È una poesia scritta forse
per gioco in dialetto napoletano da Gabriele d’Annunzio e musicata
da Tosti solo (si pensa) quindici anni dopo, nel 1907. Sulla genesi
dei versi si è molto romanzato e come al solito è comparsa la
storiellina che sarebbe stata scritta all’impronta sui tavolini del
caffè Gambrinus, o, secondo altri, su quelli del ristorante
Lo scoglio di Frisio. Agli aneddoti contribuisce anche
Ferdinando Russo il quale, molto amico del d’Annunzio – in due
articoli apparsi il primo sul Mattino del 19-20 maggio 1910 e
il secondo sul Mezzogiorno del 6-7 settembre 1922 –, afferma
che i versi furono scritti in seguito ad una sfida poetica tra i due
autori in una notte del 1892 nella redazione del giornale Mattino
e che il d’Annunzio si era dovuto fare aiutare dallo stesso Russo
nella “traduzione” in dialetto napoletano di alcuni termini. Il
titolo originale della poesia era Sunettiello e aveva una
dedica autografa a Ferdinando Russo. Il poeta abbruzzese considera
il componimento un divertissement e invita perciò l’amico a non
pubblicarlo. Russo mantiene questo impegno per undici anni dopodiché
fa stampare ’A Vucchella su una Piedigrotta del Mattino
(fascicolo del 4 settembre 1903) presentando i versi con queste
parole: «Anni or
sono, Gabriele d’Annunzio scrisse per scherzo questo dolce delicato
sonetto in dialetto napoletano. Ora il “Piedigrotto del Mattino”
Ferdinando Russo non ha saputo resistere alla tentazione di
stamparlo, certo che il suo grande amico vorrà perdonargli... il
tradimento!». Il
musicista Tosti, che risiede in Inghilterra, e che si trova in
ritardo con le consegne pattuite all’editore Ricordi – forse per la
difficoltà di trovare parole adatte alla musica – nel 1907 decide di
musicare quell’arietta dimenticata: nasce così ’A
vucchella (Arietta di Posillipo), un brano al quale Giulio
Ricordi fa apporre la data del 1892.
La canzone, ma sarebbe
meglio chiamarla romanza, in Italia ha un immediato grande successo
cui segue il riscontro internazionale quando viene inserita nel
repertorio di Enrico Caruso e successivamente anche incisa (nel
1919) dallo stesso. Vediamone allora il testo.
Sì comm’a nu sciorillo
tu tiene na vucchella
nu poco pocorillo
appassuliatella:
Meh, dammillo, dammillo,
– è comm’a na rusella –
dammillo nu vasillo,
dammillo, Cannetella!
Dammillo e pigliatillo,
nu vaso piccerillo (si
ripete)
comm’a chesta vucchella,
che pare na rusella
nu poco pocorillo
appassuliatella...
Si, tu tiene na vucchella
nu poco pocorillo
appassuliatella...
’A vucchella
è una canzone che ha sempre avuto, aldilà dei suoi effettivi meriti,
consensi molto vasti forse perché opera di d’Annunzio o forse
semplicemente perché cantata da Caruso. In realtà essa viene
inserita a torto tra le canzoni napoletane, perché non presenta, né
potrebbe farlo, alcun carattere popolaresco o popolareggiante e a
ciò basterebbe anche solo la paternità dei versi: può mai uno
proprio come d’Annunzio farsi interprete del sentimento del popolo
napoletano? Il testo verbale nato, come detto, forse per caso, ha
ben poco a che vedere con il dialetto napoletano, esso è
essenzialmente una bizzarria di diminutivi più che una vera e
propria composizione poeticamente ispirata. La musica elegante e
raffinatissima presenta i tratti peculiari di una romanza da salotto
ispirata a modelli francesi più che a stilemi tipici partenopei.
Nonostante gli evidenti limiti del
componimento il corteggio di lodi delle quali è sempre circondato il
poeta abruzzese fa dire ad alcuni pseudocritici, ignoranti
dell’idioma partenopeo, che d’Annunzio “reinventa” il dialetto
napoletano (sic!) perché crea un neologismo poi entrato nel
vocabolario poetico dialettale: il termine appassuliatella
(suggerito sembra, invece, da Ferdinando Russo e già presente nel
dialetto napoletano).
Altri, riprendendo l’affermazione del Russo
(... scrisse per
scherzo questo [...]sonetto),
considerano ’A vucchella la composizione più giocosa del
poeta (non potendo d’altra parte, anche con tutta la buona volontà,
considerarla in nessun modo una cosa seria).
I versi possono considerarsi niente più di
uno scherzo, un ghiribizzo del giovane d’Annunzio, un esercizio
verbale e non certo il risultato di una ispirazione profonda: solo
un gioco di allitterazioni, consonanze, iterazioni verbali, rime
esterne e interne, che formano una sequenza di rime basate
esclusivamente su diminutivi con due sole uscite –illo, –ella. La
forma è quella del sonetto (due quartine e due terzine), ma gli
endecasillabi sono sostituiti dai settenari piani. Questo turbine di
diminutivi dei quali l’autore non comprende nemmeno pienamente il
senso di tutti non è certamente una cosa di cui può andare fiero un
vate, un poeta superuomo, un individuo d’eccezione rispetto alla
massa della gente comune, uno che sa cogliere, grazie alla sua
raffinata sensualità, tutto ciò che il mondo circostante può offrire
(!). Vero è che l’uso del dialetto napoletano impedisce all’autore
ogni possibilità di ricorrere ad un linguaggio aulico e raffinato,
di ricercare il termine prezioso, però, come sorvolare sulle
espressioni appassuliatella e sciorillo? Definire la
bocca di Cannetella un pochettino avvizzita potrebbe giustificarsi
solo se il poeta volesse prendere in giro la donna! In tal caso però
si smentirebbe subito dopo, nella seconda terzina, dove elogia
invece quella bocca dicendo che pare na rusella per poi
aggiungere, quasi a prolungamento della lode, nu poco
pocorillo / appassuliatella. Non sembra in definitiva che il
poeta abbia ben chiaro il significato del termine con il quale sta
“reinventando il dialetto napoletano” (forse nella sua mente
creativa appassuliatella voleva avere il significato di
“appassionata”, calda? Chissà?). Ma anche il termine sciorillo
appare fuori luogo: chiamare una persona sciorillo è più
un’offesa che un complimento. Il termine a Napoli indica, infatti, i
fiori di zucca o di zucchina usati nell’alimentazione: è un vocabolo
ben lontano dal significato che assume nella traduzione italiana di
“fiorellino”. Di solito utilizzare il nome di un genere alimentare
come epiteto per un individuo (cocozzie’, pruvulo’, caulescio’,
friarie’, ...) è una derisione a meno che non si parli di
dolciumi (sfogliatella, ciucculatina, ...) o di frutta
particolarmente gustosa (fravula, nanassa, perzechella, ...).
Spogliato, a causa del dialetto, di ogni ricercatezza il linguaggio
poetico del vate, della sua arte fastosa sopravvive solo un leggero
accento edonistico: la focalizzazione di un particolare intrigante
(la bocca) che può dare e ricevere piacere.
La musica, come abbiamo
visto, è di Francesco Paolo Tosti. La collaborazione tra i due
abruzzesi, il poeta ed il musicista, sostenuta da una solida e
duratura amicizia, inizia nel 1880 con la pubblicazione della loro
prima romanza, Visione!... Tosti comporrà complessivamente
trentaquattro lavori su versi di d’Annunzio. Quest’ultimo, che per
tale attività preferisce firmarsi con lo pseudonimo di Mario de’
Fiori, contribuisce non poco, alle fortune del compositore,
portandolo alla celebrità attraverso articoli che celebrano le sue
qualità di musicista e la sua capacità di inventare melodie fresche
facilmente memorizzabili.
’A vucchella,
come canzone napoletana appare anomala sia nella forma che nella
melodia. La forma non prevede la rituale articolazione in tre strofe
seguite da ritornello. Vi è un’unica strofa con alcune ripetizioni
ed in particolare gli ultimi due versi della prima quartina (nu
poco pocorillo / appassuliatella...) si ripetono identici (anche
nella musica) nella terzina conclusiva. La coda finale ripropone gli
ultimi tre versi della prima quartina. La musica, un allegretto
moderato in 3/4 tutto di modo maggiore, presenta fin
dall’introduzione pianistica un accompagnamento molto ripetitivo. La
melodia è divisa in due sezioni una per le quartine e una per le
terzine. Vi è poi una coda finale anch’essa cantata che riprende in
parte, nell’armonia, l’introduzione. Il fitto intreccio di
diminutivi, allitterazioni e consonanze e l’elaborato gioco verbale
vengono recepiti da una linea melodica giocosa pur se venata da un
tocco di malinconia mentre lo schema speculare e ciclico dei versi,
che sembrano regolarmente riproporsi con moto ondivago, trova
sintonia in frasi musicali che paiono volersi avviluppare in sé con
un andamento capace di restituire la percezione di un continuo
ritorno.
L’armonia è semplice, ha uno
scarno accompagnamento con poche e brevi modulazioni ed un ritmo
determinato dai versi settenari. La melodia è arricchita da alcuni
abbellimenti, ma la tessitura vocale, per essere dedicata ad un
tenore, è di estensione limitata (ambito della nona nel registro
medio da Mi3 a Fa4). Questo si spiega se
pensiamo che il brano è destinato al salotto e deve quindi
mantenersi alla portata di interpreti meno dotati. Facilità di canto
e di accompagnamento pianistico, assenza sia dei toni di
melodrammatici che degli impeti operistici imperanti nell’Ottocento
sono infatti la ricetta vincente di tutta la produzione del
musicista abruzzese che ben individua le esigenze del target di
consumatori ai quali destina il suo prodotto. Tosti, nella canzone
resta fedele a ben precise soluzioni formali e stilistiche che
manterrà inalterate nel tempo e che si fondano sulla ricerca di una
fusione ideale fra voce ed accompagnamento pianistico.
Pur costruita sull’impianto
di una romanza, ’A vucchella si sviluppa nel solco di un
antico canto popolare abruzzese. In altre parole, è possibile
individuare nella struttura cólta di questa canzone-romanza
suggestioni musicali tipicamente etniche e agresti, derivanti da
stornelli. In realtà, non è la prima volta che Tosti, trascrittore e
studioso di canti popolari campani ed abruzzesi, compone la sua
musica ispirandosi a tali canti.
Il brano, come tanti altri
scritti dal nostro autore, volendo essere, per le ragioni sopra
viste, di facile esecuzione pianistica e di limitata tecnica vocale
si colloca conseguentemente nel filone delle musiche di facile
scrittura: uno di quei brani che si possono suonare per diporto ma
dei quali Donizetti avrebbe detto di poterne scrivere molti solo nel
tempo necessario a cuocere il riso... Lo stile delle romanze
da salotto segue, infatti, passivamente regole consolidate
(struttura formale bipartita o tripartita, tessitura del canto
contenuta, armonia con accordi ribattuti o arpeggiati, tremoli che
enfatizzano il significato dei versi, …). Si tratta quindi di uno
stile, quello della romanza, privo di originalità e di spontaneità.
Non fa eccezione a questa regola ’A vucchella pure se a suo
favore può vantare una melodia lineare ed abbastanza espressiva ed
un disegno raffinatissimo che la rende, malgrado la ripetitività
dell’accompagnamento, piacevole all’ascolto.
Certo è che il testo di
’A vucchella richiama alla mente quanto espresso da Ildebrando
Pizzetti riguardo i compositori di questo genere musicale: «[...]
quando vogliono scrivere delle romanze, scelgono fra tutte le poesie
che hanno sott’occhio, le più insulse, le più sciocche, o, per
averle come essi le desiderano, se le fanno scrivere apposta da
qualche amico compiacente [...]». Questa stroncatura,
considerata da alcuni non sempre calzante, estremamente riduttiva e,
se non superficiale, perlomeno ideologizzata, appare qui pienamente
appropriata nonostante la presenza di d’Annunzio fra gli autori.
Tuttavia molte sono le lodi fatte alla canzone ed altrettante le
critiche. Una parte della critica elegge questo brano al rango di
«lirica da camera», in contrapposizione con le precedenti
composizioni di Tosti, accusate di superficialità, e ritiene che il
musicista abbia dato a questa romanza tutto lo squisito profumo di
un madrigale d’amore: «[...] Nella sua abbondante produzione,
Tosti non si è mai preoccupato d’altro che di creare una bella
melodia, espressiva, vagamente intonata allo stato d’animo espresso
nei versi. Davanti alle canzoni si direbbe che, per la prima volta,
il musicista abbia coscienza della responsabilità che la poesia gli
impone, e si preoccupa di “interpretare” con la sua musica il testo
poetico [...] Evidentemente il vecchio Tosti comincia a rendersi
conto che la “lirica da camera” come era intesa alla fine del secolo
scorso aveva fatto il suo tempo, e che ormai aveva altre esigenze»
(D. De Paoli).
F. Sanvitale, che ha
dedicato un libro a Tosti, a proposito della canzone, afferma: «L’intuizione
felice del compositore fu di lasciarsi coinvolgere dallo spirito
giocoso dei versi, creando una sensazione di ciclico ritorno, quasi
un nonsense che si compiace dell’effetto fonico prodotto dalla serie
ininterrotta di suoni esplosivi e liquidi. Il rapido movimento
dell’"Arietta” è determinato dallo strumento che esegue gli accordi
sul primo e secondo tempo di battuta, dando l’impressione del
sincopato poiché è vuoto il terzo tempo. La formula ritmica
dell’episodio introduttivo, ripetuto come interludio e postludio,
aggiunge impeto al movimento; l’armonia è molto semplice, e vi sono
poche brevi escursioni alle tonalità vicine. I mezzi tecnici sono,
come di consueto, schietti ed essenziali, ma il risultato è
brillante. La sottile vena malinconica del fraseggio melodico
accompagna con incantevole leggerezza il gioco verbale del testo
dannunziano, raggiungendo un insieme di grande fascino e naturalezza».
R. Meloncelli considera la
canzone un capolavoro: «Indubbiamente alcuni testi, cui Tosti si
accostò con maggiore convinzione, furono di stimolo per capolavori
come la celeberrima ’A vucchella che nel suo andamento ritmico,
dettato dal sonetto di settenari, contiene un sapore
popolareggiante, vicino alle malinconiche atmosfere dell’antica
canzone partenopea» mentre C. De Matteis afferma che «La
fitta trama di iterazioni verbali, di consonanze e di rime esterne e
interne è risolta da Tosti in giocosità canora, resa più pregnante
dalla levità malinconica della fase musicale che apre, scandisce e
chiude il breve componimento. La grazia fonico-ritmica del sonettino
è così riecheggiata da movenze melodiche di concentrata
espressività, nel segno di una vocalità come trattenuta ed attenta
alla tessitura ed al gioco allitterativo del testo, che essa rileva
e blandisce ad un tempo con incantevole leggerezza». Sarà qui
appena il caso di ricordare che questo particolare periodo storico
favorisce la creazione di ambientazioni leggere e frivole:
furoreggiano, infatti, il caffè concerto e l’operetta e nelle sale
di varietà della Roma umbertina i locali come Esedra, Trianon,
Gambrinus vengono frequentati dai nobili, i quali trovano qui, nei
loro salotti privati i brani di Tosti.
Le critiche negative, però,
non sono da meno. Secondo R. Simoni, Tosti: «Non
fu certo un musicista d’eccezione la sua vena nel fondo era popolare»
e il musicologo Andrea Della Corte, che riconosce di assoluto valore
la canzone Marechiare, butta a mare la restante produzione
del Tosti: «scemenze
e goffaggini. Una nausea che soffoca anche l’ilarità. Tosti e Denza,
Tirindelli e Costa appaiono ’eleganti e sensibili’ ma solo in
rapporto alle banalità degli altri, alla loro ’insufficenza
culturale’. E quel poco di tollerabile che fanno è copiato dai
francesi», mentre
V. Ricci afferma: «Uniformità
troppo frequente di atteggiamenti melodici, di ritmi e di sviluppi,
una povertà del tessuto armonico e delle figurazioni
dell’accompagnamento, una scarsa ricerca degli effetti coloristici e
finalmente, impiego limitatissimo dei mezzi tecnici».
Infine la critica di G. Amedeo che, dopo aver stroncato il testo di
’A vucchella, così si esprime nei riguardi della musica «La
musica, scritta da Tosti, non vale di più. In prospettiva quel che
evoca è anche quel che è: un grazioso ninnolo da vecchio salotto
liberty».
In tutti i casi, il successo
della canzone dura da allora fino ai nostri giorni. Essa è stata
incisa oltre che da Caruso dai maggiori cantanti lirici del mondo,
italiani e non: Di Stefano, Corelli, Alagna, Carreras, Albanese,
Bruson, Tagliavini, Lanza, Campora, Angione, Gobbi, Bocelli, Schipa,
Valdengo, Alva, Ben Heppner, Infantino, Pavarotti, L. Gallo, ...
cantanti con trascorsi lirici: Venturini, Vanorio, Pane, N. Gallo,
... cantanti di “voce” o confidenziali: Virgili, Cigliano, Villa,
Sarnelli, Bruni, Calise, Rondinella, Rondi, Napoli, ... e perfino
delle voci femminili: Tebaldi, Ricciarelli, M. Martino, Sastri.
In realtà
tale vocabolo era già stato usato da Salvatore Di Giacomo
nella poesia Ammore abbasato del 1889, un componimento poi
musicato da E. A. Mario: Vuie comm’ all’ uva ’e
contratiempo site, / nu poco poco appassuliatella:
/ embè, ve dico a buie, si mme credite, / nun ve
cagnasse cu na figliulella. Quindi appassuliatella
nel senso di leggermente appassita, avvizzita, sfiorita.
Dire che Cannetèlla (diminutivo di Cànneta = Candida) la
donna della canzone, bella come un fiorellino, ha una
boccuccia un poco avvizzita non è proprio il massimo dei
complimenti!
Renato Gargiulo
Pubblicazione de Il Portale del Sud, aprile 2016 |