Le Pagine di Storia

 

Storie di Sicilia di Fara Misuraca

Il Vespro

L’eredità di Federico II e gli eventi che portarono al “Vespro”

 

Prima di metter mano a raccontare i “mitici” eventi del Vespro, quella rivolta di popolo che tanto ha solleticato la fantasia di molti autori siciliani e non, è opportuno cercare di delineare, almeno per grandi linee la situazione che si venne a creare in Sicilia ed Europa dopo la morte di Federico II: la questione della successione al trono di Germania e di Sicilia, i diritti sul trono di Sicilia rivendicati da Costanza, moglie di Pietro III d’Aragona e nipote di Federico II, l’ascesa economica e politica del francese Carlo conte d’Angiò e la sua nomina a paladino del papa.

Il processo rovinoso che portò al disfacimento del regno di Sicilia ha inizio nel 1245, quando durante il Concilio di Lione venne decisa dalla Chiesa la deposizione di Federico II dall’impero e dal regno di Sicilia, decisione applicata nel regno di Germania - dove le speranze di Corrado di succedere al padre alla guida dell’impero naufragarono rapidamente a causa della contestazione dei principi tedeschi che elessero come re dei Romani prima Enrico Raspe, langravio di Turingia e poi, alla morte di questi, Guglielmo d’Olanda - ma disattesa in Sicilia, almeno fino a quando Federico fu in vita. Alla sua morte però le popolazioni siciliane si sentirono liberate dalla tirannia e, inoltre, furono istigate dall’ordine perentorio di papa Innocenzo IV “che nessun siciliano giurasse fedeltà né prestasse obbedienza a chi non fosse delegato dalla sua autorità pontificia” [1]; importanti città della penisola e dell’isola, tra cui Napoli, Caserta, Avellino, Capua, Barletta, Foggia e Palermo, si dichiararono stanche di subire scomuniche ed interdetti, si rifiutarono di riconoscere la successione sveva e molti comuni siciliani, accogliendo il suggerimento di frate Ruffino da Piacenza, si riunirono in una federazione prendendo ad esempio la Lega lombarda [2]. La Lega siciliana si dimostrò tuttavia senza vigore ed incapace di durare a lungo a causa della immaturità della popolazione costituita in massima parte da contadini privi di esperienza militare e politica e della mancanza di un forte ceto “borghese” tanto che Bartolomeo da Neocastro, un cronista dell’epoca, la definì “Comunitas vanitatis”.

Secondo le disposizioni testamentarie di Federico II, a cingere la corona imperiale e quella siciliana sarebbe dovuto essere in prima battuta Corrado (23 anni), quindi Enrico (12 anni), qualora Corrado fosse morto senza figli, ed infine Manfredi, in assenza di eredi di Enrico. La condizione di sfavore di Manfredi, che ricordiamo era figlio illegittimo di Federico e Bianca Lancia, fu tuttavia compensata dalla nomina testamentaria di reggente perpetuo del regno d’Italia e del Regno di Sicilia. La particolare condizione di Manfredi - in realtà non avrebbe dovuto avere alcun diritto al trono - era stata dettata in parte dall’amore che Federico nutrì per la bella Bianca, ma soprattutto dalla vicinanza fisica e caratteriale che il ragazzo “biondo e bello e di gentile aspetto” [3] aveva con il padre. Questa condizione di privilegio era ovviamente mal tollerata dai figli legittimi che vedevano in Manfredi un serio pretendente alla successione di un regno che doveva essere conquistato con le armi per via dell’ostilità del papa, che non desiderava che gli Hohenstaufen detenessero contemporaneamente il potere in Germania, in Nord Italia e in Sicilia e perché Manfredi, nato e cresciuto in Puglia, era un siciliano, gradito a buona parte dei baroni locali imparentati con gli Staufen o con i Lancia mentre loro, Corrado ed Enrico, erano irrimediabilmente tedeschi.

Assunta la reggenza Manfredi si riservò il governo della parte peninsulare del Regno e nominò suo vicario per la Sicilia il fratellastro Enrico che, in quanto minorenne era sotto la tutela di Pietro Ruffo. Ruffo si rivelò un pessimo amministratore e si guadagnò l’astio delle popolazioni e la sfiducia di Manfredi che richiamò in Puglia il fratello e inviò nell’isola lo zio Galvano Lancia con l’intento di sostituire Ruffo. Il Ruffo però si rifiutò di lasciare la Sicilia e per impedire lo sbarco di Galvano gli sollevò contro la città di Messina, costringendolo alla fuga e schierandosi apertamente con Corrado. Ma la situazione sfuggì di mano al Ruffo: le città siciliane sobillate da un’intensa propaganda pontificia, cominciarono a sollevarsi e a reggersi autonomamente a comune.

Intanto il giovane Enrico moriva in circostanze misteriose.

A Corrado IV, re di Germania e di Sicilia l’attività di Manfredi volta a sedare le rivolte che sorgevano di continuo nelle città meridionali era stata molto utile, ma quando Manfredi tentò nel luglio del 1251 trattative di pace con papa Innocenzo IV, i due fratelli divennero apertamente nemici. Corrado, sospettando che il fratello volesse farsi riconoscere legittimo re di Sicilia, per prima cosa gli tolse la giurisdizione feudale e bandì dal regno tutti i parenti di Manfredi, poi armò un esercito e si mise in marcia verso sud. Vi arrivò nel 1252 e si trovò ad affrontare l’ostilità di Napoli e delle regioni nord occidentali del regno. Nonostante le distruzioni in stile Hohenstaufen di comuni, come Aquino, Sora, Arpino ed altri che avevano la sola colpa di essere soggetti ai conti di Aquino e di Sora che parteggiavano per il Papa, il giovane Corrado riuscì ad ottenere in due anni di guerra solo la resa di Napoli e della Terra di Lavoro. Il resto del regno rimaneva ancora in mano a Manfredi o sotto l’influenza del papa o nella anarchia.

Nonostante il successo ottenuto fosse parziale, Corrado decise egualmente di rivolgersi a papa Innocenzo IV, signore feudale del regno di Sicilia, per ottenere il riconoscimento del titolo. Ma il papa, come sappiamo aveva sempre avversato il fatto che un re di Germania occupasse anche il trono di Sicilia ed inoltre era preoccupato dalle mire che Corrado aveva sull’Italia settentrionale. Per scongiurare una tale eventualità era stata da tempo avviata la ricerca di un campione difensore del papa da insediare sul trono di Sicilia come fedele vassallo. A tal proposito il papa aveva contattato Enrico III d’Inghilterra, offrendo la corona di Sicilia prima a Riccardo di Cornovaglia e poi a Edmondo Lancaster, rispettivamente fratello e figlio di Enrico e aveva contattato pure Luigi IX, re di Francia con analoga offerta per il fratello Carlo d’Angiò. Intanto Corrado, il 21 maggio 1254, a soli 27 anni morì di febbre a Lavello. Molti hanno sospettato che nell’improvvisa morte di Corrado ci fosse lo zampino del fratello. A questo punto come erede legittimo rimaneva Corradino, il figlioletto di soli 2 anni di Corrado. Manfredi non perse tempo e decise di concludere le trattative segrete avviate in precedenza con il papa, accettando di diventare, in rispetto al deliberato del concilio di Lione, vassallo del re di Sicilia designato dal papa, Edmondo Lancaster [4], a sua volta vassallo del papa. Il papa scese a Napoli, convinto dagli ambasciatori che Manfredi avrebbe rispettato il trattato, per sovrintendere alla riorganizzazione del regno con l’istituzione di liberi comuni a Napoli ed in altre città in modo da indebolire il governo centralizzato di stampo normanno-svevo e quindi il potere del futuro re. Ma le speranze del papa andarono deluse, Manfredi non firmò il patto, ne fece pubblica disdetta e anzi organizzò il suo esercito musulmano di stanza nella fortezza di Lucera e inflisse una prima grave sconfitta, a Foggia, alle truppe pontificie. La capacità di resistenza del papato fu inoltre fiaccata dalla morte di Innocenzo IV (7 dicembre 1254) e dall’allargarsi del conflitto all’Italia settentrionale con la discesa in campo a fianco di Manfredi, ormai riconosciuto capo indiscusso del ghibellinismo italiano, di Venezia, Genova e di tutte le città ghibelline dell’Italia centro-settentrionale, tanto che il nuovo papa, Alessandro IV, ricominciò a cercare oltralpe il suo campione. In quello stesso anno, inoltre, i baroni di Sicilia riunitisi in “parlamento” riconobbero a Manfredi il titolo di re, rifiutando gli altri pretendenti, sia Edmondo, campione del papa, che Corradino di Svevia, l’ultimo rampollo della casata degli Staufen. Il presupposto che fosse diritto di un “parlamento” di baroni e di notabili eleggere il re era naturalmente in aperto contrasto con il punto di vista del papato e come vedremo in altre occasioni avrà sempre un potere condizionante in eventi futuri.

l'incoronazione di Manfredi

Manfredi, accettata la corona, [5] ripristinò l’assolutismo del padre nel regno di Sicilia e con l’aiuto dello zio Federico Lancia soffocò nel sangue i tentativi di rivolta di quelle città che non intendevano rinunciare alle libertà cittadine. Manfredi cercò anche di emulare il padre espandendosi sia verso nord, dando sostegno alle città ghibelline a cominciare da Venezia e Genova, sia cercando di affermare il suo potere anche nell’area mediterranea. Non disponendo però di forze militari adeguate a fronteggiare impegni di rilievo internazionale fece ricorso alle strategie matrimoniali. Allora le potenze che gareggiavano per l’egemonia sul mediterraneo erano in occidente la Francia e l’Inghilterra, che parteggiavano per il papa, e l’Aragona, che godeva di una certa autonomia, Manfredi quindi strinse un’alleanza con l’Aragona dando in sposa al principe Pietro, erede al trono, la propria figlia Costanza. Dal lato orientale cercò pure un’alleanza e la trovò con il re d’Epiro, Michele II, sposandone in seconde nozze la figlia Elena, destinata a succedergli nell’impero.

Manfredi per circa un decennio divenne un protagonista indiscusso. In Italia avversò Ezzelino da Romano, si alleò con i ghibellini toscani, coi genovesi, con Venezia e appoggiò i comuni piemontesi contro i Savoia. Nel regno di Sicilia invece continuò la politica assolutista normanno-sveva soffocando qualsiasi autonomia comunale, sopprimendo i diritti della chiesa e l’autonomia del clero.

Il destino di Manfredi si decise però quando al soglio pontificio salì un francese, papa Urbano IV. Questi per risolvere la questione siciliana si rivolse alla Francia e ripropose a Luigi IX, il futuro santo per meriti anti musulmani, la candidatura a re di Sicilia del fratello Carlo d’Angiò. Carlo in quegli anni era riuscito a strappare la Provenza agli aragonesi, conquistando un forte potere economico e territoriale. Grazie a questi successi i signori delle regioni d’Italia più vicine alla Provenza cominciarono a riconoscere Carlo quale signore feudale che cominciava quindi a penetrare in quella zona dell’Italia settentrionale cui era interessato anche re Manfredi. Quale miglior candidato poteva scegliere il papa per farsi difendere? La candidatura di Carlo accontentava tutti: il papa che non sarebbe stato stretto dalla morsa Sveva, Carlo che avrebbe avuto un regno e Luigi IX di Francia che avrebbe esteso la sua influenza nel basso mediterraneo. L’accordo proposto da Urbano IV nel 1263 venne concluso dal suo successore Clemente IV, anch’egli francese, così che il 6 gennaio del 1266 Carlo fu incoronato re di Sicilia in San Pietro a Roma. Sul trono del Regno di Sicilia sedevano ora due re. Questa situazione durò poco, appena 50 giorni. Il 26 febbraio le truppe siciliane furono sbaragliate nella battaglia di Benevento e Manfredi deliberatamente cercò la morte gettandosi coraggiosamente nella mischia. Di tutti gli Staufen fu l’unico ad avere una fine così onorevole. Il suo comportamento fu tanto coraggioso da indurre l’Angiò, che pure non era un angioletto, a renderli gli onori funebri ed una cristiana sepoltura. Ma papa Clemente non fu “clemente”, ordinò di riesumare la salma e di seppellirla in terra sconsacrata, in riva al fiume sotto la sabbia finché le acque ne disperdessero le ossa.

Perché Manfredi cedette così facilmente a Carlo? Facile a spiegarsi. Carlo in quegli anni si era costruito un potere economico e politico, attirando nella sua sfera d’influenza le città del nord che prima erano alleate di Manfredi ed aveva alle spalle una potenza come la Francia. Manfredi nei suoi 16 anni di regno aveva assistito invece alla progressiva diminuzione della sua potenza militare, che in verità non era mai stata troppo forte potendo contare solo sulle finanze del regno di Sicilia, aveva visto sciogliersi come neve al sole le alleanze del nord, non aveva il consenso dei sudditi e nessuna potenza alle spalle!

Tuttavia dopo la morte di re Manfredi i ghibellini del nord, quelli di Toscana e i fuoriusciti del Regno di Sicilia, si rivolsero all’ultimo degli Staufen, Corradino figlio di Corrado, appena quindicenne per strappare a Carlo ed al papa la supremazia.

A convincere il ragazzo furono soprattutto quei seguaci di Manfredi che erano sfuggiti alla cattura dopo la battaglia di Benevento riparando in Africa, in Spagna o in nord Italia. Fra loro ricordiamo i Capece, i Ventimiglia, i Lancia, i Filangieri e soprattutto l’ammiraglio Ruggero di Lauria ed il medico Giovanni da Procida. Fra loro ebbe un buon ruolo anche Corrado d’Antiochia barone di Capizzi figlio illegittimo di Federico II, il quale riuscì a resistere agli attacchi che gli angioini sferrarono nell’isola costituendo un focolaio di resistenza che richiamò gli esiliati dalla Spagna e dall’Africa. Corrado Capace e Federico di Spagna organizzarono infatti un piccolo esercito, costituito da spagnoli, tedeschi e saraceni e sbarcarono a Sciacca dando il via ad una rivolta alla quale aderirono buona parte delle città isolane centro orientali (Agrigento, Licata, Noto, Catania, Caltanissetta, ecc) che riuscì a strappare all’Angiò gran parte della Sicilia. Rimasero fedeli a Carlo Palermo e Messina e fu proprio nella cittadella di Messina che gli angioini, guidati da Filippo di Monfort, si rifugiarono.

Con una situazione simile sarebbe stato logico che il giovane Corradino avesse iniziato la sua marcia contro re Carlo dalla Sicilia verso la penisola, mantenendosi coperte le spalle. Inspiegabilmente invece, o meglio “spiegabilmente” se teniamo conto di traditori e cattivi consiglieri, si mise in marcia da nord verso sud, attraversando paesi ostili, come le città guelfe e lo Stato Pontificio senza lasciarsi alle spalle alcun punto di riparo. Appena varcò i confini del regno, Corradino dovette subito affrontare l’Angiò, non potendo però contare su nessun appoggio da nord. Dopo qualche scaramuccia senza importanza i due eserciti si affrontarono a Tagliacozzo il 23 agosto del 1268. Inizialmente la battaglia sembrava andare a favore dello Staufen ma si trattava di una trappola, non appena i soldati di Corradino si abbandonarono al saccheggio degli uccisi, credendo di aver messo in fuga l’Angiò, Carlo piombò su di loro con la cavalleria che aveva tenuta nascosta e ne fece strage. Corradino tentò di fuggire ma fu tradito e consegnato al vincitore.

Pare che l’Angiò avesse chiesto consiglio al papa su cosa fare del prigioniero e da questo fu invogliato ad eliminarlo. Fu celebrato un processo farsa e successivamente fu eseguita la condanna a morte per decapitazione nella Piazza del mercato a Napoli.

La rappresaglia e le repressioni furono ferocissime, degne di un libro dell’orrore. In Sicilia, sede della rivolta, la vendetta fu ancora più spietata anche perché la resistenza sveva durò per altri due anni. I capi della rivolta furono barbaramente torturati e uccisi; le città ribelli, ed erano tante, furono saccheggiate ed incendiate, i cittadini, senza distinzione di sesso e d’età massacrati senza pietà ed in maniera efferata.

Fu questo il biglietto da visita che l’Angiò presentò ai siciliani.

Ma non fu certo la crudeltà della rappresaglia che impressionò il popolo, erano abituati ad assistere a squartamenti, accecamenti, mutilazioni, roghi e quant’altro la fervida immaginazione dei torturatori mettesse in atto. Come sempre ciò che importava era la diminuzione delle libertà baronali e il servaggio da pagare all’angioino, per il popolo contadino in fondo mai nulla cambiava, un padrone valeva l’altro e sarebbe continuato così per molti secoli ancora.

A mettere in forse fin da subito la stabilità del regno di Carlo furono molteplici fattori. Il primo fu certamente l’irredentismo siciliano portato avanti da fuoriusciti quali Ruggero di Lauria, Pietro de Praetio, Enrico d’Isernia ed il leggendario Giovanni da Procida con i suoi figli, che, assieme ad altri, iniziarono una diaspora tra i vari potentati del tempo tesa a tessere una ragnatela che intrappolasse l’Angiò. Altro fattore fu la “mala signoria” introdotta dal francese. L’accusa che il governo di Carlo fosse così repressivo da generare una rivolta è tuttavia da considerare con cautela. La “mala signoria” di Carlo non fu né peggiore né più gravosa di quella sveva, solo stava dalla parte sbagliata, quella papalina e francese! L’unica novità apportata da Carlo fu quella di statalizzare e rendere ordinari quelli che erano stati i traffici privati dell’imperatore Federico II. Analogamente allo svevo promosse gli studi, potenziando l’università di Napoli e proponendo un’università a Roma. Ma non poté certamente ripristinare la situazione d’immunità e privilegio goduta al tempo di Guglielmo II ! Carlo doveva infatti pagare le spese di guerra e compensare i nobili francesi che lo avevano seguito in Sicilia, il che significava tenere per la corona le collette ed i feudi che la dinastia sveva aveva confiscato e confiscare quanto ancora non era stato confiscato. Carlo pertanto stava disattendendo a quanto il papa aveva promesso: la restituzione dei privilegi e dei beni confiscati dal regime tirannico di Federico II.

Un altro fattore ancora fu la trasformazione della struttura sociale della Sicilia. Da anni numerosi coloni provenienti dall’Italia settentrionale scendevano in Sicilia a colmare i vuoti lasciati dalla estirpazione coatta della popolazione musulmana ed ebraica e dalla distruzione radicale di interi villaggi e città. Comunità di mercanti toscani, genovesi, lombardi, ormai sicilianizzati, si erano insediate nelle città e spesso godevano di privilegi quali l’esenzione fiscale che risaliva ai tempi della contessa Adelasia. Carlo d’Angiò si trovò a governare un’isola latina, nella quale greci ed ebrei erano una sparuta minoranza ed i musulmani erano praticamente scomparsi. La stessa Lucera, roccaforte musulmana, fu ricolonizzata da Carlo con agricoltori franco-provenzali. Il mutamento del tessuto sociale lascia pensare che questi signori avessero interesse nell’organizzare la società siciliana alla maniera dei liberi comuni da cui provenivano e che certamente avrebbe dato maggiore spinta alla crescita economica dell’isola.

Il fattore che più di tutti destabilizzò il regno fu comunque la disparità politica tra le due province che re Carlo istituzionalizzò in maniera formale: Carlo operò una scelta che fino ad allora i re siciliani avevano accuratamente evitato, spostare la capitale da Palermo a Napoli. Fin dai tempi di Federico II in realtà la politica si svolgeva nella penisola ma formalmente Palermo e la Sicilia rimanevano la provincia principale del regno, quella che dava il nome all’intero regno. Lo stesso errore fece parecchi secoli più tardi Ferdinando I di Borbone subordinando la Sicilia a Napoli e la stessa reazione dovette subire da parte dei siciliani. I siciliani non accettarono mai di diventare “al di là dello stretto” né di essere governati da amministratori di origine continentale (gli amalfitani)!

Ulteriore fattore di indebolimento fu la slealtà verso la Chiesa; divenendo il capo indiscusso dei guelfi italiani a sud e al nord del papato, Carlo era in effetti il più potente sovrano d’Italia ed uno dei più potenti d’Europa. Era divenuto così ingombrante che nel 1277 la curia elesse un papa romano, Nicolò III, che non ostacolò o addirittura favorì la formazione di un fronte antiangioino.

Per ultimo, ma non meno importante dobbiamo ricordare come Carlo, in linea con le aspirazioni dei suoi predecessori desiderava assumere una posizione di preminenza nell’area mediterranea ma non tenne conto della presenza e degli interessi dell’Aragona, della Catalogna, della Castiglia e del ricostituito impero bizantino. Pietro III d’Aragona, accogliendo alla sua corte i fuoriusciti siculo-ghibellini, quali Giovanni da Procida, Corrado Lancia e Ruggero di Lauria e servendosi dei loro servigi aveva intanto cominciato a tessere una ragnatela diplomatica che agiva dall’esterno e anche dall’interno del regno di Sicilia e inoltre vantava rapporti di parentela maritali con Costanza, figlia di Manfredi, ed erede, da parte sveva, del regno di Sicilia.

Le cose stavano così e Carlo sembrava essere al centro di una cospirazione internazionale quando il 31 marzo del 1282, al vespro, mentre la gente era riunita a festa davanti la chiesa di Santo Spirito la rivolta esplose improvvisa ed incontenibile contro un manipolo di francesi che arrogantemente come sembra fosse loro costume, importunavano le donne.

Fu pertanto logico pensare che “Il vespro” fu il risultato di una lunga cospirazione abilmente tessuta dai fuoriusciti filo-svevi, favorita da Pietro d’Aragona e finanziata da Michele Paleologo di Bisanzio e ben vista dal papa. Di questo avviso è anche Tommaso Fazello, il padre della storiografia siciliana che ne da notizia nella sua opera De rebus siculis, pubblicata a Palermo nel 1558. E questa è la versione storica fino all’Amari per il quale le cose non sembra siano andate proprio così. Fu la fazione filo-sveva che, mentre tramava contro l’Angiò, si trovò ad approfittare di un evento che non aveva organizzato.

Quella che Dante definì “la mala signoria”, fondata sulla violenza materiale e morale aveva determinato alla fine una reazione spontanea a catena in tutte le classi sociali. Scrive l’Amari: “E avvenne che i cittadini di Palermo, cercando conforto in Dio dalle mondane tribolazioni, entrati in un tempio a pregare, nel tempio, nei dì sacri alla passione di Cristo, tra i riti di penitenza e di pace, trovassero più crudeli oltraggi. Gli scherani del fisco adocchian tra loro i debitori delle tasse; strappanli a forza dal sacro luogo; ammanettati li traggono al carcere, ingiuriosamente gridando in faccia all’occorrente moltitudine: “Pagate, Paterini, pagate”. E il popolo sopportava. Il martedì appresso la Pasqua (cadde esso a dì di 31 marzo), si celebrò una messa nella chiesa di Santo Spirito. Allora brutto oltraggio a libertà fu principio: il popolo stancossi di sopportare.” Inizia la mattanza e comincia così l’esperienza comunale di Palermo, Ruggero di Mastrangelo venne eletto capitano della città, assieme ad altri ricchi commercianti e al grido di “buono stato e libertà” le città mano mano si sollevano contro l’Angioino e si organizzano a Comune. Difatti Corleone che insorge subito dopo Palermo, si regge a “comune” e le due città stringono una lega di mutuo soccorso. Nasce in questo frangente la bandiera giallo-rossa siciliana e su sollecitazione di Palermo e Corleone la rivolta divampò in tutta l’isola.

la sala "Ercole" del Parlamento Siciliano

Solo Messina ebbe qualche tentennamento a causa della sua posizione geopolitica che la legava alla parte continentale del Regno. Alla fine però, causa l’ingresso in porto di una galea Palermitana, un popolano, Bartolo Maniscalco, issò il gonfalone e guidò il popolo alla rivolta: viene eletto capitano della città Baldovino Mussone e consiglieri Pietro Ansalone, Nicolò Saporito, Rinaldo de Limogis ed il cronista Bartolomeo da Neocastro. Con Messina si completava il quadro delle insurrezioni, si costutiva la “Communitas Siciliae more civitatum Lombardiae et Tuscaniae” che riunitasi in Parlamento generale nella stessa Messina giurava obbedienza al papa e rifiutava alcun re straniero, analogamente a quanto verificatosi alla morte di Federico II. Ma il “dominio della Santa chiesa” o la “comoda finzione legale” come l’ha definito Amari, doveva essere accettato da papa Martino IV. Ma così non fu perché la curia volle considerare il Vespro come un’insurrezione contro la chiesa e non si fidava di un popolo dove il ghibellinismo aveva sempre prosperato; si venne così a crear un asse franco-angioino-pontificio che mirava a isolare la Sicilia sia dal punto di vista politico che economico. Il ritorno armato di Carlo costrinse la città di Messina ad approntare una strenua difesa, che vide protagoniste le valorose donne di Messina, mentre a Palermo, temendo un ritorno angioino, si cominciò a guardare con interesse a Pietro III d’Aragona, sposo, ricordiamolo, di Costanza erede di Manfredi. Le minacce di papa Martino ed il ritorno di Carlo non erano riuscite a riassoggettare l’isola ma l’avevano spinta a scegliere alla libertà comunale l’alternativa aragonese che accontentava sia il popolo che l’aristocrazia filo-sveva, finendo col dare ragione alle trame pazientemente tessute in 10 lunghi anni.

Il passaggio dalla “communitas” alla monarchia aragonese fu formalmente indolore. I capitani delle città furono lasciati al loro posto e continuarono a rappresentare i loro comuni, fu solo ordinato che ogni municipalità inviasse i propri rappresentanti a prestare giuramento al nuovo sovrano. Il sovrano venne a sua volta eletto dal parlamento con l’impegno di rispettare “i buoni costumi del re Guglielmo”, riallacciandosi al periodo aureo della monarchia normanna.

Con l’avvento degli aragonesi la rivoluzione del Vespro si trasformò in “Guerra del Vespro” una guerra che, come la coeva franco-inglese, durò più di 90 anni e divise in maniera definitiva il regno di Sicilia in due tronconi. Uno con capitale Napoli ed uno con capitale Palermo.

La triste conclusione della rivoluzione del Vespro è la miglior prova che essa scoppiò improvvisa, a furor di popolo, senza un programma autonomo ben elaborato, il che espose la federazione delle “communitas” al tiro di due fuochi ostili, con obiettivi diversi ma con la stessa volontà di distruggerla: da un lato l’Angiò sostenuto dalla Francia e da papa Martino IV e dall’altro Pietro d’Aragona, sostenuto dai fuoriusciti ghibellini, da Giovanni da Procida e Ruggero di Lauria, fedeli agli Svevi e quindi a Costanza e dall’alleanza bizantina che tutto l’interesse aveva a tenere lontano l’angioino.

Fara Misuraca


Note

[1] Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, Sellerio, p 414

[2] Tramontana, La Sicilia, p 277

[3] Dante, Purgatorio, canto III, verso 107

[4] Edmondo aveva assunto ufficialmente il titolo “Edmondus, Dei gratia, Siciliae Rex ” il 25 maggio del 1254

[5] Manfredi fu incoronato Re di Sicilia il 10 agosto 1258 nella Cattedrale di Palermo


Bibliografia

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  • Abulafia D., Federico II, un imperatore medievale, Einaudi, Torino1993

  • Amari M., La guerra del Vespro siciliano, a cura di F. Giunta, Palermo, 1969

  • Kantorowicz E, Federico II imperatore, Garzanti, Milano, 1994

  • Hamel P., La congiura della libertà, Marsilio, 2002

  • Renda F., Storia della Sicilia dalle origini ai nostri giorni, Sellerio, Palermo, 2003

  • Storia della Sicilia, diretta da R. Romeo, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli, 1979-1982

  • Tramontana S., La Sicilia dall’insediamento normanno al Vespro, in Storia della Sicilia, III .

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