Le pagine di Napoli


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Napoli

Napoli sotto ... e sopra

di Ciro La Rosa

 

La Napoli della luce e delle tenebre, delle sue edificazioni e del relativo vuoto nel sottosuolo poiché il vuoto sotterraneo è la “memoria” di quello che si vede in superficie. Infatti, i palazzi sono in diretto rapporto con il “sotto” che è stato in sequenza: cisterna per l’acqua, rifugio contro le persecuzioni religiose e politiche, e durante la II guerra mondiale  riparo contro la morte che veniva dal cielo.

Il protagonista principale che caratterizza la città di Napoli dalla sua edificazione ed urbanizzazione è la solida e leggera Pietra di Tufo, estratta, all’inizio, dalle perforazioni del suolo utilizzate quali vie di comunicazioni dalle case con i canali degli acquedotti e divenute poi “cave urbane” per la costruzione degli edifici posti al di sopra degli stessi scavi; quindi pietra economica e facilmente reperibile insieme alla pozzolana e all’acqua necessaria per le edificazione e per la sopravvivenza. Il primo scavo di una rete idrica si deve ai Greci che fondarono PalepoliPartenope – nel 470 a.C. e poi Neapolis nel 438 a.C.

Nel 1987, in seguito ad un’indagine per uno smottamento nella zona del quartiere di Poggioreale,  due speleologi individuarono sotto la chiesa di Santa Maria del Pianto le cave da cui i Greci prelevarono le prime pietre per l’edificazione di Neapolis.

Entrata Napoli Sotterranea in Piazza san Gaetano

La pietra leggera chiamata “tufo giallo napoletano” è il risultato delle eruzioni vulcaniche della zona flegrea che si estende per 15 Km cubi nel sottosuolo cittadino di struttura porosa, di colore grigio o giallo, nell’aspetto ricorda la sua natura vulcanica, è facilmente tagliabile, a parità di volume con altre pietre è molto più leggera e resistente allo schiacciamento, facile da perforare e da ridurre in blocchi. I primi a sfruttare le sue doti di duttilità furono i Greci che la utilizzarono per costruire le case e scavare centinaia di cunicoli per trasportare e prelevare direttamente dalle case l’acqua; si stima che vi sano circa 100 Km di canali nel sottosuolo napoletano, delle sue caratteristiche morfologiche ne approfittarono anche i Napoletani nella metà del XVII secolo ma di questo ne parleremo in seguito.

Man mano che la città si espandeva aumentavano le vasche e i pozzi per pescare l’acqua  direttamente dall’ultimo piano o dal cortile, si calcola che nel centro storico vi siano circa 12.000 pozzi  -  che dovrebbero essere tutti chiusi -. Tutto questo è opera dell’Uomo i “Cavamonti” e i “Pozzari”, che scavavano con un piccone a due punte detto “smarra” rimasto invariato dai tempi dell’antica Palepoli ed immortalato in un bassorilievo all’ingresso dell’antro della Sibilla Cumana, i quali erano ancora operanti alla fine del 1800.

Gli antichi fondatori di Palepoli sul monte Echia, alto 56 metri, non solo scavarono le cisterne ma anche le grotte Platamonie – oggi Chiatamone -  le cui coste erano allora bagnate dal mare, allo scopo di cavar pietre e realizzare ricoveri per i navigli, attuando la stessa tecnica anche sull’isolotto di Megaride. Essi scavarono anche sull’altura più ad oriente nel 438 a.C. fondando Neapolis, profughi dalle persecuzioni da Cuma, costruita con criteri “ippodamei” -  dall’architetto Ippodamo da Mileto  vissuto nel V secolo a.C. al quale vanno attribuite le regole delle costruzioni nell’antichità: la città di Atene, Rodi e l’istmo del Pireo. Strade perpendicolari con Insule (isolati) regolari e squadrate attraversate da 3 “Cardines” – in greco Stenopoi – larghi 3 metri in direzione est ovest, e da 3 “Decumani” – in greco Plateiai – larghi 6 metri di cui il centrale largo 12 metri in direzione nord sud. Zona ricca di cavità e reperti archeologici che vanno dall’acquedotto greco ai Tribunali al vico Zuroli al complesso di S. Lorenzo Maggiore fin a S. Nicola a Nilo. Venne poi ampliata con l’arrivo dei Romani nel 326 a.C. , la sua planimetria si è mantenuta intatta sino ad oggi grazie all’espansione in verticale dovuta alle caratteristiche del materiale da costruzione la pietra di tufo. L’antico acquedotto fu la strada dalla quale sia i Bizantini nel ‘600 che novecento anni dopo gli Aragonesi entrarono in città da un canale sotto porta Santa Sofia nei pressi della chiesa di S. Giovanni a Carbonara.

Tutto il complesso sotterraneo delle cavità realizzate dai Romani fu per molti secoli, specialmente nel Medioevo,considerato come opera magica del poeta Virgilio, ed in particolare la Crypta Napolitana – galleria che collegava Napoli con la zona Flegrea.

L’acqua raggiungeva l’odierna piazza dei Martiri, zona poi interrata durante il periodo aragonese e nel successivo periodo del Vicereame Spagnolo per ampliare il porto e costruire abitazioni essendo più facile urbanizzare la costa che spingersi sull’irta collina alle spalle.

Monte Echia e la zona di Sant’Elmo furono particolarmente sfruttate come cave di tufo per costruire la prima struttura del Maschio Angioino, il colossale palazzo Cellammare e i palazzi della zona di Posillipo. Tutta la zona che va da Via Chiaia, Morelli, Chiatamone, S. Lucia e Piazza Plebiscito è nel sottosuolo ricca di storia: acquedotto, riparo di barche e merci, cave di tufo e nel 1850 destinata a vie di comunicazioni mai terminate ed infine utilizzate come rifugio  antiaereo durante la II guerra mondiale.

Nel cuore di Monte Echia lo scavo fu infinito: cisterne di servizio per le navi romane, cunicoli del primitivo acquedotto paralleli alla Galleria Vittoria, i vuoti della “cava Carafa” sfruttati nel 1960 per l’istallazione dell’impianto fognario del Comune di Napoli, e per l’impianto dell’ascensore della Telecom che porta direttamente negli uffici della Società Telefonica ubicati accanto alla Scuola Militare della Nunziatella. I prelievi più consistenti si ebbero nel 1500 per la costruzione del complesso della odierna Sezione dell’Archivio Militare di Napoli – ex caserma e poi Istituto Cartografico Borbonico -, palazzo Carafa, il ponte della Maddalena e il complesso del Collegio Militare della Nunziatella. Nel 1630 venne di nuovo attraversato dai canali dell’acquedotto ideato dal Carmignano e dal Ciminelli, di nuovo a metà del 1800 per costruire un tunnel voluto da Ferdinando II per collegare Palazzo Reale con Piazza Vittoria quale eventuale via di fuga, sospeso nel 1855 e mai più realizzato, tracce della sua realizzazione ve ne sono sotto Piazza Carolina, la Basilica di S. Francesco di Paola, accanto alla Galleria Vittoria – tratto utilizzato come garage di ex proprietà comunale - sotto il palazzo della Prefettura utilizzato come rifugio durante la II guerra mondiale e colmato poi per il traforo incompiuto della L.T.R. negli anni ’90. Venne di nuovo traforato nel 1929 per la costruzione della “Galleria della Vittoria” parallela a quella Borbonica.

Nel 2010 è sorta un'associazione "Tunnel Borbonico" il cui sito su internet è: www.tunnelborbonico.info per valorizzare la galleria che congiunge via Morelli con piazza del Plebiscito il tunnel definito "borbonico", lodevole iniziativa che permette in un'ora di percorso di rivivere la storia della nostra città dal XIX secolo al XXI secolo, luogo intriso di storia.

Quando nel settembre del 1884 scoppiò il colera a Napoli mietendo numerose vittime, per la prima volta si andò delineando la possibilità di un intervento governativo che risolvesse gli antichi mali della città, si giunse alla legge per il “Risanamento” emanata il 15 gennaio 1885  voluta dal sindaco di Napoli Nicola Amore. I lavori iniziarono solo nel giugno del 1889, lo scopo principale era quello di bonificare i “quartieri bassi” a ridosso della zona portuale, di S. Lucia, del borgo Loreto, del Lavinaio, dei vicoli fra il Mercato e Forcella e della realizzazione di nuove costruzioni “popolari”  sul Vomero: il “Rione Alto”. Ma l’intervento  di “pubblica utilità” fu del tutto aleatorio poiché su pressione delle Società Immobiliari, tutte dell’Italia Settentrionale, fu stravolta tutta l’esecuzione dell’opera e divenne, di fatto, una pura operazione di speculazione edilizia. Infatti i napoletani, capendone il fine, lo chiamarono “Sventramento”: i ceti popolari pagarono il tributo più alto perché i prezzi delle nuove abitazioni (tutte in stile “umbertino”, falso neoclassico) risultarono proibitivi per le loro finanze, 13.000 persone persero la loro identità e dovettero stabilirsi in altri quartieri popolari, divenuti così ad alto tasso di sovraffollamento abitativo, a ridosso delle nuove costruzioni.

Al termine del “Risanamento” 62 chiese furono demolite,molti palazzi storici tagliati a metà, opere d’arte scomparse ma questa è un’altra storia….

Lo stesso rione Santa Lucia non sfuggì al “Risanamento” subì la triste sorte dell’interramento con la cortina di case che non solo soffocarono lo sbocco al mare dei pescatori “luciani”, ma celarono tutte le cavità sino al Chiatamone, utilizzate oggi come autorimesse, murate o colmate come quelle situate sotto il palazzo dell’Ammiragliato – ex Comando Supermarina.

via Santa Lucia prima dell'intervento

Unico intervento moderno e razionale nel monte Echia è la stazione E.N.E.L. di notevoli dimensioni ubicata in una ex cava  abbandonata, sul pendio est del monte, il cui calore generato dai macchinari viene utilizzato per riscaldare in inverno le aule dell’istituto “Palizzi” situato in Piazzetta Salazar.

Altra zona ricca di cave è il vallone della Sanità, (dove le cave vennero utilizzate come catacombe: S. Gaudioso, quelle sottostanti l’Ospedale S. Gennaro, le zone dei Vergini, i Cristallini e S. Maria Antesaecula), scavato dai torrenti provenienti dalle colline soprastanti formando delle strette gole – Canyon -. Questi terreni hanno dato luogo ad alluvioni che hanno tormentato la zona fino agli anni 50 del secolo scorso, conservando nella memoria collettiva il nome di “lava dei Vergini” che arrivavano a lambire via Foria, imbrigliati poi nei condotti fognari realizzati con l’amministrazione Lauro negli anni 50/60. Le “Fontanelle” quartiere di cave delimitato da alti contrafforti di tufo e dalle costruzioni popolari degli anni ’20 del quartiere Materdei, il quale forniva tufo di ottima qualità. Davanti alla cava più grande, utilizzata come ossario con i resti dei deceduti nei vari morbi dal 1600 al 1836 e delle salme rinvenute con lo “sventramento” e le demolizioni di via Acton avvenute nel 1934, venne costruita una chiesa a fine ottocento chiamata S. Maria Santissima del Carmine alle Fontanelle, ossario chiuso nel 1970 e riaperto al culto nel 1990. Il vallone è tutto pieno di caverne con aperture trapezoidali simili all’Antro della Sibilla, alcune sono crollate ed altre scomparse o inglobate dalla costruzione della metropolitana. Ma anche per la costruzione della tangenziale si incontrarono 50.000 metri cubi di gallerie settecentesche con volte di 30 metri, utilizzate durante la II guerra mondiale come depositi militari o ancora oggi come depositi di automezzi o officine.

via Santa Lucia, la colmata del 1895

Le grotte di Montesanto, le cave del Cavone di Piazza Dante – gola di torrenti provenienti dal Vomero vecchio – le affascinanti  costruzioni le cui pareti sono la continuazione della roccia tufacea su cui poggiano come Castel S.Elmo, Castel dell’Ovo, i toponimi che riportano alle cave e al tufo : “La Pietra” a Bagnoli, i Cavoni, i formali – terminali degli acquedotti – pertuso, pertusillo…sono, insomma, la memoria del nostro passato.

altre immagini di via Santa Lucia prima della colmata (archivio Ciro La Rosa)

La ragione per cui i napoletani su addentrarono nei sotterranei dei centri urbani nel ‘500 per cavare le pietre è da ricercare negli assurdi divieti di costruire sia dentro la città che nei borghi esterni con la promulgazione di 7 “prammatiche” vicereali (leggi), ma gli spagnoli ignoravano che i Napoletani potevano sfruttare il sottosuolo urbano con l’ausilio dei “pozzari” e dei “cavamonti” elevando la città in senso verticale con altezze impossibili per altre pietre, crescendo con palazzi modesti e nobiliari con il vuoto sotto di loro pari alla loro mole, a gran profondità oltre lo strato di terreno che ricopre il tufo, ma spesso poggiavano direttamente sul banco che è diventato la volta di una enorme navata. Esempio lampante  sono i Quartieri Spagnoli nati come acquartieramenti militari di uno o due piani, voluti da Don Pedro da Toledo  tra il 1540 e il 1545, che crebbero in breve tempo vertiginosamente in altezza proprio in virtù delle cave situate sotto i nuovi edifici e sulla collina di S. Elmo, arrivando a scavare dai 40 agli 80 metri. Con il subentrare degli austriaci nel 1707 si bloccò l’edilizia sacra, l’unica permessa, liberalizzando l’edilizia civile provocando altro disordine urbano, privilegiando in seguito l’urbanizzazione verso la zona orientale: Via Marina e via del Piliero creando l’embrione di quello che sarà poi nel periodo borbonico “Il Miglio d’Oro” delle ville vesuviane. Con la venuta di Carlo III nel 1734 ebbe inizio il Regno indipendente. Quindi divenuta di nuovo capitale si incrementò l’urbanizzazione e le pietre per le nuove costruzioni vennero di nuovo  prese dal sottosuolo: la città si espanse dalla zona occidentale a quella orientale così oltre al traforato monte Echia e al bucherellato vallone della Sanità, Fontanelle e Vergini ci si accinse a scavare anche nella zona di Capodimonte; il vasto complesso di cave proprietà Reichlin fornì le pietre per erigere i complessi urbani della “zona collinare”. Queste cavità sono diventate poi a fine ‘800 i serbatoi dell’A.R.I.N.  ex A.M.A.N. -  l’acquedotto napoletano.

Risanamento, l'inaugurazione dell'evento. Archivio Ciro La Rosa

Invece un vero sfruttamento indiscriminato  da rapina è quello perpetrato nel vallone S. Rocco durante il periodo selvaggio dell’abusivismo edilizio negli anni ’70 del XX secolo, quando furono estratte pietre in modo dissennato senza tener conto della sicurezza statica delle cave, provocando oggi condizioni di pericolo nella zona sovrastante con frane e smottamenti o peggio utilizzandole come discariche abusive o di scarico dei liquami della zona ospedaliera, senza dimenticare i numerosi lutti che si sono avuti negli ultimi vent’anni tra la popolazione ed i tecnici addetti al loro controllo, come nella zona di Materdei, i Quartieri Spagnoli, Capodimonte-Piscinola. Le cavità conosciute nel vallone S: Rocco sono 9, l’ultima venne scoperta durante i lavori del metrò collinare nel 1980 nella tratta Colli Aminei-Secondigliano.

Le cave situate nel centro storico furono riattate ed adibite, nel 1943, al ricovero della popolazione dalle incursioni aeree della II guerra mondiale su proposta dell’ingegnere Guglielmo Melisurgo, Dirigente Tecnico del Comune di Napoli, al quale si deve il primo vero studio del sottosuolo Napoletano immortalato nel suo libro “Napoli Sotterranea” pubblicato dalla casa editrice Colonnese.  Grazie alla sua intuizione furono realizzati ben 400 ricoveri con 600 punti di accesso che salvarono la vita a tantissimi Napoletani. Nel dopoguerra vennero abbandonati e demonizzati come se si volesse, così, dimenticare ed allontanare le sofferenze e l’orrore della guerra, diventando discarica di materiale edilizio e di rifiuti urbani, cloache abusive, provocando infiltrazioni nelle condotte dell’acqua e il  conseguente inquinamento e l’incendio dei rifiuti ivi contenuti, uccidendo con smottamenti ed inghiottendo palazzi. Solo negli anni ’90 due rifugi antiaerei sono diventati luoghi di visita storico – culturale, essi sono situati: uno nel centro storico nei pressi della chiesa di S. Paolo Maggiore, e l’altro in via S. Anna di Palazzo, 52 nei Quartieri Spagnoli.

Mi auguro che oggi vi possa essere un attento e mirato controllo statico e di un vero e proprio monitoraggio delle cave napoletane il cui vuoto è attualmente stimato in 2 milioni circa di metri quadrati, delegando e istruendo con alta professionalità i Servizi Tecnici del Comune di Napoli, dei Vigili del Fuoco e della Protezione Civile 

Ciro La Rosa

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