo fronte” di lotta all’Asse cadde sulla Sicilia dopo non pochi contrasti tra i comandanti delle due potenze Alleate. “C’erano in ballo tre ipotesi – riporta lo storico Salvatore Lupo [5] - la prima, auspicata dai sovietici, prevedeva lo sbarco nelle coste settentrionali dell’Europa, la seconda puntava ai Balcani e la terza alla Sicilia. Fu scelta quest’ultima opzione per il semplice fatto che l’Italia rappresentava l’avversario più debole”. Il “ventre molle” dell’Europa come ebbe a definirla Churchill.

La Sicilia, la più grande isola del Mediterraneo, ad appena 130 km dalla costa della Tunisia, rappresentava la via più breve per entrare in Italia e segnare il primo attacco alla "Fortezza Europa". Preliminare necessario allo sbarco era tuttavia l'occupazione di Pantelleria che l'opinione pubblica italiana, suggestionata dalla propaganda fascista, considerava una specie di Malta, una base quasi inespugnabile. Per gli alleati era necessario conquistarla, per farne una base per la loro aviazione. Ebbe così inizio una violenta offensiva aerea anglo-americana contro l'isola fortificata di Pantelleria, difesa da 11.000 uomini e 180 cannoni al comando dell'ammiraglio Pavesi. Scriveva Eisenhower [6]: “Topograficamente Pantelleria presentava ostacoli quasi spaventosi per un assalto ... Molti dei nostri comandanti, esperti ed ufficiali di S. M., erano decisamente contrari ad uno sbarco perchè un fallimento avrebbe avuto un effetto scoraggiante sul morale delle truppe da impegnare lungo le coste della Sicilia”. Per tali motivi si decise di attaccare dall’alto e bombardare l’isola. Su Pantelleria, in soli sei giorni tra il 6 e l'11 giugno 1943, furono sganciate ben 5.000 tonnellate di bombe. Pantelleria si rivelò per quello che era in realtà: un avamposto sperduto, messo subito in ginocchio dai bombardamenti e soprattutto senza volontà alcuna di resistere. Non ci furono perdite da parte degli Alleati, a eccezione, secondo i racconti dei marinai locali, d’un soldato ferito dal morso di un asino. L’unico, appunto che da asino, ancora si illudeva di poter difendere l’indifendibile sia politicamente che militarmente.

Più di 11.000 prigionieri caddero nelle loro mani. Nei due giorni successivi anche le isole vicine di Lampedusa e Linosa capitolarono; gli abitanti della prima, addirittura, si arresero in massa dinanzi al pilota di un aereo costretto ad atterrare per mancanza di carburante.

Gli Alleati prevedevano di impegnare nell'operazione Husky, come veniva indicato in codice lo sbarco in Sicilia, 2775 navi da guerra e da trasporto, 1124 mezzi da sbarco, 4000 aerei , 14.000 veicoli, 600 carri armati, 1.800 cannoni e una quantità indefinita di munizioni, armi, vettovaglie e carriaggi, il tutto gestito da oltre 400.000 uomini. Le forze italiane impegnate in Sicilia consistevano di circa 200.000 italiani con un centinaio di carri armati e 28.000 tedeschi con 165 carri. In realtà l’isola, nonostante il grande numero di uomini in essa dislocati, non era strategicamente attrezzata. Mancavano le fortificazioni, gli armamenti, i mezzi logistici ed era priva di una valida protezione antiaerea. La superiorità degli Alleati era dunque schiacciante.

Già nella notte tra il 3 ed il 4 luglio un commando britannico tentò di sbarcare sul lido di Avola, nella Sicilia sud orientale, ma si ritirò in buon ordine. Questo tentativo, in realtà, serviva solo per saggiare l'efficienza della difesa, in previsione dello sbarco vero e proprio. Il giorno 9 infatti la nostra ricognizione avvistava la flotta d'invasione in navigazione verso le coste siciliane e lo stesso giorno 9, alle ore 22,30, 364 aerei e 12 alianti lanciavano sulle coste meridionali della Sicilia una divisione di paracadutisti britannica. Contemporaneamente, più ad ovest, scendevano i reparti della 82a divisione paracadutisti americana. Frattanto la flotta di invasione, al largo, si apprestava a sbarcare sulle spiagge le proprie divisioni.

Nell’arco di terra tra Licata e Siracusa si riversarono 160.000 soldati

All'alba del 10 luglio, alle 04.45, la 7° Armata Usa sbarca sulle spiagge di Gela e l'8° Armata inglese su quelle di Pachino e Siracusa. Un fronte costiero di 260 km, da Licata alla penisola della Maddalena pullulava di navi, mentre dall’aria stormi di caccia bombardavano a tappeto per proteggere lo sbarco. Fu la più imponente operazione militare fino ad allora vista nel mediterraneo. Sbarcarono 13 divisioni di fanteria, 2 due divisioni corazzate, 2 aviotrasportate e diversi reparti speciali . A comandare l’operazione erano i generali Bernard Montgomery per i britannici e George Patton per gli statunitensi. Nei giorni successivi le truppe alleate avanzarono a tenaglia e si scontrano con le divisioni “Hermann Goring” e “Livorno”, che ben presto, nonostante alcuni eroici tentatici di resistenza come a Noto e a Cassibile, si ritirano, specie i tedeschi, nel tentativo di raggiungere lo stretto e trasbordare sulla terraferma mentre tra le fila degli italiani tutti coloro che erano di origine siciliana, ed erano la maggior parte, cominciavano a disertare nel tentativo di raggiungere le famiglie.

L'avanzata anglo-americana

Il 13 luglio venne occupata Augusta e il 15 Il premier inglese Winston Churchill e il presidente americano Roosevelt lanciarono un comune appello agli italiani affinché decidessero “se vogliono morire per Mussolini e Hitler oppure vivere per l’Italia e la civiltà”. Intanto gli Alleati conquistano Agrigento e il giorno dopo Caltanissetta e il 22 gli americani entrano a Palermo. Trovarono una città fantasma, distrutta, saccheggiata e abbandonata. Nelle campagne si incontravano torme di sbandati, civili fuggiti dai bombardamenti e soldati in fuga, siciliani in massima parte, che all’avanzare delle truppe alleate avevano disertato per raggiungere le famiglie. Fu in questo clima di sfacelo che il 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia Mussolini, il re ordina il suo arresto e affida a Badoglio l'incarico di guidare il nuovo governo.

Il 27 luglio il gen. Alexander, comandante il XV Gruppo d’armate, sposta il suo Quartier Generale dall’Africa in Sicilia. Il 5 agosto viene occupata Catania, dagli inglesi agli ordini del generale Montgomery, e il 17 il gen. Patton entra a Messina.

L’intera operazione è durata 38 giorni e pochi giorni dopo, il 3 settembre, a Cassibile viene firmato l’armistizio corto, un pietoso eufemismo che sta per “resa incondizionata”, l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze alleate. L'operazione ebbe inizio intorno alle 17: firmatari furono Castellano [7], a nome di Badoglio, e Bedell Smith, a nome di Eisenhower. Alle 17,30 il testo risultava firmato. Solo a firma avvenuta fu bloccata in extremis dal generale Eisenhower la partenza di cinquecento aerei in procinto di decollare per una missione di bombardamento su Roma, minaccia che aveva costretto Badoglio ad accettare la resa senza condizioni, e che senza dubbio sarebbe stata attuata, come già era successo il 19 luglio, se il trattato non fosse stato firmato [8].

Firma di Cassibile. Castellano è in abito grigio

Harold Macmillan, il ministro inglese distaccato presso il quartier generale di Eisenhower, informò subito Churchill  che l'armistizio era stato firmato " … senza emendamenti di alcun genere".[9]

Intanto nella mattinata del 3 settembre, mentre a Cassibile si ultimavano i preparativi per la firma, Badoglio e Vittorio Emanuele III incontravano l’ambasciatore tedesco Rahn e lo rassicurano sulla fedeltà e la lealtà dell’Italia al Fürher.

Nel pomeriggio dello stesso 3 settembre Badoglio si riunì con i ministri della Marina, De Courten, dell'Aeronautica, Sandalli, della Guerra, Sorice e presenti il generale Ambrosio e il ministro della Real Casa  Acquarone ma non fece cenno alla firma dell'armistizio, si limitò semplicemente a riferire che c’erano trattative in corso.

Fornì invece indicazioni sulle operazioni previste dagli Alleati e cioè ad uno sbarco in Calabria, ad uno sbarco di ben maggiore rilievo nei pressi di Napoli ed all'azione di una divisione di paracadutisti alleati a Roma, che sarebbe stata supportata dalle divisioni italiane in città perché ormai l'Italia avrebbe agevolato gli alleati contro i tedeschi.

Intanto nelle prime ore del mattino del 1° settembre, dopo il solito bombardamento aeronavale alleato delle coste calabresi, ebbe inizio fra Villa San Giovanni e Reggio Calabria lo sbarco della 1ª Divisione canadese  e di reparti inglesi; si trattò di un imponente diversivo per concentrare l'attenzione dei tedeschi molto a sud di Salerno, dove avrebbe avuto invece luogo lo sbarco del grosso delle truppe, la V armata americana.

Badoglio, il re e lo Stato Maggiore, ritardarono di 5 giorni la notizia della firma di Cassibile, l’armistizio fu reso pubblico solo alle 19:45 dell'8 settembre dai microfoni dell' EIAR che interruppero le trasmissioni per trasmettere la voce di Badoglio, precedentemente registrata che annunciava alla nazione la firma dell’armistizio. In realtà l’armistizio era stato già reso noto da radio Algeri alle 17.30. Letto il messaggio, il Re, il generale e tutto lo Stato Maggiore, fecero le valigie e scapparono.[10]

L’invasione della Sicilia non fu tuttavia una passeggiata come si sperava. La resistenza italiana e tedesca fu, nonostante l’impossibilità di impedire lo sbarco e di ricacciarli in mare, superiore al previsto sebbene non potesse contare sull’intervento della marina e dell’aviazione italo-tedesca. Roma e soprattutto Berlino non potevano permettersi di sguarnire gli altri fronti pertanto ai comandi militari italiani e soprattutto tedeschi non rimase altro da fare che evitare di restare intrappolati e ripiegare verso Messina e quindi Reggio. In totale tra morti, feriti, dispersi, prigionieri le perdite italiane assommarono a 130.000 uomini, quelle tedesche a 37.000 uomini; fra le perdite materiali 260 carri armati, 500 cannoni e un numero imprecisato di aerei. Gli alleati persero circa 8.000 uomini, fra morti e dispersi, 103 carri armati, 96 mezzi da sbarco e 274 aerei. Alle crude cifre dei morti e dei dispersi militari vanno aggiunte le stragi dei civili, la rovina delle città e delle campagne; i bombardamenti avevano distrutto acquedotti, centrali elettriche, strade ferrate , mancava quindi l’acqua, l’energia elettrica, i treni non viaggiavano, le campagne isterilivano, il bestiame moriva e le città erano sommerse da cumuli di macerie. I bombardamenti avevano distrutto 250.000 abitazioni, 15.000 vani rurali, migliaia di automezzi, strade, per non parlare del patrimonio zootecnico e di oliveti, vigneti, agrumeti e quant’altro.[11]

Il popolo in verità quando le forze alleate iniziano lo sbarco in Sicilia, tirò un sospiro di sollievo: i cittadini perché vedevano avvicinarsi l'ora della fine degli spaventosi bombardamenti; gli antifascisti perché sentivano il profumo della libertà ma soprattutto gioirono i mafiosi[12] i quali capirono di poter disporre di uno spazio di manovra che il fascismo aveva loro negato e furbamente colsero l’opportunità di spacciarsi per antifascisti per il solo fatto di essere stati imprigionati o confinati e di mettersi a disposizione delle truppe alleate.

Militari alleati per le strade di Augusta

Il ruolo della mafia

Tra gli storici è ancora aperta la diatriba sul ruolo avuto dalla mafia siciliana nella preparazione dello sbarco alleato. Tale diatriba è certamente sostenuta dagli apparati mafiosi perché tendono ad assumersi un merito e un potere che in realtà non potevano ricoprire in quel lontano 1943, perché in Sicilia grazie al prefetto Mori, buona parte delle forze di mafia erano state confinate o incarcerate. Anche se i capi erano rimasti liberi buona parte della manovalanza era stata inibita. A tal proposito molti storici tra i quali Renda e Lupo sgomberano subito il campo da ogni possibile equivoco. Scrive Lupo “La storia di una mafia che aiutò gli angloamericani nello sbarco in Sicilia è soltanto una leggenda priva di qualsiasi riscontro, anzi esistono documenti inglesi e americani sulla preparazione dello sbarco che confutano questa teoria; la potenza militare degli alleati era tale da non avere bisogno di ricorrere a questi mezzi. Uno dei pochi episodi riscontrabili sul piano dei documenti è l’aiuto che Lucky Luciano propose ai servizi segreti della marina americana per far cessare alcuni sabotaggi, da lui stesso commissionati, nel porto di New York; ma tutto ciò ha un valore minimo dal punto di vista storico, e soprattutto non ha alcun nesso con l’operazione “Husky”. Lo sbarco in Sicilia non rappresenta nessun legame tra l’esercito americano e la mafia, ma certamente contribuì a rinsaldare i legami e le relazioni affaristiche di Cosa Nostra siciliana con i cugini d’oltreoceano”. [13]

Se l’ipotesi che gli “amici degli amici” abbiano avuto un ruolo decisivo nello sbarco angloamericano in Sicilia è da scartare, è tuttavia innegabile che gli alleati si servirono dell’aiuto di personaggi del calibro di Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo per mantenere l’ordine nell’isola occupata e il boss americano Vito Genovese [14], nonostante fosse ricercato dalla polizia statunitense, divenne l’interprete di fiducia di Charles Poletti, capo del comando militare alleato.

Calogero Vizzini

Certamente gli alleati non conoscevano la realtà siciliana e di volta in volta, da paese in paese, cercavano l’interlocutore di maggior prestigio sul piano del potere locale, che era rappresentato invariabilmente dalla mafia, dall’aristocrazia terriera e dalla chiesa che spesso erano tra loro legate da comuni interessi. Non a caso il nome di Calogero Vizzini fu suggerito agli angloamericani dal fratello vescovo, e dal “Movimento indipendentista siciliano” (MIS) nelle cui fila militavano fianco a fianco rappresentanti dell’aristocrazia terriera come Lucio Tasca, nominato sindaco di Palermo e capimafia come Vizzini, Navarra, Genco Russo e l’allora giovanissimo, Tommaso Buscetta.

Il movimento indipendentista

Immediatamente dopo lo sbarco degli alleati prese corpo e spessore inoltre il Movimento indipendentista. Mentre ancora nell’isola si combatteva il 28 luglio del ’43 già volantini separatisti che invitavano a proclamare l’indipendenza della Sicilia cominciarono a circolare e il giorno dopo l’entrata a Palermo delle truppe americane, chiesero e ottennero di essere ricevuti dal tenente colonnello Poletti, capo dell’ufficio affari civili del governo militare alleato, per presentare formale richiesta di poter informare i governi inglese e USA che la Sicilia intendeva essere indipendente.

Intanto, secondo quanto deciso a Casablanca su suggerimento di W. Churcill, il governo militare di occupazione doveva evitare qualsiasi collaborazione con i partiti politici isolani, anche con quelli che si dichiaravano antifascisti, pertanto gli alleati si affidarono ai suggerimenti del clero e dei maggiorenti locali per nominare i nuovi sindaci che così furono in buona parte scelti tra i mafiosi o i separatisti, come il conte Lucio Tasca, capo dei separatisti, a Palermo o Genco Russo, boss mafioso, a Mussomeli.

Vito Genovese in divisa americana con Salvatore Giuliano. Genevose fu l’autista e l’interprete di Charles Poletti

Col passare dei mesi vista l'impossibilità di rifornire con proprie scorte la popolazione, gli Alleati puntarono sulla riorganizzazione degli ammassi, affidandone la gestione ai grandi proprietari, aristocratici e mafiosi, per indurre i piccoli proprietari, che in prevalenza alimentavano il mercato nero, a contribuire all'ammasso. Si rafforzava così la posizione delle élites agrarie nel quadro istituzionale del governo d'occupazione. Da qui l'impressione che gli Alleati tendessero a favorire i separatisti. In realtà le nomine erano avvenute nella logica stessa del governo indiretto, e gli unici esponenti della ristretta classe dirigente nei piccoli paesi erano proprio i mafiosi e nei grandi centri i separatisti. Appare invece priva di fondamento la ipotesi di un pactum sceleris tra mafia e alleati per l’occupazione della Sicilia. Il rinnovato potere della mafia nella magmatica società del dopoguerra avrebbe però fornito al potere politico un alleato fedele alle istanze filo occidentali, di cui probabilmente gli americani si avvalsero.

Per un approfondimento degli avvenimenti che seguirono allo sbarco Alleato in Sicilia si rimanda all’articolo il separatismo siciliano nel secondo dopoguerra e al testo "La Repubblica di Sicilia", libro di G. Alibrandi scaricabile dal nostro sito.

Fara Misuraca e Alfonso Grasso

marzo 2008

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Note

[1] Celano Massimiliano, Tesi di Laurea, Riportato da Rossella Leonforte su La Repubblica (Palermo) del 29 Febbraio 2008

[2] I baraccati che ancora oggi sono senza casa non sono quelli del terremoto del 1908 come spesso si ripete ma quelli dei bombardamenti del ’43. Ma su questo tutti preferiscono tacere.

[3] Celano Massimiliano, Tesi di Laurea, Riportato da Rossella Leonforte su La Repubblica (Palermo) del 29 Febbraio 2008

[4] Palermo ha goduto del dubbio privilegio di essere stata bombardata da tutti i belligeranti.

[5] Salvatore Lupo, “Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni”, Roma, Donzelli 1993

[6]D.D. Eisenhower, Crociata in Europa , Milano, 1949

[7] Giuseppe Castellano, Come firmai l’armistizio,

[8] Castellano fu costretto a firmare una resa “senza condizioni”. Fu solo in seguito concesso il privilegio di sparare qualche colpo contro i tedeschi per dimostrare che gli italiani avevano cambiato fronte.

[9] All’armistizio “corto” firmato il 3 settembre e che constava di soli 12 articoli e contemplava soltanto la cessazione delle attività militari, seguì l’armistizio “lungo” firmato da Badoglio a Malta sulla nave “Nelson” il 29 settembre (erano presenti Badoglio, Ambrosio, Roatta, Sandalli, De Courten per l’Italiaed Eisenhower, Cunningham e altri per gli alleati). Allora ci si rese conto della eccezionale durezza delle condizioni, il nuovo testo, composto da 44 minuziosi articoli, stabiliva che al governo italiano veniva tolta ogni potestà. Tutto doveva passare sotto il controllo degli anglo-americani, che imposero, addirittura, delle modifiche legislative. In pratica l’Italia perdeva ogni sovranità.

[10] Alle 19,45 di quel mercoledì 8 settembre la voce registrata scandiva alla radio : “Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.”

[11] Salvo Di Mattero, Storia della Sicilia, Edizioni Arbor

[12] Prima di questi eventi la mafia era un'organizzazione malavitosa regionale. È lo sbarco alleato che le permette di fare il decisivo salto di qualità. La mafia si conquista sul campo la fiducia degli americani e si trasforma in una organizzazione internazionale. In un primo tempo gli unici con i quali gli americani hanno rapporti sono gli esponenti di Cosa Nostra negli Stati Uniti, che vengono utilizzati per sventare i sabotaggi tedeschi nel porto di New York . Poi, quando la Sicilia inizia a ricoprire un ruolo chiave nei piani militari, viene consultata la mafia locale. L'isola era completamente sconosciuta e servivano contatti fidati. Cosa Nostra gioca la sua partita nel migliore dei modi, al punto che nella prosecuzione degli eventi bellici, e più avanti con la guerra fredda, sarà affiancata alla Democrazia Cristiana e ai carabinieri in quel blocco che doveva impedire l'accesso del PCI al potere.

[13] Salvatore Lupo, “Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni”, Roma, Donzelli 1993

[14] Vito Genovese - scrive Mack Smith - benché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti compreso l'omicidio, e sebbene avesse servito il fascismo durante la guerra, risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità americana. Egli utilizzò la sua posizione e la sua parentela con elementi della mafia locale per aiutare a rastaurarne l'autorità...”. Mentre faceva da interprete a Poletti, una banda ai suoi ordini rubava autocarri militari nel porto di Napoli, li riempiva di farina e zucchero, sottratti agli alleati e li rivendeva al mercato nero nelle città vicine. L'atteggiamento del Governo militare nei confronti dei mafiosi fu ispirato a criteri utilitaristici ma indubbiamente quest'apertura verso gli “amici degli amici” permise alla mafia di riorganizzarsi, di riacquistare l'antica influenza. Aveva sempre cercato l'alleanza con il potere, anche con quello fascista, agl'inizi, ma per la prima volta ora le veniva conferito un crisma di legalità e di ufficialità che le consentiva d'identificarsi con il potere.

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Bibliografia

  • Casarubbea Giuseppe, Storia segreta della Sicilia. Dallo Sbarco Alleato a Portella della Ginestra. Ed. Bompiani, 2005

  • Costanzo Ezio, Breve storia dello sbarco alleato, ed. Le nove muse, 2007

  • Di Mattero Salvo, Storia della Sicilia, Edizioni Arbor, 2007

  • Eisenhower D.D., Crociata in Europa, Milano, 1949

  • Lupo Salvatore, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Roma, Donzelli 1993

  • Mack Smith Denis, Storia della Sicilia Medievale e Moderna, Bari, Laterza

  • Renda Francesco, Storia della Sicilia, Sellerio, 2003

  • D’Agostino Guido e Mascilli Migliorini Luigi, Il Mattino, 27.09.04

  • Gleijeses Vittorio, La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977

  • Barbagallo Corrado, Napoli contro il terrore nazista, Casa editrice Maone, Napoli, 1944

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