Quando si parla
di pirateria o di “corsa” spesso si pensa a quella
atlantica, una sorta di guerriglia marina, mai
dichiarata, iniziata nel ‘500 tra Francia,
Inghilterra e Spagna. In realtà la pirateria ha
origini ben più lontane nel tempo e uno dei teatri è
stato da sempre il Mediterraneo.
Dal Medioevo fino
a metà Ottocento il nostro mare fu teatro di scontri
tra cristiani e musulmani. Nella memoria collettiva
di noi europei del Mediterraneo, i corsari e i
pirati sono stati i musulmani e noi, europei o
cristiani, ne siamo stati le vittime. Quali corsari
nel Mediterraneo dell’età moderna pensiamo dunque
anzitutto a quelli provenienti dalle città-stato
barbaresche di Algeri, Tunisi e Tripoli, o Salé e
Tetuan, in Marocco.
Ma vi fu anche
un’attività corsara a danno dei mussulmani operata
dagli stati cristiani o da singoli corsari “in
proprio”. Contrariamente a quanto generalmente si
pensa in Europa, in tutto questo periodo a
scorrazzare nel Mediterraneo non c'erano solo i
corsari musulmani, ma anche quelli cristiani, che
compivano azioni analoghe ai danni però di cose e
persone musulmane. L'apparizione di una vela
cristiana vicino a una costa dell'Africa
settentrionale terrorizzava la popolazione
esattamente come succedeva quando una nave con la
mezzaluna s'avvicinava a qualche paese costiero
tirrenico, ionico, ecc.
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E’ opportuno
precisare la distinzione, sul piano teorico molto
chiara, tra “pirata” e “corsaro”. I “corsari
erano predoni in nome del Re, i pirati erano predoni
in nome del sé”. Tra i corsari “cristiani”
anzitutto riconosciamo quelli degli ordini
cavallereschi e marinari dei Cavalieri di Malta e
dei Cavalieri di Santo Stefano, questi ultimi con
sede a Pisa e Livorno. I corsari laici-privati
invece operavano sotto varie bandiere: di Toscana,
di Genova, di Napoli e dell’ordine stesso di Malta.
Altre basi di corsari erano a Cagliari e Trapani in
Italia, Tolone in Provenza, Maiorca e Ibiza nelle
Baleari. Ogni bandiera legittimava corsari di varia
origine. Più varia ancora era la provenienza dei
capitali, anche se in gran parte genovesi e
livornesi, che finanziarono le imprese corsare.
La corsa, sia
cristiana sia barbaresca, fu una grande occasione di
rimescolamento d’uomini, un potente motore di
interessi economici e di commercio di schiavi, che
ne erano il frutto principale.
I più attivi e
organizzati corsari musulmani furono quelli con base
nelle città costiere del Maghreb, soprattutto
Algeri, Tunisi e Tripoli. Con i loro entroterra,
queste città costituivano degli stati corsari
pressoché indipendenti dal lontano potere dei
sultani di Istanbul. La pirateria contro i cristiani
era una lucrosa attività (da non dimenticare il
commercio o il riscatto degli schiavi catturati)
perfettamente legale, spesso incoraggiata dagli
stessi sultani ottomani, specialmente quando questi
erano in guerra contro paesi cristiani. A guidare i
corsari musulmani, vi furono talvolta uomini di gran
valore, come i due fratelli soprannominati
Barbarossa, che crearono non pochi problemi persino
a Carlo V e ad Andrea Doria. Nonostante varie
spedizioni punitive da parte di Stati europei e
persino dei neonati Stati Uniti d'America (contro
Tripoli), l'attività corsara delle reggenze
maghrebine (talvolta con strane, ma non troppo,
alleanze come ad esempio quella con la Francia)
continuò per alcuni secoli.
Tra i corsari
italiani ricordiamo il ligure Enrico Pescatore, ed
il nizzardo Giuseppe Bavastro, capitano del porto di
Algeri al servizio dei Francesi, che praticò con
successo la guerra da corsa contro gli Inglesi. Tra
le tante imprese per cui divenne famoso ci fu quella
compiuta nel 1803 a Gibilterra quando, al comando
dell'Intrépide, un modesto sciabecco, riuscì a
catturare i briks della Royal Navy Astrea e
Mary Stevens.
Nello scenario
del Mediterraneo di solito si parla assai poco della
schiavitù, soltanto poche pagine riguardano i
barbareschi e neanche una parola sulla persistenza
della schiavitù, dal XVI sino a tutto il XVIII
secolo, in alcuni paesi europei come Italia, Spagna,
Portogallo, Malta.
Ma era proprio la schiavitù il frutto principale tra
la guerra corsara tra pirati barbareschi ed europei.
La possibilità di
accedere all’Archivio Segreto Vaticano e lo studio
della documentazione della Opera Pia del Riscatto,
istituita a Roma nel 1581 da papa Gregorio XIII,
aprì la strada alla dimostrazione che la “redenzione
degli schiavi” era stata esercitata in egual misura
da istituzioni religiose e istituzioni del tutto
laiche, fondate e operanti su base cittadina o
statale (Bono,
Corsari barbareschi
1964). Uno storico dell’economia, Ciro Manca (1982),
analizzando i documenti vaticani, arrivò alla
conclusione che la pirateria fu un mezzo volto a
produrre “schiavi per mezzo di schiavi”.
Tra le
istituzioni, ricordiamo la Casa Santa della
Redenzione de’ Cattivi di Napoli, la più antica,
sorta agli inizi del Cinquecento, e l’Arciconfraternita
per la Redenzione de’ Cattivi di Palermo, di cui fa
cenno anche Goethe nel suo viaggio in Sicilia.
Ma quale fu il
ruolo del Regno delle Due Sicilie nella guerra
corsara quando cessò di essere vicereame spagnolo?
All’indomani del
suo insediamento sui troni di Napoli e Sicilia (non
ancora “delle due Sicilie”), preoccupato da una
incursione barbaresca che lo aveva minacciato da
vicino, il giovane re, Carlo di Borbone, rinforzò le
difese costiere armando una piccola flotta da
contrapporre, spesso con successo, ai barbareschi.
Ma la via da percorrere, per ovvi motivi economici,
era comunque quella diplomatica sia con l’impero
Ottomano, sia con le città stato del Maghreb.
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Antonio Joli, Partenza di Carlo
di Borbone per la Spagna, Napoli, Museo di
S.Martino |
Molti protocolli
d’intesa furono firmati sulla base mutualistica di
scambi di prigionieri e di versamenti in denaro.
Nell’ultimo quarto del XVIII secolo divennero sempre
più frequenti le liberazioni di schiavi da entrambe
le parti e diverse iniziative si connettono non solo
ai sovrani europei ma anche all’impegno del sultano
marocchino Mohammed ben Abdallah a partire dal 1765.
L’impegno del sultano mirava a migliorare le
condizioni degli schiavi soprattutto riguardo la
libertà di culto e ove possibile, in accordo con i
cristiani, a sospendere la schiavitù.
Inserto:
Capitan Peppe
Nella lotta contro la minaccia dei
corsari barbarbareschi, si mise in luce un ufficiale
borbonico: Giuseppe
Martinez, alfiere di galera, comandante della
"Sant'Antonio".
Nato a Cartagena nel 1702, giunto a
Napoli nel 1732, quattro anni dopo era entrato
nell'Armata di mare. Nel luglio 1747 fu destinato alla
sorveglianza del litorale dei Presidi e tornò alla base
un mese più tardi dopo aver catturato una galeotta
tunisina con 36 uomini di equipaggio. L'anno successivo,
promosso capitano, posto al comando di uno sciabecco da
poco entrato in armamento, ripeté l'impresa nello
Ionio, catturando uno sciabecco tunisino ed i 54
barbareschi che vi erano imbarcati. Nell'aprile 1752 le
unità navali poste al comando del Martinez - che a
Napoli era popolarmente acclamato come "Capitan
Peppe" - furono impegnate, nei pressi dell'isola
greca di Zacinto, in uno scontro con il "Gran Leone", un
robusto bastimento corsaro sul quale sventolava il
vessillo del Bey d'Algeri. La vittoria arrise ai borbonici: lo sciabecco algerino fu affondato, 109 barbareschi
rimasero uccisi e gli altri furono fatti prigionieri. Il
"rais" fu portato in catene a Napoli, dove il comandante
della squadra navale vittoriosa, ferito in battaglia, fu
promosso e decorato dal Re.
Nell'aprile 1753, "Capitan
Peppe", che
aveva ottenuto il comando dello sciabecco "San Luigi",
catturò al largo di Capo Rizzuto un pinco con le insegne del Bey di Tripoli e 90 uomini di
equipaggio. Il "rais" Mohamed Ingnet fu fatto
prigioniero
assieme a 58 uomini della ciurma corsara, mentre gli
altri perirono in combattimento. Qualche tempo più
tardi, nell'aprile 1757, una squadra napoletana intercettò lungo le coste della
Calabria uno sciabecco algerino ed lo catturò. Nel maggio successivo il
Martinez riuscì ancora
ad avere la meglio: un grosso pinco di Tripoli fu
catturato nelle acque della Sicilia, dopo un vivace
combattimento. A novembre, ancora un altro legno dei
barbareschi cadde nella rete del Martinez.
Bibliografia
-
Lamberto Radogna, “Storia della Marina
Militare delle Due Sicilie”, Mursia, 1982
-
Giacinto De Sivo, Storia delle
Due Sicilie, Del Grifo, 2004
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Una delle
missioni più rilevanti che ha coinvolto gli Stati
del Mediterraneo, compreso il regno di Sicilia, è
quella con Sidi Muhammad ibn Uthaman al Miknasi che
si concluse, in Spagna, con la firma del trattato di
Arajuez, il 30 maggio 1780. La missione negli anni
seguenti proseguì a Malta ed a Napoli, alla corte di
Ferdinando IV. Sulla via del ritorno in Spagna il
veliero fece naufragio, nel dicembre del 1782, e
l’ambasciatore fu costretto a riparare a Palermo
dove trascorse alcuni mesi, dando il via alla famosa
impostura organizzata dall’abate Vella.
Ma la pace
stabilita nel trattato non durò a lungo. Gli
attacchi pirateschi dall’una e dall’altra parte con
alterne vicende durarono fino al 25 aprile 1816
quando fra il Regno delle Due Sicilie ed il Bey di
Tripoli fu sottoscritto un nuovo trattato di pace.
Nove anni più tardi, quando il trattato avrebbe
dovuto essere rinnovato, il Bey alzò la posta.
Contro i 40.000 colonnati che avrebbe dovuto
ricevere dal governo di Napoli, ne chiese più del
doppio: 100.000.
Francesco I, da
poco succeduto al padre Ferdinando, non accettò e
rispose con le armi attaccando Tripoli. Dopo un
lungo assedio e la cattura di una goletta tripolina
da parte dei siciliani, il Bey venne a più miti
consigli ed il 28 ottobre 1828 si firmò un nuovo
trattato di pace.
Il colpo di
grazia alla guerra di corsa venne inferto
dall'occupazione di Algeri da parte dei Francesi nel
1830.
Ovviamente le
scorrerie non finirono solo per un paio di firme. La
“Corsa” si trasformava agilmente in pirateria e le
scorrerie continuavano.
Per limitare ciò
Il 23 marzo 1833 le Due Sicilie sottoscrissero un
accordo di reciproca assistenza contro la pirateria
con il Regno di Sardegna: fu decisa un'azione navale
congiunta contro il Bey di Tunisi. L'iniziativa si
concluse positivamente: il 10 maggio e il 17
novembre veniva sottoscritto a Tunisi un trattato di
pace e di amicizia fra il bey ed il Regno delle Due
Sicilie. Con quell'accordo si confermava la
precedente convenzione, sottoscritta il 17 aprile
1816, in base alla quale la bandiera delle Due
Sicilie era considerata come quella della "nazione
più favorita".