Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

Sintesi

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Il territorio attualmente di Barra era stabilmente abitato già dal tempo della Nea-polis fondata dai Greci intorno al 470 a.C. ed entrata poi a far parte dei domìni di Roma nel 326 a.C.

In particolare, sembra che il processo di popolamento stabile delle campagne circostanti la città, e dunque anche dell’attuale territorio di Barra, possa farsi risalire agli anni intorno al 400 a.C., quando i Sanniti, che avevano già sottomesso Cuma nel 421 a.C., ed in seguito Dicearchìa (Pozzuoli), si imposero anche nel governo di Napoli, senza tuttavia aver bisogno di conquistarla con la forza ma inserendosi abilmente nelle lotte intestine fra le varie fazioni.

Gli scavi effettuati a Barra nel 1840 e nel 1855, nella zona di Via Mastellone, portarono alla luce una necropoli greca, risalente con ogni probabilità proprio a questo periodo, anche se purtroppo non ha potuto essere ulteriormente studiata.

Nel 1865, nella zona all’incrocio fra gli attuali Corso Sirena e Via Gian Battista Vela e sotto la villa De Cristofaro, venne rinvenuta anche una necropoli romana, attestante chiaramente che, anche nel periodo della Roma tardo-repubblicana e poi imperiale, il territorio fu certamente abitato: nel senso che ospitò quelle famose “ville” romane, che erano delle vere e proprie aziende agricole, con vastissimi territori coltivati da una numerosa manodopera di schiavi.

L’addensamento nella nostra zona di gruppi consistenti di schiavi, per le esigenze del lusso dei loro padroni, rende ragione del rapido accorrere di grandi masse di diseredati sotto la bandiera di Spàrtaco, quando questi, nel 73 a.C., levò il grido della più famosa ed eroica rivolta contro la schiavitù del mondo antico, a partire dalla celebre battaglia combattuta sul Vesuvio.

La fine di quel mondo, con la caduta dell’impero romano d’occidente (nel 476), e la lunga guerra fra i Goti e i Bizantini (dal 535 al 553), con i relativi sconvolgimenti, devastazioni e massacri, lasciarono al Ducato napoletano (554-1140), prima dipendente dall’imperatore di Bisanzio e poi (a partire dall’anno 840) del tutto autonomo, una ben triste eredità.

Nelle carte del periodo ducale, troviamo menzionato il Territorium plagiense, detto anche Foris flùbeum, perché si trovava, uscendo dalle mura della città, al di là del fiume detto in quest’ epoca Rubeolum o Ribium  e che successivamente, a partire dalla citazione fattane da Giovanni Boccaccio, prenderà l’antico, classico nome di fiume Sebéto.

Il Territorium plagiense era dunque, in pratica, il lembo di terra, ad oriente della città, posto fra il fiume, il Vesuvio ed il mare.

Questo territorio, già sconvolto dalla eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. e poi dalle vicende belliche, venne in pratica quasi del tutto abbandonato dopo il 500, restando preda delle paludi e delle cosiddette “lave dell’acqua”, ossia dei torrenti di acqua piovana che scendevano precipitosamente dalle alture circostanti, scavando nel terreno quelle famose “cupe” i cui tracciati, pur dopo secolari peripezie, sono in parte visibili fino ad oggi.

Fu solo quando il Ducato napoletano, divenuto autonomo nel 840, poté garantire un minimo di sicurezza da banditi e pirati nonché di stabilità sociale, che quelle terre poterono nuovamente cominciare ad essere coltivate, strappandole gradualmente alle paludi: poveri ma tenacissimi “servi della gleba” bonificarono i terreni feudali appartenenti alle grandi famiglie nobili della città o ai grandi complessi monastici che pure in città avevano la loro sede principale.

Già prima dell’anno 1000, troviamo perciò documentati i tre piccoli nuclei abitati di Sirinum, Casabalera e Tresano, che sono come le tre radici dalle quali si svilupperà l’albero del Casale della Barra.

E’ pure ben documentato che: in Sirinum (che aveva come stemma una Sirena uni-càuda con corona ducale) vi era una chiesetta (l’attuale Arciconfraternita della SS.Annunziata) dedicata a S.Atanasio (832-872), vescovo di Napoli dal 849 al 872; nel Tresano vi erano anche insediamenti ebraici; in Casabalera si trovava un pozzo, che in seguito darà il nome alla contrada (S. Maria del Pozzo).

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Il periodo del regno Normanno (1140–1194) portò sviluppi positivi: i Normanni introdussero nelle nostre campagne le tecniche di orti-coltura che essi avevano appreso dagli Arabi in Sicilia; promossero studi pratici (come quello della geografia) che contribuirono grandemente a migliorare l’agricoltura ed introdussero su larga scala l’arte della seta che andò ad affiancarsi alla già tradizionale lavorazione del lino come possibilità di lavoro per le popolazioni.

Fu tuttavia il periodo Svevo (1194–1266), ed in particolare il regno del grande Federico II di Svevia (1220–1250), ad introdurre mutamenti radicali per le nostre popolazioni, anche dal punto di vista sociale: la svolta epocale, operata da Federico II di Svevia, fu l’acquisizione al demànio règio di tutte le terre circostanti la città, onde garantire i rifornimenti di viveri a Napoli (senza l’intralcio dei privilegi feudali dei baroni, con i loro arbìtri ed abusi) nonché rendere possibile una migliore difesa militare del territorio (affidandolo direttamente al controllo dell’esercito imperiale).

Anche il territorio Foris flubeum venne, quindi, sottratto ai grandi monasteri e alle famiglie nobili, che lo avevano posseduto in feudo durante il periodo ducale e quello normanno, e si trovò a dipendere direttamente ed esclusivamente dall’imperatore.

Per i contadini, ciò significò: una maggiore sicurezza sociale; un grande sollievo economico (non dovevano più versare a baroni e monasteri la loro parte del raccolto, ma solo versare una “collecta”, periodica e non molto gravosa, all’imperatore); la possibilità di fruire largamente degli “usi civici” [1]

Grazie a queste circostanze favorevoli, si verificò in quel periodo, nel nostro territorio, la nascita dei Casali  (sul piano civile) e quella delle Estaurìte (sul piano più propriamente religioso).

 Vale a dire che i piccoli nuclei abitati del periodo ducale e normanno (fra i quali Sirinum, Casabalera, etc.), diventando terre demaniali, non furono più semplici possedimenti “fuori le mura” di nobili e monasteri, ma acquisirono una, sia pur relativa, autonomia amministrativa e giuridica: gli “uomini dei Casali” stavano sotto la giurisdizione di un proprio “baiùlo” (cioè un funzionario di nomina imperiale), costituivano una “Università” a se stante, eleggevano propri Sindaci per i loro bisogni particolari.

Inoltre, eleggevano i “Mastri dell’Estaurìta” che governavano, a tutti gli effetti, le chiesette costruite nei Casali: esenti dal pagamento delle “decime” al Papa e dalla “Santa visita” da parte del vescovo, amministravano del tutto autonomamente le offerte dei fedeli (per gli addobbi liturgici e per l’aiuto ai bisognosi) e nominavano essi stessi il prete “cappellano”, che era stipendiato, e poteva anche essere rimosso a giudizio delle famiglie del Casale.

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Le condizioni dei contadini peggiorarono, invece, drasticamente con gli Angioini (1266-1442): una volta vinta la battaglia di Benevento contro Manfredi ed entrato in possesso del Regno, Carlo I d’Angiò dovette “ricambiare” gli appoggi ricevuti, per la sua impresa, dal Papa, dai nobili napoletani, dai banchieri e mercanti amalfitani, fiorentini, pisani, genovesi, etc.; naturalmente, sia l’oneroso tributo da corrispondere al Papa, sia la restituzione dei prestiti ai banchieri, si tramutarono in tasse, che ricaddero quasi esclusivamente sui ceti più poveri.

Inoltre, i vari sovrani Angioini cominciarono a dare in feudo parti sempre più rilevanti delle terre demaniali (fra cui anche quelle Foris flubeum) a nobili, conventi, funzionari e favoriti di corte.

E’ in questo contesto che nasce il Casale della Barra de’ Coczis: uno dei territori venduto (non infeudato, in questo caso, trattandosi di una famiglia non nobile, ma borghese) dal re Carlo I d’Angiò fu una parte dell’antico territorio demaniale del Tresàno, ceduto alla famiglia napoletana de’ Coczis “per gran denari imprestati alla règia corte”, presumibilmente nell’anno 1275.

Oltre al terreno, i de’ Coczis ebbero in appalto la riscossione delle gabelle, presso una “sbarra” o “barra” che, a tal fine, chiudeva la strada: onde il luogo venne ben presto detto “la Barra de’ Coczis”.     

Quasi contemporaneamente, e per le medesime ragioni, la famiglia nobile degli Aprano ricevette, a titolo ereditario, l’ufficio (e la rendita) di “collettore” delle imposte per il Casale di Sirinum.

Nel 1301, Carlo II d’Angiò (figlio del primo) concesse un’altra parte del territorio Tresàno ai Padri Domenicani, a titolo di rendita feudale, per finanziare (insieme a molte altre donazioni) la costruzione del convento di S.Domenico Maggiore in Napoli. 

Di lì a poco, fra il 1318 ed il 1336 (più vicino alla prima che alla seconda data), anche un’ampia porzione del territorio di Sirinum fu “infeudata”: questa volta, fu Roberto d’Angiò a farne donazione, a titolo di rendita, per contribuire alla costruzione della “Chiesa et Hospitale” dell’ Annunziata in Napoli.

Nella donazione era inclusa anche la chiesetta di S.Atanasio, ma il piccolo popolo di Sirinum e i “Mastri dell’Estaurìta” riuscirono, con lunghissime controversie, a mantenere la loro autonomia nella gestione delle offerte e nella nomina del cappellano, almeno fino al Concilio di Trento.

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Periodo migliore per le popolazioni fu senz’altro quello Aragonese (1443-1501).

Gli Aragonesi continuarono sistematicamente l’opera di prosciugamento delle paludi, già accennata dagli Angioini; sistemarono razionalmente come “orti” tutti i terreni della valle del Sebéto, con un sistema capillare di canalizzazione delle acque, che faceva perno sul famoso “Fosso reale”, realizzato da Ferrante I d’Aragona nel 1485; svilupparono le arti della lana e della seta.

Inoltre, riportarono tutti i Casali più vicini alla città nel demànio règio, esentandoli per di più dal pagamento del “focàtico” (che era la tassa di famiglia) e delle imposte di consumo, e dando facoltà di vendere liberamente i prodotti della terra.

Queste agevolazioni avevano lo scopo di evitare l’abbandono dei campi e l’immigrazione all’interno della cinta urbana, nonché di garantire il regolare afflusso di prodotti alimentari alla città stessa (un po’ come al tempo di Federico II di Svevia…).

Grazie alla politica aragonese, i Casali crebbero notevolmente e si ebbe così, intorno al 1490, l’unificazione di Sirinum e della Barra de’ Coczis nell’unico Casale detto “Barra (o Varra) di Serino”, che assunse come stemma la Sirena (divenuta però bi-càuda, a significare l’unione dei due Casali in uno) ed ebbe come chiesa l’antica Estaurìta di S.Atanasio, restaurata ed ampliata per l’occasione.

Intorno al 1570, anche Casavaleria si unì alla Barra di Serino, così che alla fine del Cinquecento questa contava ormai circa 1000 abitanti (più di S.Giorgio a Cremano, ma meno di Ponticelli e S.Giovanni a Teduccio).

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Nei due secoli del vice-regno spagnolo (Cinquecento e Seicento), si ebbe un’ ulteriore consistente crescita della popolazione del Casale, dovuta alle condizioni di vita, complessivamente migliori di quelle delle altre “campagne” del regno (i “padulàni” erano contadini, per l’epoca, abbastanza agiati).

Il Cinquecento, per il Casale, fu caratterizzato soprattutto dagli effetti della applicazione del Concilio di Trento.

Arrivarono i Francescani (con il convento e la chiesa di S.Maria delle Grazie, detta però “di S.Antonio”, 1585) e i Domenicani (con il convento e la chiesa di S.Maria della Sanità, detta “di S.Domenico”, 1584), mentre non ebbe fortuna un tentativo di insediamento dei Benedettini cassinesi, che dovettero vendere tutto e andare via (nel 1625), “per liberarsi dai ladri che spesso molestavano i monaci”.

Furono soppresse le antiche Estaurìte di S.Atanasio e di S.Maria del Pozzo in Casavaleria, con le relative autonomie laicali e, nel 1610, cominciò a costruirsi la prima, vera e propria, “parrocchia” di tipo “Tridentino”: la parrocchia della SS.Annunziata (“Ave Gratia Plena”) detta anche “di S.Anna”.

Il primo parroco, la cui nomina non fu concordata con gli Estauritari ma decisa dal solo vescovo, con Bolla di conferma spedita direttamente da Roma, fu D.Giovanni Antonio Serrubbo (1614-1627); e la particolare devozione a S.Anna, madre di Maria Vergine, fu radicata nel Casale grazie soprattutto all’opera del padre gesuita Tommaso Auriemma, che venne come predicatore in Barra nel 1639 e nel 1640 vi fondò la Confraternita parrocchiale della “SS.Annunziata”. 

Nel corso del Seicento, su questo tessuto sociale prevalentemente contadino, innervato solo da insediamenti religiosi, cominciarono ad innestarsi anche, in modo stabile, nuclei dell’aristocrazia e della grande borghesia arricchitasi con il commercio e la speculazione.

Il mercante-mecenate fiammingo Gaspare Roomer (che “visse sposo della buona sorte e riposò in grembo alla felicità ottanta e più anni”) fece edificare in Barra la sua magnifica villa di rappresentanza, che nel Settecento verrà poi acquisita dai prìncipi Sanseverino di Bisignano.

Quasi contemporaneamente, poco distanti da quella del Roomer, sorsero la villa Filomena e la villa Finizio.

Nel 1617 venne terminata, vicino alla chiesa di S.Maria del Pozzo, la villa Amalia, e nel 1678 Domenico Mastellone fece edificare la sua omonima villa-masseria, con la cappella dedicata (nel 1699) a S.Rosa.

La memorabile eruzione del Vesuvio nel 1631 produsse danni grandi, ma non irreparabili, per un popolo abituato a combattere con la natura; e gli appartenenti a quello stesso popolo, solo sei anni dopo (nel 1637, dieci anni prima della rivolta di Masaniello!), seppero anche combattere una lucida e ferma battaglia sociale, per mantenere la propria dignitosa condizione di “uomini in demànio règio”, contro la decisione del viceré Manuel de Zuniga y Fonseca conte di Monterey (1631-1637) di “venderli” a privati.

La terribile peste del 1656 portò via, invece, quasi la metà della popolazione di Barra, fra cui il parroco Vincenzo Imperato (1654-1656), che seppe accompagnare e confortare il suo popolo nella tragedia, come vero pastore del gregge, fino a morire lui stesso nell’epidemia.

La più importante memoria storica, esistente in Barra, relativa alla grande peste del 1656, è la chiesa di S.Maria di Costantinopoli allo “Scassone”, edificata dagli abitanti del luogo nel 1658 (là dove già vi era una piccola cappelletta cinquecentesca dedicata alla Madonna delle Grazie), in ringraziamento alla Vergine per la fine dell’epidemia, ed intitolata con lo stesso nome dell’altra e maggior chiesa, esistente in Napoli, dedicata appunto  MATRI DEI OB URBEM AC REGNUM A PESTE SERVATUM.

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L’ultimo vicerè spagnolo di Napoli, Giovanni Emanuele Fernàndez Pacheco marchese di Villena (1702-1707), lasciò la città il 7 luglio 1707 e si arrese agli austriaci nella fortezza di Gaeta il 30 settembre, lasciando però il suo nome al fortino da lui fatto costruire, in quei perigliosi frangenti, presso il ponte della Maddalena in S.Giovanni a Teduccio: risultato, in quel momento, praticamente inutile, il fortino ebbe poi il suo momento di gloria (e la sua fine) nella celebre battaglia in esso combattuta nel 1799.

Dal 1707 al 1734, la città e il regno furono quindi governati non più da vicerè spagnoli bensì da vicerè austriaci (fra i quali anche tre eminentissimi cardinali): la nazionalità era diversa, ma sostanzialmente identica la politica di “spremere” quanti più “donativi” (cioè tributi) fosse possibile, con scarsissima considerazione delle condizioni di vita delle classi più umili della popolazione.

In quegli anni, Barra fu però illuminata dalla presenza di una delle non poche personalità di rilievo europeo che Napoli poteva allora vantare: Francesco Solimèna (detto “l’abate Ciccio”; nato a Canale di Serino-Avellino il 4 ottobre 1657 e morto in Barra il 5 aprile del 1747), artista già affermato e di cospicue disponibiltà economiche, scelse il Casale della Barra per edificarvi una sua solitaria dimora, immersa nel verde dei pini, che egli stesso disegnò.  

A Barra, il Solimena lasciò il celebre quadro della “Madonna delle Grazie con anime purganti”, donato alla parrocchia nel 1697, il disegno della facciata della chiesa di S.Maria della Sanità (detta “di S.Domenico”) e, ultima opera della sua vita, la bella tela della “Madonna di Caravaggio” nella omonima cappella gentilizia dei duchi di Monteleone. 

Lasciò anche (fra i molti che ebbe) una triade di valenti discepoli, il nipote Orazio Solimena, Gian Battista Vela e Paolo de Majo, i quali, nel clima di rinnovato fervore religioso suscitato dalla memorabile missione che S.Alfonso Maria de’ Liguori tenne a Barra nel 1741, illustrarono le chiese del Casale con le loro opere più belle.

Purtroppo, di tali làsciti, Francesco Solimena è stato ripagato con la completa distruzione della sua celebre villa, operata in parte dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, ma molto di più dalla incuria, ignorante o colpevole, degli uomini.

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Al periodo del viceregno austriaco sono anche da ascriversi l’insediamento in Barra dei Conti di Acerra, con la loro villa (villa Spinelli) nonché l’inizio (nel 1728) della costruzione della grande villa dei Pignatelli di Monteleone.

E’ tuttavia nel periodo borbonico (1734-1860), in particolare nella prima parte di esso (1734-1790), che “l’antico regime” toccò il suo punto più alto e di maggior splendore, con la meravigliosa fioritura di insediamenti aristocratici del cosiddetto “Miglio d’oro” (da S.Giovanni a Teduccio fino a Torre del Greco), intorno alla grande reggia fatta costruire (1738) in Portici da Carlo III di Borbone, su consiglio della giovanissima regina Maria Amalia.

Anche Barra raggiunse in quest’epoca la sua classica configurazione di “Casale règio”, quale la vediamo disegnata nella carta topografica di Giovanni Carafa duca di Noja (1775), con la sua bella conformazione “a nastro”, circondata da fiorenti campagne e impreziosita da magnifiche ville.

Le ville pre-esistenti vennero rinnovate o completate (villa Spinelli, villa Pignatelli di Monteleone, la villa Roomer passata ai Sanseverino di Bisignano nel 1765, le ville seicentesche, etc.), ed altre nuove ne sorsero, quali villa S.Nicandro (poi villa Giulia), villa Salvetti, villa De Cristofaro…

Per Barra, questo periodo si chiude, emblematicamente, con la realizzazione della popolarissima statua lignea di S.Anna con la Vergine (1790), ad opera di Giuseppe Picano, scultore, stuccatore e presepiaio, nativo di S.Elia Fiumerapido, allora molto noto e stimato in città e presso la stessa corte borbonica, il quale realizzò per la parrocchia di Barra una copia esatta della statua di S.Anna da lui scolpita per la grande chiesa dell’Annunziata in Napoli.

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Il Casale della Barra, al cui popolazione era composta, nella quasi totalità, da contadini e da servi ed artigiani economicamente dipendenti dalla nobiltà, non partecipò attivamente al moto risorgimentale “italiano”, di stampo borghese e liberale.

Solo poche persone, appartenenti ad alcune famiglie borghesi, furono militanti liberali, ma il Casale nel suo complesso tenne costantemente per la parte borbonica: dall’inizio (1799), quando i Barresi combatterono contro l’esercito della Repubblica e a favore del card.Ruffo, fino alla fine (1860) quando la popolazione si rifiutò di partecipare al plebiscito che doveva sancire l’annessione del Regno delle due Sicilie al nuovo Regno d’Italia.

Nel 1799, furono “Repubblicani” alcuni esponenti delle famiglie Sannino e Minichino; ed inoltre, provenienti da famiglie che risiedevano più o meno stabilmente in Barra, i vari Clino Roselli, Nicola Magliano, Emanuele Mastellone e il giovane duca Diego Pignatelli di Monteleone [2].

Conclusasi tragicamente quell’esperienza, fu il periodo del decennio napoleonico (1806-1815) quello che portò le novità più avvertite (e non sempre in positivo) dal popolo.

In quel cruciale decennio, venne anzitutto, formalmente e completamente, abolita la feudalità, così che la terra divenne una semplice merce, soggetta alla libera compra-vendita (da parte dei ricchi, naturalmente); le terre demaniali, sui quali i contadini esercitavano gli antichissimi “usi civici”, vennero frazionate e vendute ai privati (quelli che potevano pagare, naturalmente), perdendosi così l’uso civico di esse; analogamente, vennero messe in vendita le terre ecclesiastiche e soppressi numerosi conventi; venne introdotta la leva militare obbligatoria, l’anagrafe civile e nuove forme di tassazione, che gravavano su contadini, artigiani e piccoli commercianti.

Infine, venne soppressa l’elezione diretta dei Sindaci e degli Eletti del popolo, sostituita con il Decurionato, che era una istituzione alla quale potevano appartenere i soli “possidenti”, cioè i proprietari terrieri.

In definitiva, agli antichi privilegiati del “sangue blu”, si sostituivano ora, nel potere, i nuovi privilegiati del “denaro” puro e semplice.

 A Barra, furono insediate le “monache francesi”, ovvero le Suore della Carità di S.Giovanna Antida Thouret (che vi rimasero fino alla seconda metà del Novecento); venne istituita la prima Sede municipale, in un palazzetto dell’attuale Corso Sirena, sopra il cui arco di ingresso venne posta la lapide, tuttora visibile, raffigurante l’antico stemma del Casale (la Sirena bi-càuda) con il motto UNIVERSITAS; venne pure istituito, secondo la legge napoleonica, il cimitero fuori dell’abitato, nel 1817, grazie al terreno messo a disposizione dalla famiglia Pironti.

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Con la (seconda) restaurazione borbonica nel 1816 nacque ufficialmente il Comune della Barra, del quale, nel 1822, S.Anna venne proclamata ufficialmente celeste patrona.

Della micidiale epidemia di colera del 1836-37 (nella quale, insieme a tanti abitanti, perì anche il parroco D.Alessandro Russo (1825-1837) e si distinse per abnegazione nell’assistenza a malati e moribondi un altro meritorio Barrese, D.Paolo Riccardi, “prete della Barra, uomo insigne, pieno di carità e di zelo per tutti”), rimane tuttora memoria nel Camposanto dei colerosi  alla Cupa S.Aniello, apprestato in quella circostanza dai cinque Comuni vicini di Barra, S.Giovanni, S.Giorgio, Portici e Resina, e versante oggi in uno stato di vergognoso e deplorevole abbandono.

Intorno alla metà del secolo si osserva, anche in Barra, una forte ripresa dell’arte della seta ed il sorgere di alcuni opifici metalmeccanici (“Guppy”, “Macry & Henry”…), antesignani di quella che sarà poi la zona industriale  istituita con Legge speciale nel 1904. 

Sempre intorno alla metà del secolo, in relazione all’Anno Santo-Giubileo del 1850 e in corrispondenza con la proclamazione ufficiale del dogma della Immacolata Concezione di Maria (1854) e le successive apparizioni di Lourdes (1858), si registra una forte ripresa della religiosità popolare.

I Musella, due fratelli gemelli entrambi preti, animarono il “cantiere popolare” grazie al quale venne ingrandita di circa due terzi la chiesa di S.Maria di Costantinopoli allo “Scassone” (1849-1854) e D.Raffaele Verolino (“l’apostolo del paese di Barra”, nato “sopra Case Langella”) ampliò la chiesetta di S.Maria delle Grazie “all’Oliva” (1858-1868) e poco dopo fondò, “per i fanciulli rimasti privi dei genitori”, il primo Istituto religioso interamente Barrese, nonché primo Istituto femminile in Barra (dopo le “monache francesi”), con la annessa chiesetta (dedicata nel 1875), in località “arèto ‘o cariello”.

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Dopo l’unità d’Italia (1860), Barra rimase Comune autonomo, amministrato però dalla nuova classe dirigente borghese, di formazione liberale e fedele alla Casa Savoia.

I Sindaci che più lasciarono memoria di sé furono Luigi Martucci (1882-1886), Giovanni Mastellone (1879-1882; 1886-1892) e Cristoforo Caccavale (1905-1918).

L’epidemia di colera del 1884, con il successivo “Risanamento”, fornì l’occasione per realizzare i due attuali Corsi principali: Corso Bruno Buozzi e Corso IV Novembre, che si chiamavano allora rispettivamente Corso Vittorio Emanuele III e Corso Conte Spinelli, modificando così radicalmente l’assetto urbanistico del Comune della Barra.

Visse in quel periodo, anche se del tutto appartata dalle vicende del mondo, “la mistica di Barra”: Maria Grazia Tarallo ovvero Suor Maria della Passione (1866-1912); e nel 1933 un’altra Barrese, la Madre Claudia Russo (1889-1964), fondò ufficialmente l’Istituto religioso delle “Povere figlie della Visitazione di Maria”.

Ma incombevano ormai le scelte cruciali per il territorio, che dovevano poi condizionarlo (nel bene e nel male) per tutto il Novecento: la giolittiana Legge speciale per Napoli del 1904, che istituiva la zona industriale; l’aggregazione del Comune della Barra al Comune di Napoli, operata nel periodo fascista con il Règio decreto del 15 novembre 1925; l’installazione sul nostro territorio della “raffineria”.

Quest’ultima scelta strategica, in particolare, operata dal fascismo negli anni Trenta e particolarmente dissennata, di insediare nel cuore della valle del Sebéto e sul corso stesso del fiume, un mostruoso impianto di deposito e di raffinazione del petrolio, micidiale per gli uomini e per la natura, fu mantenuta, ed anzi estesa a nuovi impianti pericolosi ed inquinanti, dai successivi nuovi padroni statunitensi (la multinazionale “Mobil Oil”).

Si veniva così ad infliggere un duro colpo all’assetto produttivo, di agricoltura e di piccola industria ad essa legata, che identificava il territorio, e si vanificava la secolare vocazione “turistica” legata alle sue bellezze paesaggistiche, ambientali e monumentali, utilizzandolo in una logica, puramente neo-coloniale, di territorio–pattumiera e di manodopera a basso costo.

Questo, unito alla proliferante installazione, nel secondo dopoguerra, di grandi rioni-dormitorio senza qualità (dei quali, uno costruito addirittura sull’antico “Orto botanico del principe di Bisignano alla Barra”), ha determinato l’attuale assetto di Barra come quartiere periferico, destinato a “contenitore” dell’emarginazione del sottoproletariato urbano.

Ma si tratta solo di una triste parentesi, in fondo assai breve, della nostra storia secolare!

Sulle rovine del passato possono sorgere nuovi fiori, così come Domenico Mastellone, dei duchi di Limatola, fece innalzare la sua cappella dedicata a S.Rosa, tuttora esistente, proprio nel luogo in cui aveva veduto una rosa spuntare dalle rovine del terremoto del 1688!

Possa allo stesso modo fiorire nuovamente la nostra Barra, grazie al costante ed intelligente impegno di tutti i suoi figli.


Note

[1] L’uso civico era il diritto di tutti gli abitanti di un comune di usufruire a proprio vantaggio delle ricchezze naturali della terra demaniale. Esso comprendeva, in particolare, il diritto di: pascolare, arare e seminare (ma senza recintare la terra), raccogliere la legna, cavare pietre di calce e di costruzione, cavare sabbia, raccogliere erba, attingere liberamente a sorgenti e corsi d’acqua, pernottare, fare alveari e frascare, anche nei vigneti, dopo la vendemmia.

[2] Vedi: P.Centanni e A.Renzi–“La Repubblica napoletana del 1799 e il Casale della Barra”–Ed. Magna Graecia, Napoli 1999.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, agosto 2016

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