Le Pagine di Storia

Messina, diario da una città distrutta

di Lucio Villari [1]

 

Cent’anni fa, nel 1908, un sisma colpì la regione e uccise oltre centomila persone. Ecco l’inedito racconto di un medico testimone del sisma. Il boato, i soccorsi, l’agonia dei moribondi.

I terremoti lasciano tracce indelebili nella storia alterando per sempre civiltà, economie, rapporti sociali, identità collettive. Quando nel passato hanno colpito popoli e città evolute e organizzate del Mediterraneo, i terremoti hanno cambiato il corso di intere società: dall'esplosione di Santorini, a Pompei, al terremoto dell'Italia meridionale del 1783 (la lista è molto lunga) e le "ricostruzioni" non sono state mai guaritrici delle ferite ricevute. Non è soltanto la morte a prendere il posto di quello che c'era prima; c'è lo smarrimento e lo stupore dei sopravvissuti e dei testimoni, l'assenza che risucchia, in chi si è salvato, la percezione del tempo e persino il dolore fisico dei superstiti feriti.

Questo avvenne nella livida alba del 28 dicembre 1908 a Reggio, a Messina e lungo le coste a nord ed a sud di queste due città, per decine di chilometri. Un cataclisma che uccise oltre centomila persone.

Il 28 dicembre di cento anni or sono era uno dei giorni festosi delle vacanze di Natale e possiamo immaginare le luci delle due città, i teatri aperti (a Reggio, la sera del 27 era di scena un'opera di Verdi), i caffè illuminati e la passeggiata sul Corso, le signore con pelliccia e manicotti, i bambini felici. All'improvviso, nel buio, alle 5 e 20, un boato che dura trenta secondi e un risveglio dentro la morte, la polvere, le pareti, le travi, i mobili sopra i letti schiacciati. La prima luce dell'alba illumina il paesaggio del disastro.

Molte sono state le ricostruzioni storiche di quella tragedia che colpiva un'Italia avviata a una fase di sviluppo economico e di evoluzione democratica del sistema liberale. Presidente del consiglio era in quell'anno Giovanni Giolitti ed il re, Vittorio Emanuele III, era stato salutato come nuovo capo dello Stato otto anni prima proprio a Reggio Calabria, dove era sbarcato il giorno dopo l'assassinio del padre. Lo stretto di Messina, soprattutto dopo l'apertura del canale di Suez, era attraversato dalle navi militari e mercantili di tutti i paesi ed era ammirato come uno dei luoghi più affascinanti del Mediterraneo.

E furono infatti navi russe e inglesi, oltre quelle della Marina italiana, che in quell'alba tragica transitavano per lo Stretto o erano alla fonda, a prestare i primi soccorsi alle due città ed a salvare molte vite umane. I marinai, i medici e i chirurghi militari sbarcati dalle navi fecero per ore e giorni l'impossibile. Purtroppo le loro testimonianze sono scarse ma molto si sa dell'assistenza e dell'aiuto da loro dato. Per questo mi pare di particolare interesse pubblicare alcune pagine del diario inedito di un medico militare di Reggio, Leonardo Carbone, che, sopravvissuto al crollo della casa, svolse la sua opera umanitaria e scientifica che gli meritò la medaglia d'oro al valore civile.

Devo all'amicizia del nipote, l'avvocato Domenico Carbone, l'opportunità di ricordare l'impegno di un medico nel cataclisma che a Reggio decapitò una borghesia colta e liberale - anche il sindaco Demetrio Tripepi, deputato e amico di Giustino Fortunato, morì insieme alla famiglia -,  erede di tradizioni risorgimentali e garibaldine e con aperture politiche alle nuove prospettive del "decennio giolittiano".

Anche della Messina liberale, della sua antica Università, della distruzione provocata dal sisma di opere d'arte (irreparabile la perdita della celebre Palazzata secentesca) e delle moltissime vittime resta il ricordo di testimoni illustri, da Giovanni Pascoli a Gaetano Salvemini, che perdette nel disastro la moglie e cinque figli. E resta anche il ricordo di alcuni giornali clericali che videro il terremoto come il castigo di Dio per le colpe degli anticlericali (siamo nel tempo antimodernista di Pio X).

Nel diario del dottor Carbone vi è il lucido racconto delle prime ore, quando egli, da solo, tentò i primi soccorsi nei locali lesionati e cadenti della "Difesa", il distretto della Marina Militare:

“Io e la mia famiglia usciti all’aperto sentimmo grida altissime e strazianti venire dalla città nel fragore dei palazzi che crollavano. Era ancora buio e il freddo intenso. Pieno d'angoscia pensai allo sterminato numero di vittime e compresi dovermi recare presto alla Difesa dove potevo dare qualche aiuto. Attraversando lunghissime macerie, rovine pericolosissime e larghi stagni per esser rotta la conduttura d'acqua della città, giunsi alla Marina. Ma che tragitto impressionante! Quanti domandavano soccorso impigliati in mezzo a travi e macerie (...). Ma di quanti medici ci sarebbe stato bisogno in quel giorno! Ma erano quasi tutti o morti o feriti e gli ospedali distrutti. (...)”

“Circa 550 furono i feriti trasportai alla Difesa nelle prime trenta ore. Quasi tutti i feriti presentavano estese contusioni escoriate pel corpo per aver subito schiacciamenti in mezzo alle macerie. La calcina e le pietruzze si internavano e aderivano alle carni in modo dolorosissimo. I feriti arrivavano in condizioni gravissime, cioè pallidi, incapaci di qualsiasi movimento e di risposte esaurienti. (...)”.

“Una povera giovane con frattura del femore sinistro complicata giunse in stato di stupore: era inutile ogni cura e non lo nascosi alla madre che l'accompagnava. Questa senza lacrime mi disse: "Ho perduto già altre figlie sotto le macerie". Quando la figlia morì la madre mi domandò e io ottenni dal comandante che il cadavere fosse separato dagli altri … “Se mi togliete questo conforto - essa diceva - mi annegherò". (...) Una giovane donna con frattura complicata alla gamba destra mi diceva di non voler morire solo per potere rivedere un suo figlio a Venezia. Il console austriaco Fleres trasportato su una sudicia scala presentava frattura complicata e comminuta intracondiloidea del femore sinistro. Fu amputato dal prof. Bastianelli, ma era già affetto da delirio e da setticemia per la quale è morto dopo alcuni giorni. Un giovane signore bellissimo di quasi venti anni era giunto in condizioni disperate per gravissima emorragia, avendo il piede destro squarciato, la gamba sinistra fratturata e ferite alle mani, al viso e al capo. (...)”

“Qualche ricca persona aveva fatto proposta di cure speciali dietro lautissimi compensi, ma ho fatto comprendere quanto ignominioso era un cenno simile in tanta sventura. E posso con sicura coscienza affermare che tutti, poveri e ricchi, senza distinzioni di classi sociali sono stati egualmente trattati e se vi fu preferenza essa riguardava persone che ne avevano maggior bisogno.(...) La notte dal 28 al 29 specialmente è stata spaventevolmente tragica, notte angosciosa, infinita, in mezzo agli infermi che domandavano soccorso, mentre una pioggia gelata ci rendeva intirizziti e da Messina si levava estesamente il fioco chiarore degli incendi e il crepitio delle fiamme distruggitrici. (...) Cercavo di confortare l'animo degli infermi dicendo che l'alba era vicina e con l'alba i soccorsi sarebbero venuti da tutte le parti”.

“Venne l'alba finalmente, ma l'orizzonte ancora non mostrava le desiderate navi. Verso le 8,30 apparve la squadra russa, mostratasi poi eroica negli aiuti prestati, e alle 9 una nave inglese che mi portava un aiuto di grandissimo valore. Alle 11.30 giungeva la squadra italiana ed io mi recai sulla "R. Elena" a riferire e ricevetti viveri e carne fresca che mi permisero di ristorare i feriti. (...) Gli infermi si confortavano a vicenda e rapidamente si erano formate intime amicizie specialmente fra donne, mentre vi era una forma di dolorosa apatia per le perdite dei loro cari. Quante persone, senza pianto, mi dicevano: "Ho perduto mia moglie e i miei figli. Ho perduto i miei genitori e le mie sorelle..." E Si rimaneva esterrefatti per questa angosciosa rassegnazione”.

“Il disastro avvenuto era talmente imprevedibile ed è stato così straordinariamente esteso e terrificante che non può dare sistematici insegnamenti. Quando la radio telegrafia sarà più diffusa ed estesa, più celeri potranno essere i mezzi di aiuto da inviare. (...)”

“Alle ore 9 del giorno 31 avemmo la visita di Sua Maestà la quale rincorò molto gli infermi e il re partendo volle lasciare un grande aiuto, il prof. Bastianelli il quale, da quel sommo maestro che è, lavorò fino a sera, riprendendo il suo lavoro il mattino appresso di buon'ora fino alle due pomeridiane, quando tutti gli infermi erano trasportati sulle navi per esser trasferiti in altri luoghi di cura”.


[1] Articolo tratto da La Repubblica, sabato 13 settembre 2008, p. 47

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