Le Pagine di Storia

 

La Sicilia, i Siciliani e l’amore platonico per l’indipendenza

di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

 

Da molti è stato scritto che lo spirito di indipendenza è una caratteristica peculiare degli isolani e dei Siciliani in particolare.

In realtà, se analizziamo la storia della Sicilia, sarà facile rendersi conto che così non è, che l’indipendenza è stata sempre una aspirazione teorica mai realmente perseguita, perché sullo spirito indipendentista ha sempre prevalso l’interesse privato di una classe dirigente, quella baronale, che non ha mai avuto remore a “svendere” la Sicilia a chiunque a patto che venissero garantiti e conservati i propri privilegi ed soprattutto evitando così di privilegiare con la “sovranità” un casato isolano su tutti gli altri.

La sala "Ercole" del Parlamento Siciliano

Questo è stato possibile perché i ceti sociali che non partecipavano alla dirigenza, sono stati da sempre abituati ad essere sudditi di qualcuno che su loro esercitava il mero e misto imperio [1] il sovrano, straniero e lontano, o il feudatario, locale e vicino, del feudo che popolavano.

Per strano che possa sembrare, i Siciliani hanno rinunciato per sempre all’indipendenza, a diventare Nazione, proprio all’indomani del Vespro. Quel mitico Vespro, chiamato in causa come simbolo di ribellione allo straniero da chiunque professi qualsiasi forma di sicilianismo. I baroni infatti, pur avendo con l’aiuto dell’intero popolo scacciato gli odiati Angiò, non esitarono ad offrire la corona del regno a Pietro III d’Aragona in cambio della conferma dei privilegi baronali e di un altro “originale privilegio” che si rivelerà negli anni a venire assai funesto per l’isola: l’esenzione perpetua dei siciliani da qualsiasi forma di servizio militare obbligatorio. Questo privilegio serviva a garantire mano d’opera per i feudi ma soprattutto serviva a “disarmare” una popolazione che, se sobillata, si era dimostrata capace di estrema violenza. La mancanza della leva obbligatoria ha inoltre fatto sì che i siciliani non sviluppassero il senso dello Stato e ancor peggio ha reso necessaria la dipendenza dell’isola da un’altra nazione in quanto impossibilitata, specie in quei tempi, a difendere con le armi la propria sovranità [2]. Aver offerto la corona agli Aragonesi fece inoltre fallire il progetto delle Communitas Siciliae, confederazioni di libere città siciliane, sorte durante il Vespro, alla maniera delle città lombarde e toscane. Palermo, Corleone, Messina e le altre città demaniali elessero subito i loro capitani del popolo, ma fecero l’errore grossolano di giurare fedeltà al papa in cambio della garanzia di non avere più sovrani stranieri. Ma il papa, il francese Martino IV, in debito con gli Angiò per la sua elezione, cacciò via in malo modo la delegazione delle Communitates e minacciò la scomunica se non avessero riammesso in Sicilia gli Angiò. Intanto le Communitas avevano già cominciato a farsi guerra tra loro. L’eterno antagonismo tra Messina e Palermo aveva già provocato la divisione della Sicilia in Ultra e Citra flumen Salsum.

Questa dicotomia politica, come scrive Giunta [3], era l’intima debolezza delle Communitas Siciliae e si tradusse in incertezza d’orientamento ed in insicurezza pubblica e privata. In nome della rivoluzione scoppiarono faide personali e familiari, aumentarono i furti, gli assassini e la sicurezza diminuì enormemente. Di ciò approfittarono gli Angioini, che sbarcarono a Messina; fu a questo punto i baroni si rivolsero a Pietro III d’Aragona, in precedenza contattato, che immediatamente accorse e, esaudendo le richieste baronali, il 4 settembre 1282 cinse la corona di Sicilia trasformando la guerra del Vespro da rivolta siciliana in guerra europea, tra Francia e Spagna, una guerra che durerà ben 90 anni.

I baroni siciliani non saranno mai nel corso dei secoli seguenti capaci di esprimere un sovrano tratto dai loro ranghi. Gli egoismi saranno sempre talmente grandi da sconfinare nella guerra civile tra gli Aragona e i Chiaromonte, che non esitarono a rivolgersi agli Angioini di Napoli per sopraffare gli Aragona!

Un altro tentativo di conquistare l’indipendenza si ebbe nel 1649, in seguito alla rivolta guidata dal D’Alesi. Antonio Del Giudice e Giuseppe Pesce, due giureconsulti. In seguito alla diffusione della falsa notizia della imminente morte del re di Spagna, cercarono di convincere l’aristocrazia siciliana ad esprimere un re nazionale e proposero il duca di Montalto, che era già stato Presidente del Regno e viceré di Sardegna e aveva dato buona prova di capacità politica. Ma si oppose il conte di Mazzarino, della famiglia dei Branciforte, pretendendo per sé la corona in quanto in possesso del “Primo Titolo” del regno: resosi conto di non essere lui il prescelto, ma di essere stato coinvolto nel complotto solo in virtù della sua influenza, pur di non farla cingere ad altri quella corona, e spinto anche dalla moglie, finì col denunciare tutto all’allora viceré di Sicilia, Don Giovanni d’Austria, il quale fece immediatamente arrestare i borghesi coinvolti nel complotto, dando però tutto il tempo necessario ai nobili per fuggire. Ovviamente i borghesi furono immediatamente e orrendamente giustiziati, mentre i nobili fuggitivi vengono sì condannati a morte in contumacia ma il tutto si risolve nella confisca dei beni. L’unico nobile ad essere giustiziato sarà il conte di Racalmuto che, sicuro della potenza del suo casato, non aveva voluto prendere la via della fuga. Mazzarino, graziato dal re per la sua delazione si ritirerà invece nella sua villa di Bagheria dando così il via alla moda della villeggiatura in villa nella località.

Alfonso il Magnanimo

Con l’avvento al trono dell’illuminato Carlo di Borbone, incoronato a Palermo nel 1735, si registra un altro tiepido tentativo indipendentista o meglio nasce la speranza che Carlo ponga la sua capitale a Palermo. In realtà questi aveva scelto Palermo come sede per l’incoronazione solo perché l’isola non era vassalla del pontefice, per via della Apostolica legatia concessa al Gran Conte Ruggero, ma non aveva alcuna intenzione di fare di Palermo la capitale: infatti si trasferì subito a Napoli e farà di quella città la vera capitale.

Dopo le utopistiche velleità indipendentiste nate e morte nello spazio di un mattino nel 1812 e nel 1820, dovremo aspettare il 1848 e Ruggero Settimo per assistere ancora una volta, dopo una rivolta vittoriosa, al rituale dell’offerta della corona a un re “straniero”, un Savoia questa volta, che tuttavia declina il gentile omaggio. Ma i Siciliani, pur non avendolo mai conosciuto né avuto come re, gli hanno stranamente intitolato una strada che ancora oggi porta il suo nome, Corso Alberto Amedeo, il nome di un re esistito solo nei sogni dei rivoltosi. In questa occasione assistiamo anche ai danni provocati dalla assenza di un esercito di leva. Per difendersi, Ruggero Settimo e i suoi saranno costretti ad assoldare mercenari stranieri o ad armate costituite da elementi mafiosi e malavitosi che erano state organizzate per difendere gli interessi particolari dell’aristocrazia. [4]

Ruggero Settimo. Palermo, Museo del Risorgimento.

Nel 1860 infine, la voglia di liberarsi dai Borbone di Napoli, che buona parte dei baroni siciliani vedevano come traditori dei loro interessi, sarà soddisfatta sempre grazie all’intervento di uno straniero, Garibaldi, con l’appoggio non tanto tacito del re di Piemonte [5]. Questo sancirà la fine di ogni “speranza” di indipendenza e la subordinazione dell’intero meridione, smembrato e dilaniato grazie alla maldestra iniziativa siciliana, al regno di Piemonte (cfr: Le province siculo-partenopee nel Regno d’Italia).

Nonostante questo enorme disastro come racconta magistralmente De Roberto nel suo grande romanzo, I Viceré, gli interessi della classe dirigente, dei baroni e dei grandi proprietari terrieri verranno ancora una volta salvaguardati!

L’indipendentismo si riaffaccerà dopo lo sbarco degli alleati, nel 1943 [6]. Gli indipendentisti del secondo dopoguerra seppero sfruttare il disagio e la fame delle masse popolari stremate dal fascismo e dalla guerra utilizzando con sapienza un mixer micidiale di mafia e banditismo. Come sempre la voglia di indipendenza risultò ancora una volta solo “teorica”. Tutto rientrò nei ranghi una volta che la mafia verrà tacitamente “accettata” dallo stato per tenere a bada le masse contadine e la solita classe dirigente otterrà una autonomia che servirà a favorire i loro interessi.

Dell’uso perverso che si è fatto dell’autonomia ancora oggi paghiamo le conseguenze.

La domanda finale è questa: a chi offriremo la nostra “corona” se le attuali spinte separatiste che serpeggiano in Sicilia e in tutto il meridione dovessero avere successo?

Fara Misuraca

Alfonso Grasso

Agosto 2011


Note

[1] Privilegio reale che concedeva ai feudatari di esercitare giustizia civile e penale sui propri vassalli. Inizialmente Federico III e Martino I furono restii a concederlo ma ma in seguito viene concesso sempre più facilmente fino a che, con Alfonso il Magnanimo, sempre alle prese con questioni di bilancio, il mero e misto imperio viene venduto ai baroni che ne facevano richiesta, seppure con qualche riserva come il diritto a ricorrere alla Regia Gran Corte.

[2] L’esenzione dal servizio militare non comprendeva i feudatari i quali avevano l’obbligo di prestare il servizio militare per il sovrano, naturalmente accaparrandosi posti di comando prestigiosi e lucrosi o in alternativa, poteva essere assolto con il pagamento di una tassa. Tuttavia tutti i feudatari, in difesa dei loro beni disponevano di veri e propri eserciti privati costituiti da elementi scelti tra i più violenti e facinorosi della popolazione.

Solo il viceré De Vega, nel 1550, noto come il “Gran Siciliano”, tentò di creare un esercito nazionale siciliano (Militia dei soldati da cavallo e da piede) per contrastare la pressione militare turca. Questa militia venne subito avversata dal baronaggio che ancora una volta dimostrò tutti i suoi “ristretti limiti culturali e politici “ (G.E. Di Blasi, Storia cronologica…vol II pag 184) ed evidenzia la loro volontà di rimanere gli unici gestori del potere. Tanto che il Parlamento siciliano inviò più volte petizioni al Re perché venisse abolita questa “Importuna soldatesca” (Bi Blasi… vol III, pag 107) che tanto gravava sulle spalle degli abitanti!

Bisognerà aspettare Carlo III di Borbone perché la Sicilia si convinca ad armare alcuni reggimenti. Le più nobili famiglie comprarono i più alti gradi, come si usava allora, e i soldati semplici erano volontari, quando c’erano. Nel 1848, Ruggero Settimo si ritrovò con un esercito di Ufficiali! Nell’agosto del 1848, Francesco Crispi in qualità di ministro di guerra e marina presentò una proposta di legge per istituire la coscrizione militare, ma la proposta, fu appoggiata solo da La Masa e quindi venne lasciata cadere. Si arrivò comunque alla proposta di offrire 100 ducati a chi fosse stato in grado di ingaggiare 100 uomini per l’esercito. Quali furono le conseguenze di tale offerta sono facilmente prevedibili.

Anche Garibaldi rimase deluso del fallimento della coscrizione obbligatoria. Ai suoi bandi risposero solo poche migliaia di uomini la maggior parte dei quali già facenti parte di bande armate private.

[3] F. Giunta, Il Vespro e l’esperienza delle Communitas Sicliae, p. 315.

[4] La rivoluzione aveva messo in libertà migliaia di galeotti la maggior parte dei quali si erano arruolati nelle “squadre”, nella “Guardia municipale” e nella famigerata “Guardia nazionale” del barone Riso che in realtà nacque per la custodia delle proprietà e delle persone dei possidenti e non casualmente la chiamata si ebbe lo stesso giorno della liberazione dei detenuti dalle carceri.

[5] E’ tuttavia poco noto che ben 4000 volontari siciliani risposero all’ultimo bando di arruolamento di Francesco II e sebbene attirati anche dal premio d’ingaggio, questi volontari, a detta di Pietro Calà Ulloa, compirono fino all’ultimo il loro dovere e alcuni di loro si aggregarono alle truppe del generale don José Borjes. A Tagliacozzo infatti, assieme a Borjes, i suoi spagnoli e alcuni partigiani meridionali viene registrata anche la fucilazione del siracusano Pasquale Salines (G.C. Abba, Da Quarto al Volturno, Zanichelli, Bologna, 1955, pag 174. Cfr: Il banditi-smo sociale nell’ex Reame siculo-partenopeo).

[6] Da ricordare a questo proposito è la figura di Antonio Canepa, partigiano nei territori del centro nord fin dal 1941. Tornato in Sicilia aderì al Movimento Indipendentista Siciliano Movimento Indipendentista (MIS) e nell'aprile 1945 fondò il primo nucleo dell'Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia (EVIS), propugnando la lotta armata contro lo Stato Italiano. Fervente sostenitore della riforma agraria era convinto che l'idea indipendentista avesse una base popolare che si sarebbe immancabilmente rivelata in seguito, e sosteneva la necessità di essere presenti all'interno del separatismo per indirizzare positivamente queste forze popolari. Per questo era malvisto dal resto del movimento indipendentista, legato al latifondo. La sua lotta durò pochi mesi. Fu ucciso il 17 giugno 1945 in un conflitto a fuoco con i carabinieri a un posto di blocco alle otto del mattino, in contrada «Murazzu Ruttu» presso Randazzo (CT). Insieme a lui morirono il suo braccio destro, Carmelo Rosano (22 anni) ed il giovane Giuseppe Lo Giudice (18 anni). Il tutto si svolse in circostanze oscure che hanno più volte fatto pensare ad un complotto. Dopo lo scontro a fuoco Canepa ferito, venne lasciato per ore senza soccorsi e così morì dissanguato, non venne redatto un verbale ufficiale dai carabinieri e la ricostruzione dei magistrati si baserà solo sulle dichiarazioni dei singoli protagonisti. Il fatto è che uccidendo l'esponente di sinistra venne anche mutilata la componente progressista del MIS, che faceva capo a Antonio Varvaro, che poco tempo dopo uscì dal movimento. Il comando dell’EVIS fu quindi affidato al bandito Salvatore Giuliano. Il M.I.S. decise di entrare nella legalità e di partecipare alle elezioni per il parlamento nazionale dopo, però, avere avute le garanzie del riconoscimento dello Statuto Speciale Siciliano conferito da Umberto II il 15 maggio 1945 , 17 giorni prima del referendum che trasformerà l'Italia in Repubblica, e che divenne parte integrante della Costituzione Italiana (legge costituzionale n° 2 del 26/02/1948). Giuliano non accettò l'accordo e continuò la lotta con la sua banda.(cfr: Il Separatismo siciliano nel secondo Dopoguerra)

Vito Genovese in divisa americana con Salvatore Giuliano. Genevose fu l’autista e l’interprete di Charles Poletti (cfr Lo sbarco in Sicilia)


Bibliografia

  • G.C. Abba, Da Quarto al Volturno, Zanichelli, Bologna, 1955

  • M. Amari, La guerra del vespro siciliano, Messaggerie Pontremolesi, Milano (rist. del 1989)

  • F.C. Castiglione Dizionario delle figure, delle Istituzioni e dei costumi della Sicilia storica, Sellerio Editore, Palermo 2010

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