Le Pagine di Storia

 

Pirati, corsari e schiavitù nel Mediterraneo

di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

G. Serpotta, La battaglia di Lepanto, Oratorio di Santa Zita, Palermo

 

Da sempre il Mediterraneo grazie alla sua “privilegiata” posizione geografica è stato centro di attività marinaresche, di commerci e di migrazioni tra le popolazioni che vi si affacciano e con esse si è sviluppato anche un intenso traffico piratesco, legato al commercio delle merci e degli schiavi.

Fernand Braudel ha osservato che nel Mediterraneo la pirateria può considerarsi un’industria vecchia quanto la storia e che, in questo mare, essa è più naturale che altrove e fu praticata in modo aperto da tutte le popolazioni rivierasche. Un’industria però di cui si poteva essere, di volta in volta, protagonisti attivi o passivi e che classificata “pirateria” nel caso dei corsari barbareschi, veniva addirittura definita “crociata”, se invece esercitata dai Cavalieri di Malta o dai Cavalieri di Santo Stefano, anch’essi feroci scorridori del mare. [1]

Le più antiche documentazioni di una presenza piratesca nel Mediterraneo risalgono al secondo millennio a.C. con la presenza di navi dell'Asia Minore e della Fenicia rappresentate nelle iscrizioni pittoriche dell’antico Egitto. Episodi di pirateria sono riportate anche fin dai tempi più antichi della storia Greca e Romana, quando ad esempio, gli Etruschi erano conosciuti con l'epiteto greco Thyrrenoi, (da cui deriva il nome il Mar Tirreno) e avevano fama di pirati efferati. Plutarco attorno all’anno 100 descrisse i pirati come coloro che attaccavano senza autorità legale, non soltanto le navi mercantili, ma anche le città marittime. L'Egeo era un luogo ideale per i pirati, che si nascondevano con facilità tra le migliaia di isole e fiordi, dai quali potevano aggredire di sorpresa e depredare le navi mercantili di passaggio. Le azioni di pirateria erano inoltre facilitate dal fatto che le navi mercantili navigavano vicino alla costa e non si avventuravano mai in mare aperto. Man mano che le città-stato della Grecia crebbero in potenza, attrezzarono delle navi scorta per difendersi dalle azioni di pirateria e iniziarono ad esercitare, a loro volta la pirateria: erano una vera e propria minaccia soprattutto per le navi fenice che trasportavano materie pregiate come ambra, argento e rame.

Partenza della flotta per Lepanto (arazzo, Villa del Principe, Genova)

A quei tempi tuttavia non si faceva differenza tra "pirati" e "corsari" [2] (una distinzione europea di epoca moderna). La pirateria era un modo di essere in guerra senza una dichiarazione specifica. Achei, Cretesi e Fenici aggredivano città indifese, le depredavano e catturavano schiavi da vendere al primo mercato. Con l'estendersi del dominio di Roma in occidente e in oriente e con l’intensificarsi dei traffici commerciali, si ebbe un pauroso sviluppo della pirateria tanto che il senato romano incaricò Pompeo Magno, di liberare i mari dal terribile flagello, ma evidentemente non riuscì nell'intento, tanto che Giulio Cesare, nel 74 a.C. venne fatto prigioniero dai pirati durante un viaggio verso Rodi. Dopo trentotto giorni di prigionia nell’isola di Pharmacusa e il pagamento di un riscatto, una volta liberato, Cesare con quattro galere da guerra e cinquecento soldati, attaccò il rifugio dei pirati, recuperò i cinquanta talenti del riscatto e fece centinaia di prigionieri.

Inserto

Andrea Doria

È estremamente improbabile che qualcuno riesca a contestare la palma di più grande ammiraglio italiano ad Andrea Doria, nato a Oneglia il 30 novembre 1466 da una famiglia che, allora, non faceva parte dell’élite aristocratica che si contendeva il potere a Genova. Perso precocemente il padre, Andrea visse in ristrettezze con la madre fino a quando costei non morì; dopodiché, a diciotto anni, si spostò a Roma, dove suo zio Domenico prestava servizio nella guardia pontificia.

Andrea Doria

Otto anni dopo il giovane si spostò a Urbino, mettendosi al servizio dei della Rovere. Vi rimase solo un biennio, per passare al soldo di Alfonso d’Aragona, Re di Napoli; ma dopo le prime sconfitte spagnole contro i francesi, si risolse a recarsi in Terrasanta per un pellegrinaggio. Al suo ritorno, cambiò schieramento e si mise al servizio di Giovanni della Rovere, che gli assegnò il comando di una compagnia di venticinque balestrieri a cavallo, dei quali il Doria si valse per difendere Rocca Guglielma dall’assalto del celebre Cordoba. Il 23 aprile 1495 l’artiglieria di quest’ultimo aprì una breccia nelle mura, ma Andrea Doria riuscì a impedire che gli avversari sciamassero all’interno della roccaforte gettandogli addosso olio bollente e pece ardente. In seguito si unì al della Rovere a Senigallia, per spostarsi nel dicembre 1502 a Genova, dove si mise a disposizione come mercenario.

Il suo primo incarico di rilievo fu del marzo 1503, quando venne inviato dal doge in Corsica, dove impiegò un quadriennio per reprimere la rivolta di Ranuccio della Rocca.

Del 1513 fu il suo primo incarico come mercenario di mare. Con una sola galea, il Doria doveva disturbare il vettovagliamento alla roccaforte di Briglia, che i francesi di Luigi XII utilizzavano come base per assediare Genova. Andrea risolse la situazione rendendosi protagonista di un abbordaggio ai danni della nave che si occupava dei rifiorimenti. Grazie a quella e ad altre azioni, si guadagno la carica di prefetto del porto, che comportava la responsabilità delle difese navali dalle incursioni dei pirati musulmani, poi equipaggio sei galee a proprie spese e agì con contratti di mercenariato in proprio, sempre contro i saraceni. Di grande rilievo, in particolare, fu la battaglia che combatté a Pianosa il 25 aprile 1519, quando fu aggredito da una flotta di tredici galere del re di Tunisi, che riuscì a sconfiggere sottraendo sei vascelli agli avversari.

Nel 1521 si propose al servizio del re di Francia Francesco I, per conto del quale, nel 1524, vettovagliò Marsiglia durante l’assedio cui l’avevano sottoposta gli spagnoli. Ma il condottiero andò ben oltre i propri compiti, e riuscì anche ad allontanare dal porto la flotta imperiale, largamente superiore alla sua, per inseguirla lungo la costa, approfittandone per saccheggiare Savona e Varazze. Quindi affrontò in battaglia l’ammiraglio spagnolo Hugo de Moncada, sconfiggendolo e facendolo prigioniero.

Dopo la sconfitta francese di Pavia, il Doria passò al servizio di papa Clemente VII, che cerco di rifornire da Civitavecchia durante il sacco ispano-tedesco di Roma del 1527. Dopo la caduta della città capitolina, ripassò al servizio dei francesi, per conto dei quali riprese l’assedio a Genova, che aveva già iniziato nel corso dell’estate 1526 al servizio del papato. Nell’agosto del 1527 favorì, anche in termini diplomatici, la resa della sua città, il che gli valse la nomina a luogotenente del re di Francia nel Mediterraneo e l’ordine di San Michele. Ma i frequenti contrasti strategici con la corte francese, e il mancato rispetto degli accordi da parte del sovrano, che non aveva restituito Savona ai suoi concittadini, lo indussero a passare, il 30 giugno 1528, agli imperiali, per uno stipendio annuo di 72.000 ducati d’oro, quasi doppio rispetto a quanto percepiva dai transalpini.

Dall’imperatore, il Doria ottenne l’incarico di luogotenente generale ed il comando dell’intera flotta dell’impero. Per conto del nuovo committente esordì liberando Napoli dall’assedio francese, facendo pervenire alla città vettovaglie da Ischia e dando il colpo di grazia alle forze transalpine, già provate dalla peste. Quindi si spostò a Genova, che occupò il 12 settembre, raccogliendo a fine ottobre la resa del governatore francese, che si era asserragliato nel Castelletto. Carlo V lo insigni del Toson d’Oro e del principato di Melfi, nonché del Cancellierato di Napoli e del marchesato di Tursi; avrebbe potuto conseguire anche il dogato, ma era un uomo d’azione, e si accontentò del titolo di "Padre e Liberatore della Patria", e di far parte del collegio di cinque sindaci a supporto del doge, dedicandosi alla lotta contro i musulmani di Solimano II.

Dopo un’altra spedizione fallita sulle coste africane nell’estate 1531, si fece promotore di una campagna in Grecia per costringere i turchi, profondamente incuneati in Europa centrale, a guardarsi il fianco marittimo. Nell’estate 1532 opero pertanto lungo le coste elleniche, conquistando Corone e Patrasso, respingendo l’anno successivo un tentativo turco di riconquistare il primo caposaldo, sconfiggendo la flotta di Lufti Pascià, e costringendo i musulmani ad arretrare il fronte interno verso est.

Sul fronte marittimo, Solimano trovò un degno contraltare al Doria lasciando mano libera al pirata algerino Khair ed-din, detto Barbarossa, che si rese protagonista di una serie di incursioni lungo le coste italiche e della conquista di Tunisi. Alla volta di quest’ultima si diresse Andrea Doria, partendo nel maggio 1535 da Barcellona, alla guida di una vasta flotta imperiale. Le operazioni a Tunisi, tuttavia, si rivelarono inconcludenti, sebbene valessero ai cristiani lo sterile possesso del porto e della città.

L’anno seguente l’ammiraglio sconfisse la flotta turca nei pressi di Corfù; ma nel 1537 il comando generale della marina ottomana fu assunto dallo stesso Barbarossa, e le cose si fecero di colpo più difficili per il genovese. Da allora, Andrea Doria ebbe varie occasioni di scontrarsi col pirata algerino: ma nel 1538, a capo di un’altra vasta flotta dei principali stati cristiani, se lo lasciò sfuggire a Prevesa; e addirittura evitò di attaccarlo ad Algeri, dove pure si era diretto nel 1541 con una potente flotta proprio per stanarlo. Invece, i due si incontrarono amichevolmente nel 1544 a Genova.

Da allora, i maggiori impegni che Andrea Doria dovette affrontare furono di ordine interno, relativi, cioè, a rivolte contro il predominio della sua famiglia e degli spagnoli, che lo costrinsero a fuggire più volte dalla città ed a spargere molto sangue per ribadire il suo potere. Tuttavia, nonostante fosse ormai quasi nonagenario, ebbe ancora modo di condurre delle campagne sul mare contro i nemici dell’impero. Nel 1550 condusse un’azione in Tunisia contro Dragut, soffiandogli due roccheforti; alla ripresa delle operazioni, l’anno seguente, colse un nuovo successo a Bou Grara.

Prima di ritirarsi, Andrea Doria agì ancora in Corsica, conducendo la repressione di una ribellione, come mezzo secolo prima. Concluse la propria carriera nel 1559 a Napoli, la cui difesa sostenne contro le truppe francesi e papali, per morire, novantaquattrenne, il 25 novembre dell’anno successivo.

Valutazione

Se Andrea Doria fosse rimasto uno dei tanti capitani mercenari sul suolo terrestre, probabilmente la Storia si sarebbe scordata di lui. Seppe invece aprirsi un nuovo fronte e trovare la sua dimensione sul mare, divenendo un mercenario di altra categoria, in un ambito dove la concorrenza era senz’altro minore e la necessità di una specializzazione maggiore.

Dotato di un’ampia visione strategica, acquisì in breve tempo un’accurata conoscenza dello scacchiere in cui operò nel corso della sua lunghissima carriera, ovvero il bacino mediterraneo, e dell’arte della navigazione; la sua competenza, la solidità che contraddistingueva il suo modo di agire, le temerarie azioni di cui sapeva rendersi protagonista, lo resero il più richiesto ed il più pagato degli ammiragli della cristianità. Non fu in grado di fare miracoli, al contrario del suo antagonista Barbarossa, ma i suoi committenti non riuscirono mai a fare a meno di lui, anche dopo scacchi, come quelli subiti dal rivale algerino, che sarebbero costati la carriera e forse la vita ad altri ammiragli.

Profondamente invischiato nella politica europea e ancor più in quella della sua città, Andrea Doria fu il più fortunato tra i mercenari che trassero dalla loro abilità militare vantaggi di carattere politico, esibendo spietatezza e crudeltà nella vita civile in misura maggiore di quella dimostrata in ambito militare. In generale, la sua longevità gli consentì di fruire per oltre un sessantennio di carriera dell’inestimabile privilegio dell’esperienza, che lo trasformò in un’istituzione, probabilmente valorizzata al di là dei suoi meriti e talenti.

La battaglia: Tunisi

Nel 1512, il senato di Genova assegnò ad Andrea Doria dodici galere con le quali effettuare una rappresaglia contro la Goletta, il porto di Tunisi a quel tempo base dei pirati barbareschi condotti da Aruj, che avevano appena sottratto alla repubblica una galera. Sebbene la stagione fosse già tarda, il momento sembrava propizio, perché il corsaro era stato gravemente ferito nel tentativo di espugnare una fortezza spagnola, ed alle difese del porto c’era suo fratello Khizr, più giovane, destinato a divenire il celebre Barbarossa.

Il turchi non si aspettavano un attacco in quel momento, e si fecero sorprendere con tutte le navi nel porto, ovvero dodici galeotte. L’ammiraglio genovese ancoro la flotta al largo ed inviò a terra un cospicuo contingente di truppe da sbarco, mentre Khizr affondò meta delle sue imbarcazioni, per impedire al nemico di impadronirsene, e poi salpò con le altre sei ad affrontare i genovesi. Fu un tentativo velleitario, che si risolse in una disfatta: le galere del Doria erano più robuste e meglio equipaggiate del leggero naviglio turco, e i suoi cannoni seminarono lo scompiglio negli equipaggi avversari. Spazzata via la flottiglia nemica, il condottiero poté sbarcare altre truppe e respingere i soldati musulmani entro Tunisi; ciò gli consentì di dare l’assalto al forte che sovrastava il porto, nel quale i suoi entrarono in breve tempo, per poi demolirlo. A Genova, Andrea Doria si portò sei galeotte, oltre alla nave genovese di cui i corsari si erano impadroniti poco tempo prima.

Con la caduta dell'Impero Romano d’Occidente i commerci marittimi diradarono sempre più e, per alcuni secoli, la pirateria scomparve dal Mediterraneo, anche perché nessuna potenza mediterranea era più forte di quella bizantina. Gli unici che, a partire dall'VIII secolo, ebbero il coraggio di compiere incursioni piratesche sui territori bizantini, furono i saraceni che erano considerati fuorilegge dallo stesso Regno Arabo di Spagna. [3]

In quel periodo ripresero i commerci mediterranei fra occidente e oriente, in particolare per opera delle città marinare italiane: Amalfi, Pisa, Genova, Gaeta, Venezia; piccole navi mercantili facevano la spola tra i porti bizantini e quelli delle coste mediterranee meridionali e occidentali dalla Siria alla Catalogna. E con essi riprese la pirateria.

Grazie alla pirateria si sono costituiti molti patrimoni signorili, ma nel passato non si rubavano solo ricchezze, ma anche uomini, da utilizzare o rivendere come schiavi, e se erano di alto rango potevano essere riscattati.

La corsa e la pirateria, endemiche nel mediterraneo, sono state considerate per secoli come attività da combattere solo se dirette contro il proprio commercio e le proprie coste ma da favorire se praticate a proprio vantaggio. E' solo in tempi recenti, molto dopo la nascita degli stati-nazione intesi in senso moderno, che il vocabolo assume il significato odierno, quello di minaccia per gli scambi commerciali e passeggeri.

In precedenza non esisteva neppure una chiara linea di demarcazione tra corsa, pirateria e commercio; del resto, lo stesso trasporto di merci via mare era un'impresa di vita o di morte, motivata non tanto dal desiderio d’avventura ma dal guadagno economico.

La pirateria e la guerra di corsa sono cresciute in maniera esponenziale nel Mediterraneo nei secoli XV, XVI e XVII, quando le rivalità fra aragonesi ed angioini prima e tra francesi e spagnoli poi, si sono acuite a causa della frammentazione e della conseguente debolezza degli stati italiani - con l'eccezione parziale di Venezia [4] per via del suo dominio sull’Adriatico - rendendo i mari antistanti la penisola un ambito territorio di scorrerie. [5]

Durante il secolo XV, tuttavia, la pirateria è ancora esercitata su scala minima, da piccole imbarcazioni che attaccano chiunque ed è solo dalla fine del XV e nel secolo successivo che i pirati si trasformano sempre più in corsari, e inseriscono la loro azione in un disegno organico guidato dai governi dei vari Stati o Città-stato.

Il contesto storico vede da una parte turchi e barbareschi e dall’altra cristiani. In realtà, di continuo, si formano e si disfanno coalizioni; nazioni cristiane in concorrenza tra loro, come la Francia e l'Inghilterra, appoggiano a turno i corsari turchi piuttosto che darla vinta alla Spagna e viceversa.

La flotta in navigazione per Lepanto (arazzo, Villa del Principe, Genova)

La guerra di corsa e la pirateria non erano però come ce le rappresentano i film hollywoodiani. In genere nel mediterraneo non si assaltavano navi che trasportavano oro o metalli preziosi - né i corsari erano dei belli e dannati adorati da eroiche e bellissime donne - anche se non mancavano gli assalti effettuati, in vicinanza delle coste dell'Asia Minore, dai corsari dell'ordine Ospitaliero o da quello di Santo Stefano ai danni dei galeoni e dei caramussali [6] che trasportavano a Costantinopoli il tributo annuale dei sudditi. In genere il bottino era costituito da carichi di spezie, vino, formaggi, seta, legname, minerali, derrate agricole, soprattutto frumento dai paesi produttori ai mercati di consumo [7] e uomini e donne, da rivendere come schiavi o per chiederne il riscatto.

Ai mercati di schiavi di Algeri o di Tunisi corrispondevano quelli cristiani di Livorno o di Genova o Trapani e Palermo.

Scrive Braudel in Civiltà e imperi del mediterraneo nell’età di Filippo II: “in tutto il mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ’universi concentrazionari’“

La Corsa quindi non è fenomeno solo cristiano o solo musulmano. Nel Mediterraneo è norma generale, ed è praticata da Algeri a Tunisi, come da Malta a Genova.

La peculiarità dei pirati barbareschi delle città-stato come Tripoli, Tunisi, Salè ed Algeri nei confronti della corsa marittima "non era tanto il ricorrervi – ché tutti lo facevano - quanto il fatto che quegli stati avessero trasformato una simile attività nel principale motore della loro stessa vita economica." (Lenci, M., Corsari. Guerra, schiavi, rinnegati nel Mediterra-neo, Carocci, 2006). Era il loro modo di far quadrare il bilancio.

È da notare che molte città di mare note come grandi centri corsari divennero contempo-raneamente, grandi centri commerciali e si arricchirono notevolmente, perché per rivendere i bottini, le prede, per organizzare il riscatto degli schiavi, per armare le navi, bisognava creare le necessarie infrastrutture e le giuste condizioni economiche. Si venne a creare un indotto che sfamava e arricchiva l’intera popolazione.

I principali centri corsari del Mediterraneo furono, da parte cristiana, La Valletta, Livorno, Pisa, Napoli, Messina, Palermo, Trapani, Palma di Maiorca, Almeria, Valencia, Segna, Fiume; da parte musulmana, Valona, Durazzo, Tripoli, Tunisi, Biserta, Algeri, Tetuan, Larache e Salé.

Un’analisi dei fatti, scevra quanto più possibile da preferenze e tifoserie religiose, ci dimostra che accanto ai costanti attacchi operati dalle coste della Barberia (grosso modo le coste dell’odierno Maghreb) da parte di entità statali che dalla «guerra di corsa» traevano buona parte del loro sostentamento, in terra cristiana si organizzavano non solo cospicui affari alimentati dalle attività delle diverse Compagnie specializzate nel riscatto di individui fatti prigionieri dai barbareschi (le prime furono gli Ordini dei Trinitari, dal 1198, e dei Mercedari, dal 1235, attivi specialmente in Spagna e in Francia), ma soprattutto dalle vere e proprie razzie a danno delle città costiere della Barberia attuate dalle marinerie dei Cavalieri di Malta e dei Cavalieri di Santo Stefano (questi ultimi con sede a Pisa e Livorno), veri e propri corsari, che hanno prodotto il poco noto fenomeno degli schiavi musulmani che per un lungo periodo della nostra storia moderna hanno svolto varie mansioni nella nostra penisola, malgrado a lungo sia circolata l’opinione che i soli «pirati» del Mediterraneo fossero musulmani.

Inoltre, se per le reggenze di Algeri, Tunisi e Tripoli il prigioniero valeva essenzialmente il riscatto (per cui, prede particolarmente ambite erano gli appartenenti a famiglie d’alto rango. Prigionieri particolarmente illustri “riscattati” furono il siciliano Antonio Veneziano [8] e lo spagnolo Miguel Cervantes [9]). Per i cristiani, invece, i prigionieri diventavano “schiavi” maghrebini - che raramente venivano richiesti indietro – i quali diventavano oggetto di commercio interno e venivano impegnati nel servizio pubblico (ad esempio come rematori sulle galere) o in ambito domestico )specie le donne), e particolarmente rilevante è il fenomeno degli schiavi africani utilizzati in Sicilia tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento per il lavoro nei campi. Da qui il famoso detto “Cu pigghia un turcu, è sou” (Chi arraffa un turco ne diventa proprietario) che fa da controcanto al più famoso “Mamma li turchi!” (Aiuto madre, arrivano i turchi!).

Le flotte schierate a Lepanto (arazzo, Villa del Principe, Genova)

Nel 1510 per ordine di Ferdinando il Cattolico, quel che rimaneva della popolazione di Tripoli, dopo uno dei tanti massacri venne venduta a Palermo e arrivarono tanti schiavi che il prezzo calò e le galere degli stati di Ponente rinnovarono le loro ciurme e su questa fiorente attività la tesoreria siciliana lucrava un’imposta detta “quinta”. [10] (Trasselli, Da Ferdinando il cattolico, a Carlo V, Rubettino)

Notizie dettagliate di quel mondo le apprendiamo anche dall’opera seicentesca di Fra Diego de Haedo Topographia e historia general de Argel, che ci rendiconta, tra l’altro, della massiccia migrazione di italiani verso il regno ottomano. Erano questi, emigranti della fede che si facevano musulmani, “turcos de profesion”, e che divenivano corsari e mercanti di schiavi.

Per quanto concerne il Regno di Sicilia, anche qui si ebbe una spiccata tendenza a camuffare da “guerra di corsa” la pura e semplice pirateria necessaria a supplire la cronica insufficienza del potenziale marittimo militare fin dai tempi di Re Martino il giovane. Sono tempi di ferocia e corsari “legittimi”, o pirati che fossero, imperversavano per il Mediterraneo e a farne le spese erano, oltre alle galere commerciali, i poveri marinai che venivano catturati e rivenduti come schiavi.

Terribili erano i Genovesi tanto che nel 1480 il Viceré De Spes conclude con Genova un armistizio che tuttavia fu assai poco onorato, specie dai Genovesi. Questi infatti godevano di una protezione speciale da parte di un pirata loro compatriota assai potente: il cardinale Paolo Fregoso “che ambizioso com’era, più volte si era impadronito della Ducale dignità; ma discacciato dalla fazione contraria, e fuggendo, dopo che il duca di Milano si era impossessato di Genova, si compiaceva di esercitare lo scandaloso mestiere di corsaro” [11]. Anche i Savoia esercitarono lo schiavismo e la guerra corsara, dando licenza e autorizzazione a Gugliemo Prebost di operare nei mari di Barberia. I siciliani comunque non restano certo a guardare: Il maestro portolano, Francesco Abatellis, alla fine del 1400, mise in fuga le Fuste Turche e riuscì a razziare le principali città della Barberia.

Temibili pirati erano anche gli abitanti di Lipari, che allora appartenevano a Napoli, spesso alleati dei pirati e corsari Saraceni e che assaltavano i legni siciliani, genovesi e quant’altro.

Molti furono i viceré che armarono galere per fare in proprio la guerra di corsa, predando con la scusa di contrastare i pirati turchi. Tra questi ricordiamo il viceré duca di Feria, che armò un galeone chiamato “Arca di Noé” e il viceré Bernardino de Cardinas, duca di Maqueda, che si arricchì moltissimo ma, narra la legenda, ne morì perché in una cassa portata a corte, insieme al ricco bottino vi trovarono un cadavere che, probabilmente morto di peste, contagiò il viceré che morì di lì a qualche giorno.

Marcantonio Colonna è addirittura accusato di complicità con il famoso corsaro Uluch Aly, un calabrese rinnegato con cui intrattenne un carteggio.

Quando, cosa non troppo rara, la carestia colpì qualche paese mediterraneo, la pirateria venne usata per procacciare grano. Nel 1516, il viceré Moncada, per ovviare alla carestia che affliggeva la città di Messina, concesse il diritto di corsa al nobile Giovanni Enguili e concesse “di predare tutte le vettovaglie che ritrovassero” [12] Senza distinzione di nazionalità o religione. Una tale abitudine era diffusa anche tra i turchi, i napoletani e i maltesi.

Le flotte in battaglia a Lepanto (arazzo, Villa del Principe, Genova)

Riguardo il meridione d’Italia, famoso e importante centro piratesco, di cui si ha buona documentazione, fu Trapani. Ne il Novellino (a cura di G. Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1957, p. 221), Masuccio Salernitano, scrive «Trapani, cità nobile de Scicilia, como multi sanno, è posta ne le postreme parte de l’isola, e quasi più vicina in Affrica che altra terra de’ cristiani; per la cui accagione i trapanisi multo spesso con loro ligni armati corsiggiando discorreno le spiagge e rivere de’ mori, fandove de continuo grandissime prede, e anco loro sono a le volte da’ mori depredati; de che spesse volte avviene che, per contrattare gli recatti de’ pregioni, da parte in parte vi fanno le tregue, e portano le mercanzie, e comparano e vendono, e con gran facilità pratticano insiemi; per la quale ragione pochi trapanisi sono, che non sappiano le circustanzie de’ paesi de’ mori como sanno le loro medesme».

Anche Salomone Marino esalta le doti degli «audaci marinai di Trapani, che coi loro minuscoli liutelli e la primitiva arma dei ciottoli, non solamente sanno vincere e predare le fuste e le galeotte dei corsari barbareschi, ma tengono rispettate le spiagge trapanesi e paventati e indisturbati esercitano la pesca fin nei lidi africani” (G. Bonomo, Schiavi siciliani e pirati barbareschi, Palermo, Flaccovio, 1996, p. 36).

Interessante, e talora intrigante, è la documentazione raccolta da Bonomo sugli usi che i Trapanesi, ma non solo i trapanesi, facevano degli schiavi: “A Trapani tra il 1590 e il 1610, scrive il Bonomo, molti personaggi che vivevano di rendite di proprietà non terriere, possedevano e avevano in affitto schiavi e schiave addetti ai lavori casalinghi. Non sempre chi comprava schiavi li impiegava direttamente: c’erano mercanti che li compravano per darli in affitto, individualmente o a gruppi, a terzi, che li richiedevano per lavorare nei campi o nelle masserie, per cavare pietre, per costruire case, ecc.”

Il numero delle schiave superava dell’80 per cento quello degli schiavi. Almeno nelle registrazio-ni. Nel secolo XVI, le famiglie siciliane che possedevano schiavi erano tenute a denunziarli e venivano denunziati sia tra le “anime” che tra i beni mobili (“gabella degli schiavi e bestie erranti”).

Un quadro delle piccanti vicende domestiche legate alla presenza di belle e giovani schiave a Trapani nel secolo XV è fornito da Carmelo Trasselli. Da alcuni rilievi del 1593 si evince che nelle famiglie presso cui vivono giovani schiave è frequente la presenza di figli naturali. “Insomma molte case trapanesi erano di fatto privati postriboli o, se si vuole un’espressione meno cruda, dei variopinti ginecei con ragazze di razze spesso diverse (...)”. [13]

Non meno interessato alla schiavitù domestica era il clero secolare, presso cui più numeroso si contava in proporzione l’elemento servile. A Trapani per gli anni 1658-62 su cinque persone che esportano soggetti servili due sono sacerdoti. Da parte di alcuni addirittura si crede che quasi tutti gli ecclesiastici possedessero schiave. [14]

Non meno importanti sono i dati che lo stesso studioso fornisce alla materia dei “riscatti” degli schiavi e ai “cartelli” affaristico-malavitosi e, forse, proto-mafiosi che ne gestivano il controllo. A tal proposito riportiamo un brano tratto da G. Bonanno, Schiavi siciliani e pirati barbareschi (pp. 138-139 e 142-143): «La parte più angosciosa della “storia” di Ballature è connessa alle vicende del riscatto. Dal suo racconto emerge che in Tunisia il riscatto degli schiavi era in subordine ai traffici intrattenuti da intermediari della Redenzione di Palermo per conto di potenti personaggi di Trapani con altrettanti di Tunisi. Ciò comportava grave danno ai “poveri schiavi”, quelli non “raccomandati” dai trapanesi. Ballature era tra i poveri schiavi e di tale condizione ne faceva personale tristissima esperienza. Quando l’agognata liberazione gli sembrava prossima, doveva constatare che altri schiavi venivano liberati che non avevano più anni di schiavitù - lui era schiavo da dieci anni -, non erano nella lista dei riscattandi curata dalla Redenzione, né a questa era stata versata per loro alcuna somma di denaro a titolo di contributo o di anticipazione per il riscatto. Gli schiavi liberati erano trapanesi, privilegiati da quel padron Salvatore e da altri intermediari al servizio di gente ricca e potente di Trapani, a quel tempo una delle città più grandi e ricche del regno di Sicilia. Può suscitare indignazione per il fatto in sé e il modo di comportarsi di quel Salvatore, ma non fa meraviglia se i riscattatori operanti a Tunisi erano “consultori et amici” trapanesi, compreso un “cappuccino laico”, esecutori di ordini imposti da Trapani. Ballature accenna a trapanesi che possedevano navi, scudi d’oro, e perciò “tanto si facea per la Redentione quanto volevano quessi trapanesi” che riscattavano coloro per i quali avevano interesse “et quelli poveretti per li quali le loro genti si hanno venduto insino alle cenneri”, cioè si erano spogliati di ogni loro avere, “et racomandati et allistati”, erano lasciati in catene in Tunisia. Molti amici di schiavi trapanesi erano armatori di legni da corsa e disponevano di notevoli mezzi economici.

E’ fuori da ogni ragionevole dubbio che non pochi tra i trapanesi catturati dai tunisini, da privilegiare per il riscatto, erano corsari o pirati al servizio di armatori di Trapani dediti alla corsa o alla pirateria; Trapani era il porto corsaro per eccellenza, come si è avuto modo di rilevare. Ballature vorrebbe dire di “altre cose inconvenienti”, ma di esse ritiene di doverne scrivere in questa supplica ai rettori dell’Arciconfraternita per la Redenzione dei cattivi; certe cose, egli dice, non possono essere dette “per scriptura”. A suo avviso avrebbero potuto dire molto i riscattati che ritornavano col vascello su cui anch’egli avrebbe dovuto imbarcarsi. Ma è da dubitare che i trapanesi avessero voglia (e licenza) di parlare del loro iter di riscattandi. (...). Dalla lettera di Ballature alla moglie, e da quel che egli dice del suo vivere da schiavo, dalla supplica ai rettori della Redenzione del regno di Sicilia, ci sembra di poter considerare in via di ipotesi legami di tipo mafioso tra imprenditori trapanesi di corsa e di pirateria e autorità tunisine in ordine al riscatto degli schiavi. (...). Armatori di legni da corsa e imprenditori di spedizioni di pirati erano a Trapani persone che contavano per ricchezza, importanti per gli uffici ricoperti nel governo della città e della Sicilia: erano ammiragli, viceammiragli, ricchi mercanti, ebrei, a volte erano cointeressati anche i viceré di Sicilia. Non si può escludere, a nostro vedere, che intendendosi coi tunisini non avessero provveduto a regolamentare, a modo loro, il riscatto di quei trapanesi che fossero catturati da legni di Tunisi, i cui padroni, che esercitavano la corsa o la pirateria o entrambe, erano bey, pascià, militari dei più alti gradi, personaggi riveriti e tenuti in gran conto nel loro paese, i quali avevano interessi non dissimili da quelli dei trapanesi, armatori di navi e imprenditori di scorrerie di pirati» (G. Bonanno, Schiavi siciliani e pirati barbareschi cit., pp. 138-139 e 142-143).

Il ritorno della flotta cristiana da Lepanto (arazzo, Villa del Principe, Genova)

L’Opera Pia del Riscatto era stata istituita a Roma nel 1581 da papa Gregorio XIII (Bono, Corsari barbareschi,1964) e ciò dimostra che la «redenzione degli schiavi» non era stata affatto monopolio o esclusiva dei due antichi ordini medievali (gli Ordini dei Trinitari, dal 1198, e dei Mercedari, dal 1235, precedentemente citati) ma che, specialmente negli stati italiani, era stata esercitata da istituzioni sia religiose che laiche, fondate e operanti su base cittadina o «statale».

La più antica fra quelle sorte o risorte dagli inizi del Cinquecento, in una situazione ben diversa rispetto ai secoli precedenti è la Casa Santa della Redenzione de Cattivi di Napoli e successivamente, l’Arciconfraternità per la Redenzione de’ Cattivi a Palermo.

L’arciconfraternita, costituita da nobili e gentiluomini, raccoglieva elemosine e contributi da utilizzare per il riscatto dei “cattivi” (captivi, catturati) dai pirati barbareschi.

Membro dell’Arciconfraternita di Palermo fu anche il Principe di Palagonia, reso famoso e immortalato da Goethe nei suoi diari di viaggio che lo incontrò a Palermo il 12 aprile 1787.

Qualche istituzione per il riscatto è stata «scoperta» anche in centri urbani minori, o comunque di non diretta proiezione marittima. Grazie all’attività di queste confraternite molti prigionieri poterono ritornare in patria. Lo stesso non avveniva per i musulmani catturati dai cristiani. Nella seconda metà del settecento i saraceni schiavi nelle corti siciliane, italiane ed europee divennero numerosissimi. Nell’illuminato settecento il possesso di uno schiavo musulmano divenne uno status symbol.

Inserto

Barbarossa

Quarto figlio di un giannizzero o di un cavaliere di origine persiana a riposo, che esercitava la professione di vasaio, e di una donna greca, Khizr, detto Khair ed-din ("Protett0re della Religione") dai musulmani, Barbarossa dai cristiani, nacque nel 1478 circa a Lesbo e, allevato nella fede islamica, seguì il padre nella sua professione di vasaio, mentre i fratelli maggiori si davano al commercio marittimo e alla pirateria.

Barbarossa

Nei primi anni del XVI secolo si trasferì col fratello Aruj e due imbarcazioni leggere sulle coste dell’Africa settentrionale, a Tunisi; prendendo accordi col sultano hafsida locale, i due si diedero alla guerra da corsa ai danni del naviglio cristiano e delle coste italiche e iberiche. In realtà, il capo era Aruj, mentre il fratello più giovane, almeno all’inizio, si limitava al ruolo di rematore di una delle sue navi. L’attività risulto tanto redditizia che, nell’arco di un quinquennio, i due fratelli avevano una flotta di 8 galeotte, con la quale si trasferirono nell’isola di Djerba. Col tempo, la loro flotta crebbe ulteriormente, come il numero dei capitani turchi che, attirati dalla fama delle loro imprese, veniva a porsi al loro servizio.

Nel 1512, pero, i due subirono un rovescio dagli spagnoli a Bugia, dove Aruj lascio un braccio, e un altro da Andrea Doria, che il giovane corsaro incontro per la prima volta, proprio nel porto di Tunisi.

Alla morte di Ferdinando il Cattolico, nel 1516, gli algerini chiesero l’aiuto dei turchi per liberarsi dagli spagnoli. La spedizione contro Algeri fu affidata ai due fratelli, dei quali, mentre Aruj procedeva via terra, Khizr avanzava con la flotta. Se ne impossessarono facilmente, a parte la fortezza, nella quale rimase insediata la guarnigione spagnola, e l’anno seguente respinsero un massiccio tentativo spagnolo di riconquistarla. Ma nel 1518, con ormai l’intera Algeria in suo potere, il titolo di governatore generale, ovvero beylerbey, conferitogli dal sultano, e al culmine della sua potenza, Aruj si fece sorprendere da un esercito spagnolo fuori le mura di Algeri e cadde combattendo col suo unico braccio.

Khizr si affrettò a richiamare l’attenzione del sultano per farsi confermare i titoli e i possessi del fratello, appena in tempo per fruire del suo aiuto nel fronteggiare l’offensiva che subito gli portarono i principi cristiani, su iniziativa di Carlo V. Tuttavia, una tempesta devastò la flotta della coalizione subito dopo il suo arrivo davanti ad Algeri. Barbarossa ebbe cosi modo di dedicarsi al consolidamento del possesso del retroterra algerino.

Con l’attenzione di Carlo V attirata in Europa e la flessione della pressione spagnola dopo lo scacco, il governatore ritenne che fosse anche giunto il momento di cacciare gli spagnoli dalla fortezza di Algeri, il Peñón. L’assedio ebbe inizio il 6 maggio 1530, con un fitto bombardamento, e si concluse due settimane dopo con una breccia che permise ai turchi di penetrare nella roccaforte, dove rimasero vivi solo in 53 su 200.

Nell’estate del 1533 il Barbarossa andò a Costantinopoli, invitato da Solimano II che lo voleva come riorganizzatore della marina ottomana. Un anno dopo, tonava a ovest col grado di ammiraglio e a capo di una flotta di 84 navi, con l’obiettivo della conquista di Tunisi. Per non mettere in allarme il sultano tunisino, si indirizzo dapprima verso l’Italia, dove aggredì Reggio, che sottopose a devastazione, riducendone gli abitanti in schiavitù. Poi risalì le coste tirreniche e saccheggio Sperlonga e Fondi, prima di scendere verso le coste africane e presentarsi il 16 agosto davanti al porto di Tunisi che, scappato il sultano, non oppose resistenza.

Ma il possesso di un caposaldo cosi prossimo all’Italia, da parte di un pericoloso personaggio come il Barbarossa, non poteva non indurre l’imperatore a una reazione. Carlo V si affrettò infatti ad allestire una nuova flotta, di ben 600 navi, che giunse davanti alla Goletta, il porto di Tunisi, il 14 giugno 1535. Il porto cadde subito e le truppe cristiane poterono sbarcare, costringendo Barbarossa a combattere a terra, dove si trovò ad avere a che fare anche con 12.000 schiavi improvvisamente liberatisi. Fu costretto ad abbandonare la città, ma Carlo V non lo fece inseguire, e l’ammiraglio reagì con una controffensiva in territorio spagnolo, aggredendo le Baleari e facendo gran bottino.

Dopo di allora, si trasferì stabilmente a Costantinopoli, per guidare la marina ottomana alla conquista di solide basi sulla costa ionica dell’Italia meridionale, che assicurassero lo sbarco dell’esercito condotto dal sultano via terra sulla costa opposta, in Albania. La campagna prese avvio nel maggio 1537 ma, sebbene Barbarossa portasse terrore e devastazione lungo le coste pugliesi e poi, dopo la modifica dei piani di Solimano, nelle isole greche, il solo risultato significativo fu il cospicuo bottino che l’ammiraglio riporto a Costantinopoli.

L’anno seguente Barbarossa opero con circa 120 galee sullo scacchiere delle isole egee, già veneziane, per riscuoterne il tributo, ed a fine settembre fronteggiò abilmente la controffensiva cristiana, cogliendo, sulla flotta della coalizione guidata da Andrea Doria, la vittoria di Prevesa.

Un altro importante successo contro i cristiani lo colse nel 1539, quando subentrò ad altre forze turche nell’assedio della fortezza spagnola di Castelnuovo, inducendone alla resa la guarnigione.

Divenuto ormai il confidente principale di Solimano, il Barbarossa fu lo strumento dell’inedita alleanza tra il sultano e il re di Francia Francesco I. Fu in quest’ottica che nel 1543 il vecchio ammiraglio condusse un centinaio di navi nuovamente alla volta dell’Italia, mettendo ancora a sacco Reggio e le coste calabresi, per risalire la costa tirrenica, espugnare la fortezza di Gaeta e devastarne la città; poi proseguì alla volta della Francia dove, a Marsiglia, incontrò la flotta transalpina.

Le due flotte congiunte assediarono ed espugnarono Nizza, prima di svernare a Tolone. In primavera, Barbarossa riprese la via per Costantinopoli, seminando nuovamente scompiglio lungo le coste italiche, dove fecero le spese del suo passaggio l’isola d’Elba, Procida, Ischia, le Lipari. Fu la sua ultima impresa: mori nel suo palazzo di Costantinopoli nel luglio di tre anni dopo, nel 1546, lasciando un figlio che sarebbe divenuto sultano di Algeri ma, soprattutto, un luogotenente come Dragut, altro incubo per le marine e le coste cristiane.

Dragut, pirata-ammiraglio turco

Valutazione

Il Barbarossa fu un corsaro che si servì del mare per procurarsi un dominio a terra, che consolidò con le sue imprese permettendo all’impero ottomano di contare su una salda base avanzata nel Mediterraneo occidentale fino al XIX secolo. La sua guerra da corsa non fu mai fine a se stessa e, se all’inizio rispondeva all’ambizione di costituirsi un dominio, in seguito fu parte essenziale della strategia aggressiva di Solimano. Il condottiero rimase pressoché imbattuto in un periodo in cui i turchi, per mare, solitamente le prendevano dai cristiani, e soprattutto da Andrea Doria, che non riuscì mai a sconfiggere il Barbarossa.

Esperto nella progettazione e nella costruzione delle navi, nonché nell’arte nautica e nelle manovre di arrembaggio, Barbarossa riformò la marina turca e ne coordinò gli sviluppi, dimostrandosi uno dei più abili ed efficienti organizzatori del suo tempo. Sotto il suo comando e le sue riforme, gli equipaggi ottomani si dimostrarono i migliori del bacino mediterraneo, e il suo talento logistico gli garantì le spalle coperte dovunque si spingesse nelle sue azioni.

Finché fu solo pirata, il suo scopo fu la cattura dei bastimenti; pertanto, basò le sue azioni sulla rapidità di movimento e preferì valersi di galeotte, piccole imbarcazioni veloci e leggere a una sola vela ed a 14 remi per lato, che lo facilitavano nell’abbordaggio. Da grande ammiraglio della flotta turca, si valse di navi più potenti, ma le galeotte rimasero parte della sua flotta.

Elusivo quando voleva esserlo, incalzante e aggressivo quando aveva necessità di stringere i tempi, Barbarossa era un condottiero astuto ed un abile stratega, un fine diplomatico e anche un capace generale di truppe a terra. Non di rado le sue azioni sul mare furono coronate da azioni sul fronte terrestre, con combattimenti tra soldati o assedi a fortezze. I suoi raid erano rapidi e devastanti, i suoi saccheggi e le distruzioni esemplari.

La battaglia: Prevesa

Nel corso delle operazioni di fine estate del 1538 a Creta, Barbarossa venne a sapere che gli occidentali stavano reagendo ai suoi movimenti, mettendo in mare una flotta di navi genovesi, veneziane, spagnole e pontificie al comando di Andrea Doria. Rinforzato da una squadra egiziana di 20 galee, l’ammiraglio turco andò loro incontro, avanzando nello Ionio.

Le due flotte si incontrarono presso Corfù, dove stazionava parte della flotta imperiale in attesa dell’arrivo del contingente condotto da Andrea Doria. Barbarossa si posizionò subito nel golfo di Arta, dove poteva fruire del retroterra amico e dei cannoni della fortezza di Prevesa, e dove lo spazio ristretto vanificava il vantaggio numerico del nemico. Una volta arrivato anche il Doria, il 25 settembre la flotta cristiana mosse verso l’imboccatura del golfo.

L’ammiraglio genovese cercò senza esito di stanare l’avversario, decimandogli le truppe di terra a protezione di Prevesa, e mandandogli un’esca costituita da una squadra di navi; dopo due giorni, finì per spostarsi a sud, obbligando l’avversario a inseguirlo. Ma il vento era debole, in quella stagione, e la flotta mista del Doria, costituita da galere e galeoni, si sfilacciò lungo la costa di Leucade, lasciandosi molto dietro le navi più massicce. Nel corso della giornata del 28, Barbarossa avanzò contro le imbarcazioni ritardatarie, alla testa del centro del proprio schieramento, mentre l’ala destra era affidata a Dragut, e la sinistra a Salah Rais; rastrellò sette galere spagnole, veneziane e pontificie, senza perdere un battello, ma senza riuscire a scalfire le difese della possente ammiraglia veneziana.

Andrea Doria, probabilmente compiaciuto per le difficoltà in cui si dibattevano i detestati veneziani, tardò a tornare indietro e, quando lo fece, preferì portarsi al largo, cercando ancora di attirare il nemico a dar battaglia in uno spazio aperto. Ma Barbarossa si ritirò lungo la costa, e il giorno seguente il Doria, forse in difficoltà nella gestione di una flotta tanto eterogenea, preferì andarsene.

Pirati e corsari imperversano nel Mediterraneo per tutto il settecento, il secolo dei lumi, e la storia della schiavitù nei paesi europei del Mediterraneo si è protratta sino al 1830, ed ebbe termine con l'indipendenza della Grecia e la contemporanea occupazione francese dell'Algeria; nel 1856, infine, durante il congresso di Parigi, le grandi potenze ne decreteranno ufficialmente la soppressione.

La storia della schiavitù nel mediterraneo è stata tuttavia sempre circondata da omertoso silenzio e tacita rimozione e se nelle opere generali sulla storia della schiavitù si trovano poche pagine a proposito della schiavitù dei cristiani nei paesi islamici del Mediterraneo, nulla si dice sull’altra faccia della medaglia, sulle migliaia e migliaia di musulmani catturati sul mare e per terra e “commercializzati” in tutti i paesi d’Europa.

Come detto, la Dichiarazione di Parigi del 1856 proibì la guerra di corsa e mise fuorilegge la figura del corsaro, affermando che solo le Navi da Guerra sono gli unici soggetti che hanno diritto di partecipare alle ostilità.

Ciononostante bisogna dire che la pirateria non ha mai cessato di esistere, come documentano anche i recenti episodi avvenuti nel Golfo di Aden e nel Corno d’Africa e nell'Oceano Indiano. I pirati, originari della Somalia e facilitati dal vuoto di potere esistente da anni in quel Paese, e dalla Nigeria, agiscono su tutto il versante dell'Africa orientale, spingendosi fino alle Seychelles e al Madagascar.

Fara Misuraca

Alfonso Grasso

Novembre 2011

Inserto

Francis Drake

Nel XVI secolo era in corso la partita per il dominio sui mari, il cui vincitore avrebbe avuto la possibilità di dominare il mondo nei secoli a venire; i contendenti erano la Spagna di Filippo II e l’Inghilterra di Elisabetta I. Le rotte lungo le quali procedevano i galeoni stracarichi d’oro dalle Americhe alla Spagna divennero pertanto il campo d’azione di razziatori e pirati, le cui imprese ben presto Elisabetta autorizzò e sostenne, per porle al servizio del suo regno.

Francis Drake, spietato pirata inglese

Il primo di questi individui a fruire di una patente da corsa fu John Hawkins il quale, nel suo terzo viaggio, nel 1567, porto con sé il cugino Francis Drake, un ventisettenne figlio di un piccolo proprietario del Devonshire. Ma l’impresa si risolse in un disastro. Dopo aver praticato la tratta degli schiavi tra la Sierra Leone e il Venezuela, ed aver depredato alcune navi portoghesi, i corsari, a bordo di una flottiglia di sei vascelli, pervennero a Vera Cruz, in acque territoriali spagnole, proprio mentre arrivava una flotta iberica con a bordo il viceré della Nuova Spagna. Gli spagnoli non esitarono a sparare e, davanti alla postazione avanzata di San Juan de Ulua, il loro numero largamente superiore mise subito a mal partito gli inglesi, che persero quattro navi; Hawkins e Drake, il primo accuso quest’ultimo di essere fuggito abbandonandolo, se la cavarono, ma la regina fu molto irritata, sebbene l’opinione pubblica britannica li vedesse come eroi.

Il peggioramento delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, comunque, indusse Elisabetta a rinnovare il proprio sostegno alla guerra da corsa, cosicché Drake poté continuare a farsi le ossa con una serie di spedizioni di contrabbando nelle Antille, prima di ricevere, nel 1572, espressa autorizzazione ad attaccare Nombre de Dios, il porto dove gli spagnoli ammassavano i tesori scavati nelle miniere del Centro America.

Drake salpò da Plymouth con due grosse navi, la Pasha e la Swan, ed una settantina di uomini. Dopo un mese e mezzo di navigazione, il corsaro si impadronì di due navi spagnole, grazie alle quali ingrandì la propria flotta, ed all’alba del 29 luglio piombò, del tutto inaspettato, su Nombre de Dios, impadronendosene con facilità. La reazione degli spagnoli, però, facilitata dalle difficoltà di trasporto dell’enorme bottino, gli procurò una ferita alla coscia, a causa della quale non fu più in grado di guidare i propri uomini, che solo a stento riuscirono a riguadagnare le imbarcazioni. Riuscì tuttavia a salpare ed a trarre ulteriori frutti dalla spedizione. Poco dopo, infatti, catturò un altro galeone spagnolo ed incendiò Portobelo, prima di fermarsi nell’istmo di Darién, con l’intenzione di raggiungere il Pacifico, che nessun inglese aveva mai visto. Poté soltanto scorgerlo dalla cima di un albero, dopo aver attraversato foreste e paludi accompagnato da diciotto dei suoi e da una trentina di indiani cimarron, ma ciò fu sufficiente a convincerlo che la navigazione in quell’oceano sarebbe stato il suo successivo obiettivo.

Dopo un’ulteriore razzia ai danni di una carovana, che gli fruttò 30 tonnellate d’argento, Drake rintracciò la sua flotta e fece ritorno a Plymouth, dove sbarcò, nel tripudio generale, il 9 agosto 1573. Dopo una missione diplomatica e militare in Irlanda, riuscì a trovare sovvenzioni e appoggio por raggiungere il Pacifico attraverso la via meridionale aperta da Magellano, poiché Frobisher non era riuscito a trovare il passaggio a nord-ovest. Drake partì nel dicembre 1577 con cinque navi e 160 uomini,tenendo segreto l’obiettivo della spedizione. Dovette sopportare ammutinamenti e tempeste che, nello stretto di Magellano, affrontato nell’agosto del 1578, gli fecero perdere due vascelli e lo costrinsero a vagare per due mesi privo di orientamento, prima di riuscire a risalire la costa del Pacifico. Dopo di allora, fu in grado di riprendere le sue scorrerie, saccheggiando Valparaiso e Callao, il porto di Lima. L’impresa più proficua fu però l’inseguimento e la cattura della Cacafuego, un galeone spagnolo che trasportava un quantitativo tale di preziosi che, si disse, parte del carico dovette essere gettata in mare.

Drake continuò a risalire la costa fino all’altezza della California, dove virò a ovest procedendo in mare aperto senza incontrare terra per oltre due mesi. Giunse nelle Filippine in ottobre, per ripartire poi alla volta del Capo di Buona Speranza e tornare in Inghilterra, dove giunse il 26 settembre 1580, dopo aver compiuto il giro del mondo in due anni e mezzo. Nonostante Filippo pretendesse la consegna di colui che era ormai noto come il più grande bandito del mondo, la regina lo nominò cavaliere il 4 aprile 1581.

Negli anni seguenti, le relazioni tra i due contendenti peggiorarono a tal punto che Elisabetta fu indotta, nel 1585, ad autorizzare una spedizione in grande stile, al cui comando pose lo stesso Drake, con Frobisher come contrammiraglio. ll corsaro condusse con sé 25 navi alla volta delle Americhe, ma già poco dopo la partenza si rese protagonista di un audace colpo di mano, avventandosi contro il porto spagnolo di Vigo, scarsamente presidiato, e impadronendosi di un bottino di 30.000 ducati d’oro. Quindi fece vela verso Santo Domingo, la cui capitale sottopose a saccheggio, prima di continuare lungo le coste continentali le sue razzie, culminate con i 110.000 ducati d’oro ottenuti dal governatore di Cartagena come riscatto.

La guerra tra i due blocchi contrapposti fu sancita dall’esecuzione di Maria Stuarda nel 1587, che indusse Filippo a preparare l’invasione dell’Inghilterra. Drake cercò di convincere la regina a colpire in anticipo, approfittando della debolezza degli spagnoli in casa propria, che egli stesso aveva saggiato due anni prima; Elisabetta era orientata ad assecondarlo, ma poi preferì rinunciare, troppo tardi per impedire al corsaro di attaccare il porto di Cadice.

Le scorrerie di Drake proseguirono in maggio quando, il 10, affondò altre 24 navi di fronte a Cascais; successivamente, colpi una delle principali basi di approvvigionamento spagnole, capo San Vicente, e si impossessò di un galeone carico d’oro e di informazioni sulle rotte iberiche con le Indie. L’anno seguente il corsaro partecipò alla battaglia contro l’Invincibile Armada come viceammiraglio, a bordo della Revenge; secondo gli ordini, doveva guidare l’inseguimento alla flotta nemica, ma si staccò dai suoi per catturare la Rosario. Passò poi all’offensiva nel 1589, per dare attuazione al suo piano di sottrarre alla Spagna Lisbona e le Azzorre, senza pero riuscirvi.

Fu solo nel 1595 che Elisabetta gli affidò una nuova spedizione, che aveva come obiettivo il saccheggio di Portorico. Drake ebbe a disposizione 25 navi e 2000 uomini, oltre all’apporto di suo cugino John Hawkins, che però, già malato, morì in mare. Stavolta gli spagnoli furono in grado di opporre resistenza all’attacco, e il corsaro dovette ridimensionare i suoi obiettivi, procedendo verso l’istmo, dove non fu in grado di arrivare a Panama neanche via terra. Si limitò pertanto a saccheggiare ed incendiare, ancora una volta, Nombre de Dios, per poi morire a bordo della Defiance, al largo della costa di Veragua, il 28 gennaio 1596.

Valutazione

Drake ha molti meriti, agli occhi degli inglesi. Fu il primo britannico a circumnavigare il globo e uno dei più lesti a intuire la vulnerabilità delle rotte e dei porti spagnoli, rivestendo un ruolo fondamentale in una guerra che faceva del possesso delle ricchezze oltremare non solo uno degli obiettivi principali, ma anche il motore del conflitto stesso. Concepì al riguardo un vasto piano strategico che andava al di là delle semplici razzie di cui erano stati protagonisti i suoi predecessori e contemporanei, e costituì un modello per chiunque volesse farsi pirata. Il frutto delle sue imprese, è stato detto, costituì la sorgente e l’origine degli investimenti oltremare, che avrebbe portato all’istituzione della famigerata Compagnia delle Indie Orientali.

Abile tattico, basò quasi tutti i suoi successi sull’effetto sorpresa. Le sue straordinarie doti marinare lo resero uno dei più grandi strateghi d’acqua che siano mai esistiti, in un’epoca in cui la guerra navale non aveva avuto ancora uno sviluppo autonomo in termini concettuali. Fu grazie alla sua impresa di Cadice, infatti, che Filippo II dovette ritardare l’allestimento della flotta d’invasione; e fu sempre grazie alle sue intuizioni che la flotta inglese concentrò le proprie forze sull’accesso occidentale alla Manica, il che si rivelò determinante per la sconfitta spagnola.

La battaglia: Cadice

Nell’aprile del 1587, grazie alla cattura di un’imbarcazione spagnola, Drake venne a sapere che a Cadice stazionava un gran numero di vascelli, e in capo a tre giorni, il 19 dello stesso mese, si presentò davanti al porto iberico. Si apprestava a far sera e, mentre i suoi subalterni discutevano sul modo migliore di penetrare nella baia più esterna, il comandante guidò la sua Elisabeth direttamente dentro di essa, seguita immediatamente delle altre undici navi di cui disponeva. Vi trovo ormeggiata una sessantina di galee. Gli si fece incontro prima una galea, quindi un galeone genovese, ed affondò entrambi, quindi si spinse a ridosso del castello, prevalendo nello scontro con le navi avversarie grazie alla maggior gittata dei suoi cannoni. Prima che facesse buio, Drake aveva gettato l’ancora nel canale di collegamento tra la baia esterna e quella interna, bruciando una parte del naviglio spagnolo.

Nel frattempo, gli abitanti erano in preda al panico, e molti finirono calpestati dai loro stessi concittadini; altri, invece, si armarono e corsero alle batterie, supportati, il mattino seguente, da contingenti di rinforzo, che allestirono una serie di fortificazioni lungo il fiume. La reazione spagnola si concretizzò nel cannoneggiamento alle navi inglesi che, però, erano in gran parte fuori gittata, a parte la Golden Lion, che ebbe l’albero spezzato, e il cui comandate asserì in seguito di essere stato l’unico a combattere mentre tutti gli altri si davano al saccheggio.

Ad ogni modo Drake, dopo essersi effettivamente impossessato di un ricco bottino ed aver distrutto 33 navi, approfittò del vento che spirava verso il largo per svincolarsi, senza compire ulteriori tentativi di conquistare Cadice.


Note

[1] Rosario La Duca, Cartografia generale della città di Palermo e antiche carte della Sicilia - 1975, pag 273.

[2] Benché spesso confusi con i pirati, i corsari erano combattenti al servizio di un governo che, in cambio di un'autorizzazione a rapinare navi mercantili nemiche (lettera di corsa, da qui corsari) per conto del governo, venivano pagati con una percentuale del bottino. La differenza più importante fra pirati e corsari era che questi ultimi, se catturati, soggiacevano alle norme previste dal diritto bellico marittimo, come un qualsiasi prigioniero di guerra, mentre i pirati catturati erano sommariamente giustiziati, in genere per impiccagione al pennone di una nave. Anche i marinai barbareschi che operarono tra il XIV e il XIX secolo dalle coste marocchine, algerine, tunisine o libiche, non erano pirati; ciò è dimostrato dal fatto che i corsari barbareschi non aggredivano navigli musulmani ma rapinavano solo imbarcazioni cristiane.

[3] Nell'alto Medioevo furono grandi pirati i vichinghi (detti anche normanni) e i danesi contro i cristiani (latini a ovest e slavi a est d’Europa), ma nel basso Medioevo lo furono i cattolici latini contro arabi e bizantini e, finito nominalmente il Medioevo, lo furono i turchi contro i cristiani e viceversa. Con le loro leggere navi dal fondo piatto, che potevano essere anche messe su ruote, i Normanni risalivano i fiumi e depredavano i villaggi. In Francia si stabilirono permanentemente e dalla Normandia occuparono l'Inghilterra e il Mezzogiorno italiano, cercando di espandersi in Africa e nell'impero bizantino. Le città erano terrorizzate dai pirati Normanni e, per difendersi dai loro attacchi, iniziarono a proteggere e a dare rifugio ai pirati bizantini che potevano aiutarle a difendersi.

[4] Dal XIV sec. al XVIII Venezia fu in grado di controllare l'intero Adriatico non solo grazie ai suoi commerci ma anche grazie alla sua pirateria (uno dei più famosi fu il corsaro e mercenario Andrea Doria).

[5] Ricordiamo che in quel periodo i due regni di Sicilia appartenevano o agli Angioini, o agli Aragonesi e infine alla Spagna e di conseguenza seguivano le direttive francesi, aragonesi o spagnole.

[6] Dal turco qarāmussāl, tipo di vascello turco a tre alberi del sec. XVII, slanciato e dotato di coperta e di alto cassero.

[7] E' questa una pratica assai diffusa, tanto che anche le galere di stati colpiti dalle carestie operano allo stesso modo, costringendo le imbarcazioni onerarie a lunghe e pericolose peripezie per arrivare sane e salve in porto.

[8] Nacque a Monreale nel gennaio del 1543 e morì a Palermo il 19 agosto 1593. Visse in maniera alquanto avventurosa e grazie alla sua intelligenza e alla sua versatilità di poeta ebbe una grande fama sia in Sicilia che all'estero. Salpato per seguire Carlo d'Aragona, venne imprigionato ad Algeri dove conobbe Miguel de Cervantes e ne divenne amico,tanto che lo stesso, nel 1579, gli dedicò una epistola in dodici ottave, opera che Cervantes reputò di un certo valore tanto che quasi settanta versi vennero reinseriti nella commedia El trato de Argel che narra della prigionia in Algeri. Che l'amicizia fosse venata di ammirazione da parte di Cervantes, lo si deduce dalla novella El amante liberal in cui l'autore narra di un prigioniero siciliano che sapeva magnificare, nel ricordo, la bellezza della sua donna esprimendosi in versi sublimi, probabilmente si trattava della Celia, l'opera più famosa di Veneziano. Nel 1579 Antonio Veneziano venne liberato e tornò in Sicilia. Nel 1588 fu imprigionato per aver scritto un libello contro il governo. Morì, nel 1593, a Palermo nel carcere del Castello a Mare di Palermo per lo scoppio della polveriera del castello. La leggenda narra che il suo corpo fu rinvenuto tra le macerie con un grappolo di uva in mano. La sua opera è vastissima. Scrisse prevalentemente poesie in siciliano, ma si dedicò anche all'italiano e al latino. La sua opera principale è l'elogio Celia, dedicato alla donna amata, forse una nipote, e composto durante la prigionia ad Algeri.

[9] Nel 1570 Cervantes (Alcalá de Henares, 1547 – Madrid 23 aprile 1616), universalmente noto per essere l'autore del romanzo Don Chisciotte della Mancia, si sposta in Italia per evitare la condanna al taglio della mano destra ed a dieci anni d'esilio perché accusato di aver ferito un certo Antonio de Segura. In Italia è prima cortigiano, anche presso la corte degli Acquaviva, nel Ducato di Atri in Abruzzo. Nel mese di settembre del 1571 s'imbarca come soldato sulla galea Marquesa che fa parte della flotta della Lega Santa che sconfiggerà quella turca nella battaglia di Lepanto il 7 ottobre dello stesso anno. Nella battaglia rimane ferito e perde per sempre l'uso della mano sinistra. Nel 1575 parte da Napoli per la Spagna con alcune lettere di raccomandazione che dovrebbero procurargli il comando di una compagnia. Ma la galea Sol sulla quale viaggia viene assalita dal rinnegato Arnaut Mami e, catturato dai pirati, viene tenuto in cattività per cinque anni fino al pagamento di un riscatto, ad opera delle missioni dei trinitari, fondate da San Giovanni de Matha. È il 24 ottobre del 1580. Negli anni di prigionia conobbe Antonio Veneziano e ne divenne amico, tanto che Cervantes, nel 1579, gli dedicò un'epistola in dodici ottave, opera che Cervantes stesso reputò di un certo valore, tanto che quasi settanta versi vennero reinseriti nella commedia "El trato de Argel", che narra della prigionia in Algeri. Che l'amicizia fosse venata di ammirazione da parte di Cervantes, lo si deduce dalla novella "El amante liberal", in cui l'autore narra di un prigioniero siciliano che sapeva magnificare, nel ricordo, la bellezza della sua donna esprimendosi in versi sublimi; probabilmente si trattava della "Celia", l'opera più famosa di Veneziano.

[10] Gli schiavi venduti furono in massima parte vecchi, storpi, bambini e donne. Gli uomini validi erano stati uccisi quasi tutti.

[11] G.E. Di Blasi. Storia cronologica, cit. da F.P. Castiglione, in Dizionario delle figure e delle istituzioni della Sicilia storica. p. 362 (Sellerio )

[12] Garufi, Fatti e personaggi … in Castiglione, op. cit. p365

[13] I figli naturali venivano spesso avviati alla vita ecclesiastica e per farli nascere “liberi” la schiava che li partoriva veniva resa libera prima del parto. Anche San Benedetto il moro, uno dei protettori di Palermo, era figlio di una schiava nera residente a San Fratello )Giovanna Fiume, Marilena Modica, San Benedetto il Moro, in F.P. Castiglione, Dizionario delle figure, delle istituzioni e dei costumi della Sicilia storica, Sellerio, p. 419.

[14]. Anche San Benedetto il moro, uno dei protettori di Palermo, era figlio di una schiava nera residente a San Fratello (Giovanna Fiume, Marilena Modica, San Benedetto il Moro, in F.P. Castiglione, Dizionario delle figure, delle istituzioni e dei costumi della Sicilia storica, Sellerio, p. 419.


Bibliografia

  • Bono S. Corsari barbareschi, Oscar Mondadori, Milano 1964

  • Bonomo, G. Schiavi siciliani e pirati barbareschi, Palermo, Flaccovio, 1996,

  • Braudel, F. Civiltà e imperi del mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, 2002

  • Castiglione, F.P., Dizionario delle figure, delle istituzioni e dei costumi della Sicilia storica, Palermo,Sellerio, 2010

  • Frediani A., I grandi condottieri che hanno cambiato la storia, Newton Compton 2011

  • Lenci, M., Corsari. Guerra, schiavi, rinnegati nel Mediterraneo Carocci, 2006

  • Trasselli C., Da Ferdinando il cattolico a Carlo V, Rubettino, 1993

  • wikipedia.org/wiki/Pirateria


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