Le Pagine di Storia

La guerra coi pirati barbareschi

di Marco Vigna

 

I corsari barbareschi, che muovevano dalle loro basi poste sulla costa dell’Africa settentrionale, rappresentarono per l’Italia meridionale, ancora nel secolo XVIII e nella prima parte del XIX, una presenza così costante e minacciosa che il loro contrasto si configurò quale una vera e propria guerra. Sotto i regni di Carlo III, Ferdinando I e Francesco I, quindi per un periodo assai lungo, la flotta borbonica non riuscì a fronteggiare efficacemente questi avversari ed il Mezzogiorno subì incursioni frequenti e devastanti.

Carlo III aveva autorizzato la costituzione d’una marina cosiddetta “da corsa”, del tipo analogo a quella piratesca (leggera, veloce, costituita almeno in parte da galee a remi) ed anche concesso ai suoi sudditi di poter “correre i mari”. Di fatto, questo sovrano permetteva ai regnicoli di poter praticare la pirateria contro le popolazioni africane, saccheggiando e facendo schiavi. La stessa attività era esercitata anche dalla marina da guerra regia, che conduceva talora schiavi nei porti dell’Italia meridionale. Questo e l’attività vera e propria di contrasto ai corsari barbareschi, malgrado alcuni successi, non ridiedero però sicurezza alle popolazioni dell’Italia meridionale, poiché i mari e le coste erano tutte minacciate.

Carlo di Borbone (poi III di Spagna)

Può dare un’idea dell’intensità dell’azione piratesca sapere che questi corsari africani erano in grado di giungere  persino nelle immediate vicinanze della capitale Napoli. Un celebre episodio, ricordato fra gli altri da Alexander Dumas nella sua monumentale storia I Borboni di Napoli, ricorda che gli abitanti di Procida, ribellatisi a Carlo III (dopo che un suo editto che imponeva la cacciata di tutti i cani ed i gatti nell’isola aveva condotto ad una moltiplicazione di topi, che avevano sbranato un bambino), minacciarono di chiamare l’aiuto dei corsari africani “meno crudeli, secondo loro, d’un re che lasciava mangiare i loro figli dai topi, piuttosto che correre il rischio di veder mangiato dai gatti uno dei suoi fagiani”. Questo dimostra che le flotte barbaresche erano in grado di minacciare persino Procida, posta proprio alle porte della baia partenopea. D’altronde, non mancavano certo i casi di incursioni fin nelle vicinanze di Napoli stessa, malgrado la sua lontananza dall’Africa rispetto alle altre coste del reame borbonico ed il suo essere la capitale. In una circostanza lo stesso sovrano rischiò di cadere vittima degli attacchi pirateschi. Il 21 aprile 1738 una squadra navale algerina entrò nel golfo di Napoli con l’intenzione di fare prigioniero Carlo III,  che si era recato proprio a Procida per una battuta di caccia.

È facile immaginare quale fosse la minaccia delle flotte piratesche contro il naviglio e le popolazioni dell’Italia meridionale quando questi corsari erano in grado d’agire sin nelle immediate vicinanze di Napoli e progettare la cattura dello stesso re. E. D’Onofri, autore d’un panegirico intitolato Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III pubblicato nel 1790, ammetteva che sotto il regno di questo sovrano i corsari barbareschi ed i turchi attaccavano paesi e città, assaltavano bastimenti carichi di mercanzie usciti da porto e conducevano un fiorentissimo traffico di schiavi verso i loro paesi.

Antonio Joli, Partenza di Carlo di Borbone per la Spagna, Napoli, Museo di S.Martino

La situazione non conobbe cambiamenti sostanziali sotto Ferdinando I, se Ferdinando Galiani poté scrivere dicendo che la sua terra “mentre restava sprovveduta di forze per difendersene [dai corsari], vide le sue marine tutte saccheggiate, bruciate, e gl’indifesi abitatori condotti in servitù”. La flotta rimase a lungo quasi la stessa che era esistita sotto Carlo III anche sotto il regno del nuovo sovrano, il “re lazzarone”, quindi piuttosto piccola pure per i parametri dell’epoca. Nel 1759, al momento del ritorno di Carlo di Borbone nella terra natale di Spagna, la marina da guerra del reame borbonico in Italia contava in tutto 18 unità, fra cui alcune assai modeste, precisamente un vascello, tre fregate, quattro galere, quattro galeotte, sei sciabecchi. Le dimensioni e la qualità delle unità militari non subirono mutamenti di rilievo per molto tempo, circa vent’anni, limitandosi di fatto al rimpiazzo delle navi più vecchie ed usurate. Per fare un confronto, si può ricordare che la flotta francese nel 1778 (quindi proprio nello stesso periodo dei primi vent’anni di regno di Ferdinando di Borbone a Napoli), contava 230 unità. Una marina come quella napoletana che s’aggirava attorno alle due decine di navi da guerra era chiaramente impossibilitata a sorvegliare in modo adeguato tutto il lunghissimo perimetro marittimo dell’Italia meridionale, continentale ed insulare.

La flotta da guerra borbonica fu poi potenziata su impulso dell’ufficiale irlandese John Acton, che dopo essere stato al servizio del Granduca di Toscana divenne nel 1778 il direttore della “Real Segreteria della Marina” borbonica. Acton si prefisse la costruzione d’una marina più grande che in passato, servendosi di collaboratori anche loro provenienti dal Granducato di Toscana, ossia l’ingegnere Antonio Imbert ed il suo aiutante Pietro Leopard.

John Francis Edwards Acton

Il programma di costruzioni marittime actoniane si scontrò però con una serie di limiti strutturali legati alle capacità economiche e tecnologiche del reame: i costi finanziari, la carenza di grandi porti bene attrezzati (esistevano in tutto il reame solo due porti, Napoli e Baia, capaci d’ospitare le navi più grandi), la mancanza di personale marittimo qualificato impedirono uno sviluppo della marina da guerra sufficiente ad arrestare l’attività piratesca. L’incapacità della flotta borbonica di sconfiggere i corsari spinse il governo del regno a tentare di risolvere il problema o ricercando alleanze con stati stranieri  (Spagna, Francia, regno di Sardegna, Inghilterra ecc.) o per via diplomatica, pagando un tributo ai piccoli stati africani dediti alla pirateria.

Questa comunque proseguì con effetti disastrosi, terrorizzando le popolazioni costiere i cui abitanti rischiavano d’essere rapiti e resi schiavi ed assaltando le navi mercantili del reame con tale frequenza che i marinai dell’Italia meridionale preferivano prestare servizio su imbarcazioni battenti bandiera straniera, ritenute molto più sicure dagli attacchi dei corsari. Le perdite umane erano accompagnate da quelle economiche, con le vie marittime del regno strangolate dall’azione piratesca.

Come già sotto Carlo III, la stessa capitale e la persona medesima del re non erano al sicuro dall’azione dei barbareschi. Ferdinando I fu costretto a dover mobilitare la flotta da guerra a sua protezione già solo recandosi a caccia nell’isola d’Ischia. La situazione era a tal punto preoccupante da far temere al governo borbonico che i corsari giungessero a bombardare Napoli, eventualità che ossessionava il monarca stesso. La flotta militare borbonica era quindi impotente a frenare efficacemente l’azione piratesca, tanto che quando re Ferdinando e sua moglie la regina Maria Carolina nel 1799 fuggirono via da Napoli diretti a Palermo dovettero farsi scortare da unità della marina da guerra inglese, per evitare il rischio d’essere catturati dai corsari.

Le scorrerie piratesche proseguirono negli anni seguenti, anche se conobbero una diminuzione in seguito ad un trattato siglato il 25 aprile del 1816  fra il re Ferdinando ed il bey di Tripoli, che stipulava una pace fra i due stati in cambio d’un tributo che il regno delle Due Sicilie avrebbe dovuto versare al piccolo principato africano, pari a 40.000 ducati.

I principati barbareschi furono una minaccia per il regno delle Due Sicilie ancora sotto Francesco I. Il bey di Tripoli aveva dichiarato scaduto l’accordo sottoscritto nel 1816, sostenendo che non aveva più valore a causa della morte di re Ferdinando, e chiedeva per il suo rinnovo non più il vecchio tributo di “soli” 40.000 ducati, ma il versamento di ben 100.000. Il nuovo sovrano borbonico respinse l’esosa proposta e le incursioni di corsari ripresero. Pochi anni prima, nel 1825, il regno di Sardegna, in seguito ad alcuni attacchi pirateschi al suo naviglio, aveva inviato una spedizione navale a Tripoli, guidata da Giorgio Giovanni Mameli (il padre di Goffredo Mameli), che aveva con facilità distrutto l’intera flotta dei corsari. Ricordando questa vittoriosa operazione, Francesco I decise d’imitarla ed inviò nel 1828 la sua flotta da guerra alla base tripolina dei suoi nemici.

L’attacco però si risolse in un fallimento, tanto che lo storico Harold Acton nel suo studio Gli ultimi Borboni di Napoli lo definisce nei seguenti termini: “Una malaugurata spedizione a Tripoli contribuì, nel 1828, a screditare maggiormente il Governo”. La marina borbonica era giunta davanti al porto africano con polveri da sparo in pessime condizioni, poiché risalivano al 1809 ed erano bagnate. Il risultato fu che il fuoco della sua artiglieria contro la flotta piratesca fu praticamente inefficace. Furono anzi i corsari a mettere in pericolo alcune unità della marina da guerra delle Due Sicilie, poiché un attacco delle vecchie galee tripoline (unità del tutto superate sul piano tecnologico ed assai piccole rispetto ai maggiori vascelli di tipo “atlantico”) rischiò d’affondare alcune cannoniere borboniche. Dopo alcuni giorni di combattimento, la flotta inviata da re Francesco I decise infine di ritirarsi senza aver ottenuto alcun risultato. Il fallimento della spedizione, provocato in buona misura dalla mancanza di polvere da sparo funzionante, condusse alla messa sotto processo degli ammiragli, che però furono assolti. Uno di loro, il Sozi Carafa, divenne anzi pochissimi anni dopo, durante il regno di re Ferdinando II, il “governatore del Regio Arsenale”.

Comunque, essendo fallito appieno il tentativo di distruggere la flotta piratesca, si ripiegò sulle trattative diplomatiche, che condussero ad un trattato di pace fra Napoli e Tripoli. Commenta l’Harold Acton che i termini della pace non furono però resi noti dal governo borbonico, poiché presumibilmente non erano affatto brillanti. Essi dovevano prevedere infatti un rinnovo del tributo versato dal regno delle Due Sicilie al bey tripolino.

La fine della pirateria contro le coste dell’Italia meridionale fu dovuta a cause internazionali, anzitutto l’azione francese nel Mediterraneo. Nel 1830 i Francesi sbarcavano ad Algeri ed intraprendevano l’occupazione dell’Algeria, ponendo quindi sotto il proprio controllo un territorio che da secoli era covo di corsari. Inoltre la presenza in forze della flotta da guerra francese nell’area mediterranea limitava in modo decisivo le possibilità d’azione delle marine barbaresche. Azioni piratesche continuarono però ad essere compiute, sebbene in misura molto più ridotta che in passato, contro il reame borbonico. Il regno delle Due Sicilie ricercò allora l’alleanza col regno di Sardegna per compiere un’azione navale comune contro il bey di Tunisi. L’operazione eseguita dalle due flotte ebbe successo e condusse il principe tunisino a firmare la pace. La pace con il Marocco fu invece ottenuta dal regno delle Due Sicilie grazie al versamento di un tributo al sultano marocchino. Furono comunque decisive nello spegnersi della plurisecolare pirateria barbaresca l’egemonia imposta dalla Francia sul Maghreb e la presenza di flotte francesi ed inglesi nell’area mediterranea.

Indicazioni bibliografiche

La bibliografia sulla pirateria e la guerra da corsa nel Mediterraneo è letteralmente sterminata e sarebbe problematico riassumerla in breve. Si riportano qui alcune indicazioni bibliografiche essenziali, principalmente in riferimento all’Italia meridionale per il periodo preso in esame.

  • H. Acton, I Borboni di Napoli, Milano 1974

  • H. Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Firenze 1997

  • S. Bono, Corsari nel Mediterraneo, Milano 1997

  • S. Bono, Schiavi mussulmani nell’età moderna, Napoli 1999

  • S. Bono, Un altro Mediterraneo. Una storia comune fra scontri e integrazioni, Roma 2008

  • V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura di A. De Francesco, Manduria-Bari-Roma 1998

  • E. D’Onofri, Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III monarca delle Spagne e delle Indie, Napoli, 1790

  • A. Dumas, I Borboni di Napoli, Napoli 1864

  • T. Filesi, Un secolo di rapporti tra Napoli e Tripoli. 1724-1835, Napoli 1983

  • A. Formicola, C. Romano, Il periodo borbonico (1734-1860), in A. Fratta (a cura di), La fabbrica delle navi. Storia della cantieristica nel Mezzogiorno d’Italia, Napoli 1990

  • J. Heers, I barbareschi: corsari del Mediterraneo, Roma 2003

  • L. Lo Basso, In traccia de’ legni nemici. Corsari europei nel Mediterraneo, Genova 2002

  • M. Mafrici, Il Mezzogiorno d’Italia e il mare: problemi difensivi nel Settecento, in R. Cancila (a cura di), Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), in «Mediterranea. Ricerche storiche», 4, 2007, t. II, pp. 637-663

  • M. Mafrici, Mezzogiorno e pirateria nell’età moderna (secoli XVI-XVII), Napoli 1995

  • M. Mafrici, Il re delle speranze. Carlo di Borbone da Madrid a Napoli, Napoli 1998

  • M. Mafrici, Il Regno di Napoli e la Sublime Porta tra Sei e Settecento, in G. Platania (a cura di), L’Europa centro-orientale e il pericolo turco tra Sei e Settecento. Atti del Convegno internazionale (Viterbo, 23-25 novembre 1998), Settecittà, Viterbo 2000

  • B. Maresca, La marina napoletana nel secolo XVIII, Napoli 1902

  • L. Nardelli, Turchi e barbareschi nell’Adriatico (secc. XVI-XIX), in “Islam. Storia e civiltà”, XI, 1992, pp. 263-265

  • G. Nuzzo, John Acton, in Dizionario biografico degli italiani, I, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma, 1960

  • R. Panetta, Pirati e corsari turchi e barbareschi nel Mare Nostrum, Milano 1981

  • R. Panetta, Il tramonto della mezzaluna. Corsari e corsari turchi e barbareschi nel mare nostrum. XVII, XVIII, XIX secolo, Milano 1984

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