Le Pagine di Storia

I pirati barbareschi

di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso

 

Quando si parla di pirateria o di “corsa” spesso si pensa a quella atlantica, una sorta di guerriglia marina, mai dichiarata, iniziata nel ‘500 tra Francia, Inghilterra e Spagna. In realtà la pirateria ha origini ben più lontane nel tempo e uno dei teatri è stato da sempre il Mediterraneo.

Dal Medioevo fino a metà Ottocento il nostro mare fu teatro di scontri tra cristiani e musulmani. Nella memoria collettiva di noi europei del Mediterraneo, i corsari e i pirati sono stati i musulmani e noi, europei o cristiani, ne siamo stati le vittime. Quali corsari nel Mediterraneo dell’età moderna pensiamo dunque anzitutto a quelli provenienti dalle città-stato barbaresche di Algeri, Tunisi e Tripoli, o Salé e Tetuan, in Marocco.

Ma vi fu anche un’attività corsara a danno dei mussulmani operata dagli stati cristiani o da singoli corsari “in proprio”. Contrariamente a quanto generalmente si pensa in Europa, in tutto questo periodo a scorrazzare nel Mediterraneo non c'erano solo i corsari musulmani, ma anche quelli cristiani, che compivano azioni analoghe ai danni però di cose e persone musulmane. L'apparizione di una vela cristiana vicino a una costa dell'Africa settentrionale terrorizzava la popolazione esattamente come succedeva quando una nave con la mezzaluna s'avvicinava a qualche paese costiero tirrenico, ionico, ecc.

E’ opportuno precisare la distinzione, sul piano teorico molto chiara, tra “pirata” e “corsaro”. I “corsari erano predoni in nome del Re, i pirati erano predoni in nome del sé”. Tra i corsari “cristiani” anzitutto riconosciamo quelli degli ordini cavallereschi e marinari dei Cavalieri di Malta e dei Cavalieri di Santo Stefano, questi ultimi con sede a Pisa e Livorno. I corsari laici-privati invece operavano sotto varie bandiere: di Toscana, di Genova, di Napoli e dell’ordine stesso di Malta. Altre basi di corsari erano a Cagliari e Trapani in Italia, Tolone in Provenza, Maiorca e Ibiza nelle Baleari. Ogni bandiera legittimava corsari di varia origine. Più varia ancora era la provenienza dei capitali, anche se in gran parte genovesi e livornesi, che finanziarono le imprese corsare.

La corsa, sia cristiana sia barbaresca, fu una grande occasione di rimescolamento d’uomini, un potente motore di interessi economici e di commercio di schiavi, che ne erano il frutto principale.

I più attivi e organizzati corsari musulmani furono quelli con base nelle città costiere del Maghreb, soprattutto Algeri, Tunisi e Tripoli. Con i loro entroterra, queste città costituivano degli stati corsari pressoché indipendenti dal lontano potere dei sultani di Istanbul. La pirateria contro i cristiani era una lucrosa attività (da non dimenticare il commercio o il riscatto degli schiavi catturati) perfettamente legale, spesso incoraggiata dagli stessi sultani ottomani, specialmente quando questi erano in guerra contro paesi cristiani. A guidare i corsari musulmani, vi furono talvolta uomini di gran valore, come i due fratelli soprannominati Barbarossa, che crearono non pochi problemi persino a Carlo V e ad Andrea Doria. Nonostante varie spedizioni punitive da parte di Stati europei e persino dei neonati Stati Uniti d'America (contro Tripoli), l'attività corsara delle reggenze maghrebine (talvolta con strane, ma non troppo, alleanze come ad esempio quella con la Francia) continuò per alcuni secoli.

Tra i corsari italiani ricordiamo il ligure Enrico Pescatore, ed il nizzardo Giuseppe Bavastro, capitano del porto di Algeri al servizio dei Francesi, che praticò con successo la guerra da corsa contro gli Inglesi. Tra le tante imprese per cui divenne famoso ci fu quella compiuta nel 1803 a Gibilterra quando, al comando dell'Intrépide, un modesto sciabecco, riuscì a catturare i briks della Royal Navy Astrea e Mary Stevens.

Nello scenario del Mediterraneo di solito si parla assai poco della schiavitù, soltanto poche pagine riguardano i barbareschi e neanche una parola sulla persistenza della schiavitù, dal XVI sino a tutto il XVIII secolo, in alcuni paesi europei come Italia, Spagna, Portogallo, Malta. [1] Ma era proprio la schiavitù il frutto principale tra la guerra corsara tra pirati barbareschi ed europei.

La possibilità di accedere all’Archivio Segreto Vaticano e lo studio della documentazione della Opera Pia del Riscatto, istituita a Roma nel 1581 da papa Gregorio XIII, aprì la strada alla dimostrazione che la “redenzione degli schiavi” era stata esercitata in egual misura da istituzioni religiose e istituzioni del tutto laiche, fondate e operanti su base cittadina o statale (Bono, Corsari barbareschi 1964). Uno storico dell’economia, Ciro Manca (1982), analizzando i documenti vaticani, arrivò alla conclusione che la pirateria fu un mezzo volto a produrre “schiavi per mezzo di schiavi”.

Tra le istituzioni, ricordiamo la Casa Santa della Redenzione de’ Cattivi di Napoli, la più antica, sorta agli inizi del Cinquecento, e l’Arciconfraternita per la Redenzione de’ Cattivi di Palermo, di cui fa cenno anche Goethe nel suo viaggio in Sicilia.

Ma quale fu il ruolo del Regno delle Due Sicilie nella guerra corsara quando cessò di essere vicereame spagnolo?

All’indomani del suo insediamento sui troni di Napoli e Sicilia (non ancora “delle due Sicilie”), preoccupato da una incursione barbaresca che lo aveva minacciato da vicino, il giovane re, Carlo di Borbone, rinforzò le difese costiere armando una piccola flotta da contrapporre, spesso con successo, ai barbareschi. Ma la via da percorrere, per ovvi motivi economici, era comunque quella diplomatica sia con l’impero Ottomano, sia con le città stato del Maghreb.

Antonio Joli, Partenza di Carlo di Borbone per la Spagna, Napoli, Museo di S.Martino

Molti protocolli d’intesa furono firmati sulla base mutualistica di scambi di prigionieri e di versamenti in denaro. Nell’ultimo quarto del XVIII secolo divennero sempre più frequenti le liberazioni di schiavi da entrambe le parti e diverse iniziative si connettono non solo ai sovrani europei ma anche all’impegno del sultano marocchino Mohammed ben Abdallah a partire dal 1765. L’impegno del sultano mirava a migliorare le condizioni degli schiavi soprattutto riguardo la libertà di culto e ove possibile, in accordo con i cristiani, a sospendere la schiavitù.

Inserto: Capitan Peppe

Nella lotta contro la minaccia dei corsari barbarbareschi, si mise in luce un ufficiale borbonico: Giuseppe Martinez, alfiere di galera, comandante della "Sant'Antonio".

Nato a Cartagena nel 1702, giunto a Napoli nel 1732, quattro anni dopo era entrato nell'Armata di mare. Nel luglio 1747 fu destinato alla sorveglianza del litorale dei Presidi e tornò alla base un mese più tardi dopo aver catturato una galeotta tunisina con 36 uomini di equipaggio. L'anno successivo, promosso capitano, posto al comando di uno sciabecco da poco entrato in armamento, ripeté l'impresa nello Ionio, catturando uno sciabecco tunisino ed i 54 barbareschi che vi erano imbarcati. Nell'aprile 1752 le unità navali poste al comando del Martinez - che a Napoli era popolarmente acclamato come "Capitan Peppe" - furono impegnate, nei pressi dell'isola greca di Zacinto, in uno scontro con il "Gran Leone", un robusto bastimento corsaro sul quale sventolava il vessillo del Bey d'Algeri. La vittoria arrise ai borbonici: lo sciabecco algerino fu affondato, 109 barbareschi rimasero uccisi e gli altri furono fatti prigionieri. Il "rais" fu portato in catene a Napoli, dove il comandante della squadra navale vittoriosa, ferito in battaglia, fu promosso e decorato dal Re.

Nell'aprile 1753, "Capitan Peppe", che aveva ottenuto il comando dello sciabecco "San Luigi", catturò al largo di Capo Rizzuto un pinco con le insegne del Bey di Tripoli e 90 uomini di equipaggio. Il "rais" Mohamed Ingnet fu fatto prigioniero assieme a 58 uomini della ciurma corsara, mentre gli altri perirono in combattimento. Qualche tempo più tardi, nell'aprile 1757, una squadra napoletana intercettò lungo le coste della Calabria uno sciabecco algerino ed lo catturò. Nel maggio successivo il Martinez riuscì ancora ad avere la meglio: un grosso pinco di Tripoli fu catturato nelle acque della Sicilia, dopo un vivace combattimento. A novembre, ancora un altro legno dei barbareschi cadde nella rete del Martinez.

Bibliografia

  • Lamberto Radogna, “Storia della Marina Militare delle Due Sicilie”, Mursia, 1982

  • Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Del Grifo, 2004

Una delle missioni più rilevanti che ha coinvolto gli Stati del Mediterraneo, compreso il regno di Sicilia, è quella con Sidi Muhammad ibn Uthaman al Miknasi che si concluse, in Spagna, con la firma del trattato di Arajuez, il 30 maggio 1780. La missione negli anni seguenti proseguì a Malta ed a Napoli, alla corte di Ferdinando IV. Sulla via del ritorno in Spagna il veliero fece naufragio, nel dicembre del 1782, e l’ambasciatore fu costretto a riparare a Palermo dove trascorse alcuni mesi, dando il via alla famosa impostura organizzata dall’abate Vella.

Ma la pace stabilita nel trattato non durò a lungo. Gli attacchi pirateschi dall’una e dall’altra parte con alterne vicende durarono fino al 25 aprile 1816 quando fra il Regno delle Due Sicilie ed il Bey di Tripoli fu sottoscritto un nuovo trattato di pace. Nove anni più tardi, quando il trattato avrebbe dovuto essere rinnovato, il Bey alzò la posta. Contro i 40.000 colonnati che avrebbe dovuto ricevere dal governo di Napoli, ne chiese più del doppio: 100.000.

Francesco I, da poco succeduto al padre Ferdinando, non accettò e rispose con le armi attaccando Tripoli. Dopo un lungo assedio e la cattura di una goletta tripolina da parte dei siciliani, il Bey venne a più miti consigli ed il 28 ottobre 1828 si firmò un nuovo trattato di pace.

Il colpo di grazia alla guerra di corsa venne inferto dall'occupazione di Algeri da parte dei Francesi nel 1830.

Ovviamente le scorrerie non finirono solo per un paio di firme. La “Corsa” si trasformava agilmente in pirateria e le scorrerie continuavano.

Per limitare ciò Il 23 marzo 1833 le Due Sicilie sottoscrissero un accordo di reciproca assistenza contro la pirateria con il Regno di Sardegna: fu decisa un'azione navale congiunta contro il Bey di Tunisi. L'iniziativa si concluse positivamente: il 10 maggio e il 17 novembre veniva sottoscritto a Tunisi un trattato di pace e di amicizia fra il bey ed il Regno delle Due Sicilie. Con quell'accordo si confermava la precedente convenzione, sottoscritta il 17 aprile 1816, in base alla quale la bandiera delle Due Sicilie era considerata come quella della "nazione più favorita".


Note

[1] Il rifacimento monumentale di Napoli, come di altre capitali, richiedeva parecchia mano d’opera così come molta servitù era necessaria al mantenimento delle ricche dimore. I prigionieri delle scorrerie erano la soluzione ideale per la manovalanza non qualificata.


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