Le Pagine di Storia

 

Storie di Sicilia di Fara Misuraca

La nostra lingua nella storia

Medaglia in bronzo dedicata al poeta Giovanni Meli (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire

La questione della lingua in Sicilia (e credo anche nel resto d’Italia) è una storia ancora tutta da scrivere, anche se è stata affrontata da linguisti, filosofi, storici e letterati e adesso viene cavalcata da formazioni politiche con aspirazioni indipendentiste.

Dal punto di vista storico, a noi non interessa il fenomeno linguistico in quanto tale, e cioè se il siciliano debba considerarsi lingua o dialetto. Ci interessa piuttosto analizzare quanto il linguaggio abbia influito nel processo di rinnovamento e di trasformazione durante la transizione dall’età feudale all’età moderna, dove la Sicilia (e non solo) si trovò ad affrontare l’unificazione politica e culturale attorno al nuovo centro politico, Napoli, e al nuovo gruppo dirigente che si andava formando.

Non è un caso infatti che la questione della lingua si ripropone solo quando cominciò a formarsi la borghesia isolana ed è fortemente legato alla rivendicazione della Nazione Siciliana. E’ opportuno tuttavia, per meglio comprendere, accennare a quali fossero le complessità e le contraddizioni della situazione linguistica.

Il siciliano in origine era stato una lingua letteraria colta, una delle lingue volgari illustri con funzioni di prestigio e di egemonia anche nella penisola, e come punta di forza aveva avuto la scuola poetica siciliana ed il fatto che alla corte di Federico II si parlava, si scriveva e si poetava  in arabo, latino greco e, soprattutto, in siciliano.

Questa lingua, comune al popolo, agli intellettuali ed alla corte, sopravvisse alla scomparsa della dinastia Sveva e se ne mantenne l’uso, come testimoniato dai documenti aragonesi, fino alla fine del XV secolo quando la Sicilia, sotto Alfonso d’Aragona e di Castiglia, divenne vicereame e tale rimase per circa 400 anni.

In quel periodo  si verificano anche due  eventi importantissimi: l’invenzione e diffusione della stampa che permise la circolazione di testi in maniera rapida e non immaginabile fino ad allora  ed il consolidamento del predominio spagnolo nel mediterraneo e,  per quel che a noi interessa, nella penisola italiana. La cancelleria di Napoli, centro dei domini d’Aragona, scelse come lingua l’italiano ed essendo la Sicilia parte dei domini spagnoli, anche nell’isola fu adottata la lingua italiana -toscana. Non c’è da meravigliarsi, oggi, ad esempio, grazie allo strapotere dell’Inghilterra prima e dell’America poi, la lingua ufficiale nel mondo è l’inglese.

Questa condizione venne rafforzata sotto Carlo V che riuscì a fare dell’Italia una zona fortemente influenzata dal potere iberico.

Da allora in Sicilia (ma credo anche nella penisola) si diffuse sempre più una diglossia: tutti, popolani e non, parlavano il siciliano ma un siciliano, inteso come lingua, che decadeva e si introfletteva sempre più non essendo più una lingua colta e letteraria e soprattutto non essendo più una lingua scritta; contemporaneamente i ceti colti adottavano l’italiano per scrivere e parlare  proprio per seguire lo sviluppo culturale della penisola. Già verso la fine del 1500 in Sicilia, come in altre regioni italiche, la parlata locale divenne dialetto e l’italiano divenne la lingua correntemente usata nel pubblico impiego, nell’esercito e nelle amministrazioni in genere. Altra lingua diffusa era lo spagnolo, specie nella classe politica, dovendo questa comunicare con il re e la sua corte, spagnoli.

Il siciliano rimase tuttavia come lingua “affettiva”, come lingua della comunicazione familiare e soprattutto come lingua del popolo analfabeta. Era quindi patrimonio di tutta la popolazione, colta ed incolta, abbiente e non abbiente. Era l’unico mezzo di comunicazione reale a prescindere dall’origine sociale, dalla professione e dalla cultura. Le parlate erano inoltre diverse nei diversi territori dell’isola e si differenziavano sempre più mancando un supporto didattico che ne garantisse una grammatica ed una sintassi unitaria. E soprattutto mancava un supporto letterario. Non basta la poesia o la filastrocca  per affermare una lingua, ci vuole il saggio, il romanzo (che forniscono la costruzione sintattica) e il rapporto tra le istituzioni ed il popolo. Questo non può essere mantenuto in lingue diverse ma uniche, Roma insegna.

Il monolinguismo siciliano pertanto coincideva con l’analfabetismo. Chi sapeva leggere e scrivere conosceva almeno due lingue se non tre: il siciliano, l’italiano e lo spagnolo.

In tutte le scuole, sia pubbliche che private ed in quelle dei gesuiti, in particolare, si insegnavano latino ed italiano, mai siciliano, anche se veniva correntemente parlato.

Non conosciamo intellettuale di quel periodo che scriva in siciliano, basta ricordare il Mongitore ed il Villabianca, che pure erano grandi cultori ed estimatori delle tradizione isolane.

La questione del siciliano come lingua nazionale siciliana venne sollevata tra il 1780 ed il1790, (durante i vicereami di Caracciolo e Caramanico e quando era molto potente De Cosmi) dal  principe di Torremuzza e dal  poeta Giovanni Meli i quali  proposero  di riscattare il siciliano dalla condizione di dialetto a quella di lingua nazionale della Sicilia. Non mancarono in quel periodo  neanche tentativi di impegno intellettuale come la pubblicazione del Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino dei  fratelli Pasqualino e le opere in siciliano dei tre maggiori poeti del tempo, Giuseppe Vitale, Domenico Tempio e Giovanni Meli. Costoro però si proponevano di rielaborare un siciliano illustre, ispirato alle strutture dell’italiano-toscano. Ma l’iniziativa non ebbe successo. I motivi del fallimento furono molteplici: la borghesia emergente,ad esempio, non era interessata ad un tale recupero che avrebbe reso difficili le comunicazioni; gli intellettuali, capeggiati da Giovanni Aceto e Agostino De Cosmi ritenevano un indebolimento culturale la regressione ad una lingua locale  che avrebbe tagliato il legame comunicativo con il resto dell’Italia.

Quest’ultimo pur ammettendo che furono i siciliani i primi a scrivere e poetare in volgare è costretto a riconoscere che con l’estinzione degli Svevi si fermò il progresso della lingua e della cultura siciliana mentre il toscano grazie al contributo di illustri scrittori, non soltanto toscani ma di tutta Italia, si è arricchito e nobilitato diventando la lingua di tutti. Infine ebbe anche buon ruolo l’iniziativa del  governo borbonico che nel 1797 introdusse l’obbligo di redigere i documenti  ufficiali in lingua italiana. Chi voleva l’indipendentismo linguistico era, in realtà, solo  l’aristocrazia. Ma questa non cercava il siciliano volgare, mezzo di comunicazione con il popolo basso, ma aspirava ad un siciliano letterario, un siciliano accademico, ricercato e dotto.

Mentre nel resto d’Europa si traducevano in volgare i grandi testi, a cominciare dalla bibbia (Lutero), in Sicilia, l’accademia nazionale siciliana (quella di Vitale e Meli) non solo diffidava di trattare di politica in lingua siciliana ma perfino si rifiutava di trascrivere in siciliano volgare, quello capito da tutti, anche i calendari e i catechismi. Il popolo in questo modo veniva ancor più  emarginato ed allontanato. Per tali motivi tutti i documenti più importanti, a cominciare dalla costituzione del 1812, furono redatti in italiano senza poterli tradurre in siciliano per farli conoscere al popolo. Nessuno  si poneva ovviamente il problema di parlare e comunicare con le masse. Né quelli che scrivevano in siciliano colto né quelli che scrivevano in italiano. A giudizio del principe di Castelnuovo e di Paolo Balsamo, padri del costituzionalismo siciliano “le masse popolari non erano atte a partecipare alla vita pubblica ed era meglio tenerle lontane dalla politica .”  La costituzione del 1812 fu divulgata al popolo tramite il clero, che ne spiegava e commentava il contenuto durante la messa.

La gravità di questo rapporto di subordinazione al clero non fu tuttavia capita neanche dallo stesso De Cosmi che aveva avviato, ai tempi illuministi del Caracciolo,  la riforma pedagogica e l’istituzione delle scuole normali al fine di scolarizzare le masse popolari. La lingua di base da utilizzare fu l’italiano, non il siciliano ed in prospettiva questa scelta avrebbe dovuto emancipare le masse  consentendo loro la possibilità di comunicare. La borghesia però non accettò e non collaborò con questo progetto di alfabetizzazione che avrebbe introdotto un bilinguismo anche fra il popolo.

Le scuole normali affidate alle amministrazioni locali o non vennero istituite per mancanza di fondi o furono abbandonate a se stesse senza alcuna garanzia finanziaria (Ulloa). Anche il re ci si mise ed in qualità di legato apostolico dopo gli avvenimenti del 1820, affidò alla chiesa l’istruzione primaria. Le amministrazioni comunali, quelle poche che erano riuscite ad avviare una scuola, erano soggette al benestare della chiesa nella scelta dei programmi e degli insegnanti.

Il fallimento di questo tentativo di istruzione elementare da parte dei democratici e dei progressisti dovette pagare il fio quando in occasione della riforma costituzionale del 1830 fu previsto che solo chi sapesse leggere e scrivere poteva avere il diritto di voto!

Medaglia 1815 in bronzo coniata a Palermo in omaggio a Giovanni Meli. Clicca sull'immagine per ingrandire. Visita la pagina delle medaglie storiche siciliane.

E’ giusto dire tuttavia che nessuna legge vietava ai comuni di istituire scuole, la verità è che non c’era la volontà di farlo. Si riteneva inutile e dannoso istruire il popolo. Le scuole funzionanti  pertanto oltre ad essere soffocate dal clero erano poche, troppo poche per poter diffondere un’alfabetizzazione  o una cultura minima. Basta solo pensare che a Palermo, una città con circa 200.000 abitanti nel 1852 esistevano solo 7 scuole comunali per un totale di 1200 alunni. In tutta la provincia di Catania, considerata una provincia progredita, nel 1840  esistevano 115 scuole per un totale di circa 4.000 alunni. Pochissime erano quelle comunali, esistenti sulla carta ma inadempienti nella realtà. Il popolo era analfabeta ed ignorante e la sua lingua era stata condannata ad una regressione. Quello che importa non è la lingua che s’impara a scuola ma la possibilità di usarla  e se questo viene impedito non si sviluppa un linguaggio colto e ricco. Farlo artificiosamente, come tentarono il Meli, il Tempio ed altri senza il supporto della diffusione popolare è un esercizio sterile.

Questo che scrivo riguardo il siciliano è estensibile a qualsiasi altro idioma regionale. Non sono le poesiole o le filastrocche od i proverbi a costruire una lingua e la nostra, volenti o nolenti , è stata costruita in italiano che non è “toscano” ma l’evoluzione di un “volgare“, grazie al contributo di persone come  Alighieri, Boccaccio, Macchiavelli, Guicciardini,Petrarca, Tasso, ecc.

Per finire tutte le insolvenze, pagate sempre dal popolo, riuscirono a presentare al momento dei censimenti postunitari un triste primato di analfabetismo….vero!

Fara Misuraca

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