Le Pagine di Storia

Storie di Sicilia di Fara Misuraca

L’arabica impostura ovvero

“La Minsogna Saracina”

 

“Sta Minsogna Saracina

 cu sta giubba mala misa

 trova cui pri concubina

 l’accarizza, adorna e spisa.

 E cridennulla di sangu,

 Come vanta, anticu e puru,

 d’introdurla in ogni rangu

 si fa pregio non oscuru” [1]

Con questi versi Giovanni Meli [2], poeta siciliano (1740-1815) commenta un episodio a lui contemporaneo che da molti storici è stato dimenticato o talvolta ricordato solo per puro divertimento, tralasciandone l’enorme valenza “politica”. Il “fatto” ebbe luogo sul finire del settecento e in concomitanza con la presunta congiura giacobina del giovane avvocato Di Blasi [3] che, sulla spinta delle nuove idee riformiste, sperava di rinnovare gli ordinamenti del Regno, e porre termine alle usurpazioni e agli arbitri dell'aristocrazia isolana.

Un episodio, come vedremo, che è assai più di una semplice impostura a scopo di lucro ma qualcosa che avrebbe potuto influire sullo stato giuridico del Regno di Sicilia.

La storia, si svolge tra il 1782 e il 1795, ed ha come sfondo una Sicilia percorsa da fremiti illuministici. L’isola, e Palermo in particolare, assieme a Napoli e Milano, fu tra le prime in Europa a conoscere e recepire le nuove idee che provenivano dalla Francia. Sia per merito dei viaggiatori del Gran Tour, sia per la presenza di numerosi precettori francesi, quasi un obbligo per le famiglie aristocratiche o solamente ricche. I salotti palermitani erano frequentati da intellettuali che avevano assidue corrispondenze con gli intellettuali napoletani e d’oltralpe e libri e giornali circolavano facilmente grazie anche alla rete di trasporti via mare che in quel periodo si sviluppava ed affermava in tutto il regno.

Medaglia 1815 in bronzo coniata a Palermo in omaggio a Giovanni Meli. Clicca sull'immagine per ingrandire. Visita la pagina delle medaglie storiche siciliane.

La nostra storia si svolge in massima parte mentre era Vicerè il Caracciolo, illuminista e riformatore, nemico giurato della nobiltà feudale siciliana di cui voleva abolire i privilegi, e che per ovvi motivi lo ricambiava con pari inimicizia e antipatia.

L’arabica impostura si deve al “genio” di un oscuro ma intraprendente frate, Giuseppe Vella, originario di Malta dove, dopo aver seguito studi teologici e di varia umanità, entra nell’ordine Gerosolimitano e diventa sacerdote. Vella arriva a Palermo nel 1780 dove usufruisce di un legato perpetuo di messe quotidiane ereditato da una zia suora e non fa certo una bella vita costretto come è a sbarcare il lunario “vendendo” numeri del lotto ai concittadini dei quartieri poveri.

Uno storico dell’epoca, Domenico Scinà, lo dipinge come un perfetto ignorante che «con accento maltese pronunziava un bastardume di linguaggio arabo, anzi una lingua tutta propria di lui» [4]; in realtà che il Vella ignorasse totalmente l’arabo, come sostiene Scinà, e altri suoi detrattori, è improbabile. Certamente, come ritiene il Lagumina [5] «qualche cosa dovea saperne, e quel che sapea, non potea apprenderla qui da noi» ma a Malta dove era in uso una specie di dialetto arabo-maghrebino scritto in caratteri latini, per cui quasi certamente l’abate capiva e parlava l’arabo ma non sapeva leggerlo e scriverlo. E’ utile ricordare a questo punto della storia che nessuno o quasi, a Palermo, conosceva l’arabo né molto si sapeva di quel periodo storico in cui la Sicilia faceva parte dell’enclave musulmano. La conquista normanna per conto del papato e la forzata riconversione al cristianesimo avevano cancellato la memoria storica di quello che indubbiamente fu uno dei più opulenti periodi della storia dell’isola.

San Martino delle Scale. Complesso abbaziale benedettino  fondato da Papa  Gregorio Magno nel VI secolo, distrutto nell'837 dagli Arabi, riedificato nel 1347 dal benedettino Angelo Sinisio e dedicato a San Martino, vescovo di Tours

Ma ad un certo punto il nostro frate viene baciato dalla fortuna. Questa si presenta sotto le vesti di un ambasciatore marocchino che, dopo un naufragio, il 17 dicembre 1782, è costretto a sbarcare sulla costa palermitana e a trascorrere in città il tempo necessario a organizzare la ripresa del suo viaggio. L’ambasciatore non parla italiano e l’unico che può fargli da interprete è Giuseppe Vella che, intuendo che quella può essere l’occasione della sua vita, accetta l’incarico

L’intraprendente frate, col suo maltese e forse un po’ di arabo, gli fa da interprete e lo accompagna nei salotti importanti e nei circoli culturali e politici di Palermo, dove si conquista grazie alla sua millantata conoscenza dell’arabo, la stima di Monsignor Airoldi, appassionato orientalista, e in vari luoghi d’arte e cultura della città, tra i quali il monastero cassinese di S. Martino delle Scale, dove sono custoditi vari codici arabi. 

Il frate, resosi conto che nessuno nella Palermo che allora contava conosceva l’arabo e che le parole dell’ambasciatore restavano per tutti incomprensibili, dà spiegazioni arbitrarie di quel che il dignitario marocchino dice circa i manoscritti conservati nell’abbazia, lasciando credere che si tratti di importanti documenti e si impegna a tradurre egli stesso i codici non appena ne avrà il tempo.

 Dopo la partenza dell’ambasciatore marocchino, “rivela” che uno dei manoscritti arabi conservato a San Martino e che in realtà contiene una vita di Maometto, sia un fondamentale testo storico-politico: “Il consiglio di Sicilia”, una sorta di registro della cancelleria araba in Sicilia, dunque un preziosissimo documento della dominazione musulmana sull’isola, allora molto povera di testimonianze storiche scritte.

Inizia così la “grande impostura” dell’abate Vella: dapprima con un lavoro minuzioso di modifica dei caratteri del codice, inventandosi una lingua del tutto nuova: i caratteri mauro-siculi, con i quali corrompe il testo originario e poi con la “sua” traduzione in italiano, inventata di sana pianta.

Dal nulla o quasi, Vella crea l'«intera storia dei musulmani di Sicilia». Colma i vuoti lasciati dalle poche notizie degli storici. Ma quello che è più importante è che la sua narrazione rende illegittimi i tentativi di riforma dei vicerè Caracciolo che mirava ad assimilare il diritto pubblico siciliano al diritto continentale, contro i privilegi dei feudatari siciliani fondati su diritti patrimoniali quasi sempre nati dall'usurpazione e la falsità. Una prova storica della inammissibilità delle “caracciolate” come sdegnosamente i nobili siciliani chiamavano i tentativi di ammodernamento del regno e la limitazione dello strapotere baronale.

Realizza quindi un’opera di traduzione di pura invenzione e la sottopone a vari uomini colti, tra cui il regio storiografo Giovanni Evangelista di Blasi e monsignor Alfonso Airoldi, giudice dell’apostolica legazia e suo mecenate. Il contenuto del codice documenta secondo il Vella le imprese, l’amministrazione, il diritto pubblico degli arabi in Sicilia. L’argomento entusiasma gli interlocutori, anche per evidenti motivi politici infatti «entrambi trovavano nel codice “tradotto” dal Vella argomenti decisivi contro la tesi napoletana che “riguardava a’ soli tempi normanni come a principio di pace, di libertà di legislazione” [6] e mirava ad assimilare il diritto pubblico siciliano al diritto continentale. Dal codice tradotto dal Vella si evinceva che non erano stati i Normanni a fondare la storia moderna della Sicilia ma gli Arabi. Da qui l’uso politico del “codice” che avrebbe potuto sottrarre all’influenza di Napoli i nobili siciliani. Analizzando questo aspetto dell’impostura riesce difficile credere che il Vella abbia architettato tutto da solo. E’ facile invece presumere che l’aristocrazia siciliana, nelle persone che allora contavano, tenesse corda all’intraprendente abate. Il Vella pensa a questo punto di aver trovato la sua gallina dalle uova d’oro e infatti comincia a ricevere benefici, viene promosso abate e per lui viene creata una cattedra di Arabo all’Università e nel 1792 il suo Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi viene pubblicato dalle stamperie reali. Di li a poco il Codice è tradotto in tedesco e se ne comincia a parlare in tutta Europa.

Non contento di ciò, o forse cosciente che il Consiglio di Sicilia avrebbe potuto inimicargli la corona, sulla scia del “cerchiobottismo” ancora oggi seguita dai nostri politici e non solo, letteralmente fabbrica un nuovo codice, che dice di aver successivamente trovato, che chiama “Il Consiglio d’Egitto”, sempre scritto in quella sua particolare lingua che avrebbe dovuto essere arabo e anche di questo fornisce la traduzione. In questo codice si tratta della corrispondenza epistolare tra Roberto il Guiscardo, il Conte Ruggero, Re Ruggero e i sultani d’Egitto.

Questa seconda impostura, come abbiamo detto, ha lo scopo di attirare l’attenzione e la benevolenza della Corona e dimostra al Re che la nobiltà detiene un potere che non le è dovuto e che il Sovrano è il solo ad aver diritto a quei privilegi che i nobili e la Chiesa di Sicilia hanno sempre considerato loro appannaggio.

Ma ha passato il limite, l’abate. Tra i Siciliani comincia a serpeggiare il dubbio, soprattutto da parte dello storiografo regio Rosario Gregorio, o meglio comincia ad emergere ciò che già si sapeva, che l’Abate Vella abbia ingannato sia i nobili che il Sovrano, che non conosca l’arabo e che sia autore di una truffa colossale, tanto che il Gregorio intraprende lo studio dell’arabo, per meglio rendersi conto della autenticità o falsità dei Codici.

Ma la pubblicità attorno ai codici è stata troppa e i dubbi sulla loro autenticità si moltiplicano. Giuseppe Hager, docente di arabo a Vienna, di passaggio a Palermo nel 1794, chiede di vedere il famoso codice martiniano, ma riceve un ambiguo anche se netto rifiuto. Ne parla col Gregorio e ne informa il Caramanico, che nel frattempo era subentrato al Caracciolo, che a sua volta avvisa a Napoli il ministro Acton; le voci che i codici siano una invenzione si rafforzano e l’avallo fornito da Hager mette in allarme la corte di Napoli; per evitare che il prevedibile scandalo sia fatto esplodere dall’estero, con evidenti ricadute negative per l’immagine del governo napoletano, l’Acton rimanda lo Hager a Palermo, questa volta per un’inchiesta ufficiale sull’autenticità dei codici. Hager a questo punto richiede ufficialmente i codici per poterli esaminare, ma il Vella, ormai alle strette, finge un furto e denuncia la scomparsa di tutti i manoscritti. Nessuno poteva credere ad un così provvidenziale furto e questo diede a molti la certezza della truffa. Il Vella a questo punto si finge malato, poi, miracolosamente guarito, supplica di poter andare in Marocco per recuperare i documenti autentici rubati ma ormai nessuno gli crede più. Viene arrestato e il suo segretario, minacciato di tortura, svela l’inganno; nonostante un maldestro tentativo dei suoi amici di salvare l’autenticità almeno del Consiglio di Sicilia, la perizia dello Hager e le prove della contraffazione [7], accertate durante il processo, portano il Vella ad una condanna a 15 anni, poi commutata in arresti domiciliari nel suo casino di campagna di Mezzomorreale, dove muore nel maggio del 1815.

Le modalità dell’«arabica impostura» sono ben illustrate nella perizia di Hager e in quella di monsignor Adami, arcivescovo di Aleppo esperto conoscitore di Arabo chiamato come perito dal Re.

San Martino delle Scale

Il codice martiniano, scrive l’Hager, «è talmente falsificato mediante caratteri nuovi soprapposti, inchiostro recente, ed innumerabili lineole, e punti oziosi insertivi, che dà a vedere ad ogni conoscitore lo sforzo malizioso di voler renderlo inintelligibile per così velare più facilmentemle sue fallacie […] la sua cura maggiore sembra essere stata quella di artifiziosamente corrompere, anzi di perfettamente cancellare ciò che prima conteneano […] e dalla carta, e dallo stile italiano, e dagli errori e di lingua e di ortografia, e dalle idee europee, che niente annunziano di orientale, e dalle parole aggiunte ne mostra chiara la falsità». (Hager, Notizia riguardante una singolare impostura) [8].

E l’Adami: «1. Consta ad evidenza non essere stato il Codice detto Martiniano in caratteri Cufici o Maoritani, ma elegantemente in caratteri Arabi Orientali, come sono in uso fino al presente appresso i Muslimani, ed in una frase, e sintassi proprie della pura lingua Araba. 2. Si rileva evidentemente esser questo Codice interpolato e corrotto maliziosamente con linee, e punti sopraposti da mano recente ed estera specialmente nella prima pagina, e col cassare totalmente le chiamate solite delle pagine per renderlo quasi illeggibile, e così coprire la impostura della pretesa traduzione […] si conosce evidentemente essere questo Codice una collezione di vari Autori Muslimani continente la nascita del loro profeta Maometto e la storia dei suoi ascendenti, discendenti, famiglia, schiavi, viaggi, carteggio, guerre, vittorie, discepoli, seguaci, profezie, morte del medesimo falso Profeta […] contenere questo Codice tutt’altro, che la pretesa storia di Sicilia […] l’altro codice detto Normanno […] essere questo una traduzione dalla lingua italiana, una lingua araba corrottissima; ad essere più gli errori grammaticali, che le medesime parole, non essendovi alcuna concordanza di casi di generi, di tempi e di persone […] Si vede inoltre una conformità e total consonanza nei termini, nella frase, costruzione dei periodi; finalmente negli stessi errori di grammatica, e di ortografia del carteggio, che si finge essere passato tra i Principi Roberto e Roggero, e gli Califi dell’Egitto, quasi che fosse la stesso persona che scriveva dall’Egitto, e rispondea in Sicilia, e viceversa». (Lagumina, Il falso Codice) [9].

Analizzando oggi questa magistrale truffa certamente siamo portati a pensare che non poté essere solo farina del sacco dell’abate Vella. La falsificazione de “Il Consiglio di Sicilia” fu forse idea originale del Vella e servì ad aprirgli le porte dei salotti bene dell’epoca, ma il successivo “Consiglio d’Egitto” nacque quasi certamente con l’appoggio dei riformisti caracciolani. Aveva infatti lo scopo di correggere il tiro, di colpire la feudalità siciliana e rafforzare l’autorità della corona in linea con il vento di riformismo moderato propugnato dal Caracciolo e dagli illuministi di casa nostra, siciliani e napoletani.

Ma come ben sappiamo ebbe la meglio poi il vento di restaurazione nelle vesti dell’arcivescovo di Palermo e Monreale, Filippo Lopez y Rojo, che alla morte del vicerè Caramanico, subentrò in qualità di amministratore unico. Sono anni cupi, di arresti e di processi contro persone che fino a qualche mese prima avevano collaborato con Caracciolo prima e Caramanico dopo. In concomitanza con il processo e la condanna di Vella si svolge anche il processo e la condanna esemplare, per decapitazione, di Francesco Paolo Di Blasi, collaboratore, come abbiamo già detto, di Caracciolo e Caramanico.

L’arabica impostura non fu comunque senza conseguenze perché, se non altro, aprì la strada agli studi dell’arabo e della storia dei musulmani di Sicilia. Il Gregorio iniziò lo studio dell’arabo e della storia islamica per smascherare il Vella ma trasmise la passione per questi studi ai suoi allievi fino ad arrivare all’Amari e alla creazione dell’Università degli Studi l'Orientale che è ancora oggi vanto di Napoli.

Fara Misuraca

novembre 2007


Bibliografia

  • Giuseppe Giarrizzo Cultura ed Economia nella Sicilia del Settecento, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1992

  • Joshef Hager Notizia riguardante una singolare impostura, in Delle cose di Sicilia, vo lII, pag. 279 e seguenti Sellerio, 1996

  • Paolo Preta, Storie di falsi e di falsari, rivista di Storia mediterranea, edizione internet

  • Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Einaudi, Torino 1963


Note

[1] Giovanni Meli, Gazetta problematica relativa all’impostura di lu codici arabu di l’abbati Vella, citata in Bartolomeo Lagumina, Il falso codice arabo-siculo, «Archivio storico siciliano» n.s., V (1880), pp. 232-314: 251 , riportato da Paolo Preta in Storia di Falsi e di falsari.

[2] Giovanni Meli (Palermo, 1740-1815) nasce da famiglia modesta. Studia per alcuni anni grammatica, retorica, metafisica dai padri gesuiti. Nel 1760 è ammesso nell'Accademia del buon gusto, comincia a comporre versi, prima in italiano, poi in siciliano. In seguito intraprende lo studio della chimica e della medicina e diviene medico a Cinisi, presso Palermo come dipendente dell'abbazia benedettina di S. Martino delle Scale . Nel 1772 si trasferisce a Palermo, dove nel 1787 gli viene affidata la cattedra di Chimica all'università; qui raccoglie e pubblica, in cinque volumi, le sue Poesie siciliane. Nel 1798, quando la Corte si trasferisce da Napoli a Palermo, l'abate Meli è già famoso scrittore. E’ ben voluto dall’aristocrazia che lo accoglie nei suoi salotti e dal re che gli assegna una pensione. (Tratto da Liber Liber, a cura di Ruggero Volpes e Elio Franco Svettini).

Medaglia in bronzo dedicata al poeta Giovanni Meli (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire

[3] Francesco Paolo Di Blasi (1753 – 1795). Intellettuale palermitano, fu collaboratore dei vicerè Caracciolo e Caramanico ma poi, nel 1795, fu processato e decapitato in quanto promotore di una congiura giacobina. Sotto tortura non fece il nome di alcun complice. Aveva conosciuto nel 1773, il giovane Filangieri che si trovava a Palermo in visita allo zio Serafino Filangieri, vescovo di Palermo, che era tanucciano e si muoveva nel solco del riformismo risalente a Carlo III. Filangieri trova a Palermo un ambiente molto fervido intorno al “Giornale dei letterati”, di cui faceva parte anche Francesco Paolo Blasi.

[4] Domenico Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII, Palermo,1827

[5] Riportato in Fabio Pallavicini, Intorno ad alcuni passi del codice arabo-siculo fatto pubblicare da msg. Airoldi, Accademia delle scienze di Torino. Memorie.

[6] Giuseppe Giarrizzo, Cultura ed Economia nella Sicilia del Settecento, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1992, p. 221

[7] La manomissione dei caratteri originali nel “Consiglio di Sicilia” e l’uso di pergamena nuova, invecchiata ad arte, per il “Consiglio d’Egitto”

[8] Joseph Hager, Notizia riguardante una singolare impostura, in Delle cose di Sicilia, vol. II, pag. 279 e seguenti, Sellerio, 1996

[9] In Lagumina, Il falso codice…, pp. 243-45. Riportato da Paolo Preto, Una lunga storia di Falsi e di Falsari, pag. 28

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