Il continente più civile e
progredito?
1. L’Europa era, a giudizio dei suoi politici e dei suoi
intellettuali, il continente più “civile” e “progredito” del
pianeta, sia sul piano culturale, scientifico e tecnico, sia su
quello delle istituzioni giuridiche e politiche.
2. Da questo convincimento, si traeva addirittura la conclusione
che l’Europa (“l’uomo bianco”) avesse il “diritto” ed anzi,
secondo alcuni, addirittura il “dovere” e la “missione” di
conquistare e sottomettere i popoli di altri continenti, per
portare loro la civiltà e il progresso, il diritto e la pace.
Non era forse questa la “giustificazione” morale dell’imperialismo
coloniale classico (1870-1914)?
3. Orbene, dal 1914 al 1918, furono proprio le nazioni della
civilissima e progredita Europa a dilaniarsi nel più atroce e
barbarico conflitto che la storia avesse fino ad allora
conosciuto; e coinvolsero, per di più, l’intero pianeta, nella
prima guerra giustamente definita “mondiale”.
4. Da una parte, l’impero Austro-ungarico, la Germania, la
Turchia, la Bulgaria …; dall’altra, Inghilterra, Francia,
Italia, Russia, Grecia, Serbia, Romania …
Si scontrarono per antiche questioni territoriali di confine,
ma soprattutto per la spartizione delle materie prime e dei
mercati, in Europa e nelle colonie, soprattutto africane e
asiatiche.
Il terribile 1914
5. Ed ecco, dagli anni si levò il terribile 1914:
L’imperialismo,
nella sua nudità,
col ventre scoperto,
coi denti scoperti,
e un mare di sangue
fino ai ginocchi,
divora i paesi,
irto di baionette.
Intorno a lui,
i suoi cortigiani,
i patrioti,
scrivono,
lavandosi le mani nel tradimento:
“Operaio, bàttiti fino all’ultimo sangue!” (Vladimir
Majakovskij)
Le “buone ragioni” per scannarsi:
il pretesto
6. La “causa” occasionale e immediata della guerra fu, com’è
noto, l’attentato che ebbe luogo a Sarajévo (capitale della
Bosnia) il 28 giugno 1914.
Il
diciannovenne studente Gavrilo Princip (1894-1918), appartenente
alla “Giovane Bosnia”, movimento politico-militare il cui
obiettivo era liberare la Bosnia-Erzegovina dal dominio
dell’Impero Austro-ungarico ed annetterla al Regno di Serbia,
uccise con due colpi di pistola
l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, erede al trono
austro-ungarico, e la sua consorte, invero morganàtica[2],
Sofia Chotek duchessa di Hohenberg.
7. L’Austria-Ungheria ritenne il Regno di Serbia co-responsabile
dell’attentato e il 28 luglio 1914, giusto un mese dopo
l’attentato, invase la Serbia.
Bastarono pochi giorni e già all’inizio di agosto, formalmente
per il meccanismo delle Alleanze esistenti (vedi oltre, n°10),
tutte le potenze europee entrarono nel macello.
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L'attentato di Sarajevo |
Le “buone ragioni” per scannarsi:
le cause strutturali
8. Al di là, però, della occasionale “scintilla” di Sarajevo e
delle sottili ipocrisie politico-diplomatiche che la
precedettero e la seguirono, le cause strutturali e più profonde
della guerra furono quelle che abbiamo cercato di analizzare nei
capitoli dedicati a “l’imperialismo coloniale classico”.
9. Quel conflitto armato era, in realtà, “figlio” del tutto
legittimo e naturale di una determinata fase dello
sviluppo storico del capitalismo: il capitalismo giunto
alla sua fase monopolistica, sulla base tecnologica della
seconda rivoluzione industriale.
Nelle circostanze date, la guerra era la conseguenza ovvia
ed inevitabile della logica del massimo profitto, che
produceva adesso la guerra così come, in precedenza,
aveva prodotto l’asservimento dei popoli extra-europei e le
vaste ondate di emigrazione.
Chi sta in alto dice: “Pace e guerra
sono di essenza diversa”.
Ma la loro pace e la loro guerra
son come vento e tempesta.
La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre:
ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.
La loro
guerra uccide
quello che alla loro pace
è sopravvissuto. (Bertolt Brecht)
L’Italia e la guerra: restiamo neutrali?
10. Alla vigilia della guerra, l’Europa era divisa
diplomaticamente in due blocchi: da una parte, la Triplice
intesa (Russia, Francia ed Inghilterra); dall’altra parte,
la Triplice alleanza (Austria-Ungheria, Germania ed
Italia).
11. L’Italia faceva dunque parte della Triplice alleanza
(stipulata nel 1882 e rinnovata nel 1912) e perciò, in teoria,
avrebbe dovuto schierarsi con gli Austro-Ungarici e i Tedeschi.
12. D’altronde, però, la Triplice alleanza era, in modo
esplicito, una alleanza esclusivamente difensiva e
siccome era stata l’Austria a dichiarare per prima la guerra
alla Serbia, l’Italia non era vincolata all’intervento.
Inoltre, il trattato costitutivo della Triplice alleanza
prevedeva che, nel caso in cui uno degli alleati avesse dovuto
scendere in guerra contro uno Stato terzo, gli alleati avrebbero
dovuto esserne preventivamente informati e
successivamente ricevere adeguati compensi territoriali:
l'Austria, dichiarando la guerra e poi occupando la Serbia, non
aveva adempiuto a questi due obblighi e dunque, anche per questi
ulteriori motivi, l'Italia non era vincolata ad intervenire.
13. Pertanto, il
governo italiano (Antonio Salandra, in carica dal 21 marzo al 5
novembre 1914; Ministro degli esteri: Antonino Paternò-Castello,
marchese di San Giuliano)
si dichiarò ufficialmente neutrale (3 agosto 1914).
|
Antonino Paternò Castello marchese di S.
Giuliano (1852-1914) |
Il popolo della pace
14. Questa posizione di neutralità era certamente quella che
rispecchiava la volontà della stragrande maggioranza del paese.
15. Il parlamento eletto nel 1913, per la prima volta a
suffragio universale sia pur solo maschile,
era ampiamente “neutralista”: lo stesso presidente della Camera,
Giuseppe Marcora, che era favorevole alla guerra, calcolò
tuttavia che i parlamentari “interventisti” erano al massimo una
sessantina su 523.
16. In effetti, come già detto,
l’opposizione alla guerra coloniale in Libia del 1911-12 aveva
contribuito
a rinsaldare e radicalizzare un blocco sociale formato
soprattutto da contadini, operai e ceto medio che, alla lotta
per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro, univa
adesso una più decisa coscienza anti-colonialista ed
anti-militarista.
17. Era pertanto ovvio che la maggior parte dei nuovi deputati
eletti con suffragio universale, soprattutto socialisti e
cattolici, rispecchiasse la volontà pacifista delle grandi masse
popolari contadine e operaie.
E prudentemente neutralista era anche quella parte della classe
dirigente liberale che si riconosceva nel “conservatorismo
illuminato” di Giovanni Giolitti.
L’èlite della guerra e le
sue braccia
18. Non di meno, però, vi era una minuscola èlite (= un
gruppetto di “grandi” famiglie aristocratiche e borghesi),
numericamente insignificante ma assai potente ed influente, che
preferiva la guerra.
Affascinati dalla prospettiva dei facili e lauti guadagni che si
potevano ottenere vendendo “alla patria” armamenti e provviste
“per i combattenti” … ed animati, più o meno in buona fede,
dalla ideologia nazionalista dell’epoca
… i membri dell’èlite cercarono e trovarono “le due
braccia” necessarie per eseguire la loro volontà: il braccio
politico e quello propagandistico.
Il braccio propagandistico:
Mussolini e D’Annunzio
19. Il “braccio propagandistico” fu messo all’opera subito dopo
il 3 agosto 1914, per convincere gli italiani che non la
neutralità ma la guerra era opportuna e necessaria.
Ad Enrico Corradini[8]
ed agli altri prezzolàti guerrafondài della Associazione
Nazionalista Italiana[9],
vennero aggiunti due ulteriori “pezzi da novanta”: il futuro
“duce”, Benito Mussolini; ed il “superuomo all’amatriciana”,
Gabriele Rapagnètta-D’Annunzio[10].
Mussolini, i soldi e la guerra
20. Il socialista rivoluzionario intransigente Benito Mussolini,
direttore del giornale “Avanti!” organo ufficiale del partito,
fiero sostenitore dell’internazionalismo proletario ed acerrimo
oppositore della guerra di Libia[11],
infiammato fiancheggiatore della “settimana rossa” nel giugno
del 1914[12]
… inopinatamente … il 18 ottobre 1914, pubblicò sull’Avanti! un
articolo intitolato “Dalla neutralità assoluta alla neutralità
attiva e operante”, che era in contrasto con la posizione
ufficiale del partito, e due giorni dopo, il 20 ottobre, si
dimise dal suo incarico di direttore.
|
Benito Mussolini nel 1914 |
21. Ancora pochi giorni e, il 15 novembre 1914, uscì il primo
numero de “Il popolo d’Italia”, un nuovo giornale fondato e
diretto dal Mussolini stesso[13],
diventato ora un veemente e nobile fautore della guerra
patriottica contro l’Impero Austro-Ungarico.
22. In conseguenza, il 29 novembre,
Mussolini venne espulso dal Partito Socialista: già
allora, la repentinità della sua “conversione” e la scarsa
trasparenza sui finanziamenti del nuovo giornale, insospettirono
gli ex compagni, e non soltanto loro: molti dissero che egli
aveva ricevuto fondi occulti da agenti francesi in Italia, che
lo avevano corrotto per farlo aderire alla causa dell'intervento
a favore della Triplice Intesa (Francia, Inghilterra e Russia).
Ma, come si sa, “ci vogliono le prove”, ed a quel tempo non se
ne trovarono.
Le prove
23. E’ possibile che il Mussolini si sia “convertito” in
modo assolutamente disinteressato, in seguito cioè ad un
profondo travaglio di coscienza e ad un ponderato cambiamento
delle sue posizioni ideologiche.
24. E’ certo, però, che:
“Alle prime spese per il giornale fecero fronte alcuni
industriali di orientamento più o meno interventista, o comunque
interessati a un incremento delle forniture militari: Esterle
(Edison); Bruzzone (Unione Zuccheri); Agnelli (FIAT); Perrone
(Ansaldo); Parodi (Armatori)”.
25. “Nell’ottobre 1914, Carlo Esterle (Edison), insieme con
Bruzzone (Unione Zuccheri), Agnelli (FIAT), Perrone (Ansaldo) e
Parodi (Armatori), fu tra i primi finanziatori de “Il popolo
d’Italia” e l’appoggio al quotidiano mussoliniano continuò anche
negli anni seguenti”.
26. “Al progetto di finanziamento del quotidiano contribuirono,
con laute somme, esponenti politici francesi (nelle persone di
Joseph Caillaux, Jules Guesde, Marcel Cachin …); un ambiguo
affarista, faccendiere e spia come Paul-Marie Bolo; personalità
del Regno Unito (su tutti Sir Samuel Hoare e Lord Northcliffe);
finanzieri russi; magnati svizzeri e tedeschi; oltreché tutto
l'apparato industriale italiano, composto dalla famiglia
Agnelli, da entrambi i fratelli Perrone (proprietari di
Ansaldo), l'industria petrolifera, gli industriali zuccherieri
italiani, gli agrari emiliani, il Ministro degli Esteri italiano
Antonino Paternò-Castello, marchese di San Giuliano, e la Banca
Italiana di Sconto”.
L’uomo nell’ombra: Filippo Naldi (1886-1972)
27. A quanto pare, il “gran burattinaio” (Montanelli) della
“conversione” di Mussolini fu il giornalista e faccendiere
massone Filippo Naldi (Borgo San Donnino, 30 maggio 1886
– Roma, 18 ottobre 1972).
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Filippo Naldi (1886-1972) |
28. Fu Naldi, allora già direttore de “Il Resto del Carlino”,
che andò a “pescare” il giovane e ambizioso leader socialista e
che, avvalendosi
delle sue relazioni massoniche in Italia e all’estero, lo mise
in contatto con le persone interessate ad usufruire dei suoi
servigi.
29. “Quello tra Filippo Naldi e Benito Mussolini, più che un
rapporto, fu un’associazione a delinquere.
Filippo Naldi era tutto: era un banchiere, un finanziere, era un
giornalista, era un massone traditore. Era tutto. Naldi non
apparteneva al Grande Oriente d’Italia, apparteneva alla
Serenissima Gran Loggia Nazionale di Piazza del Gesù: sospeso
più volte, ma vi apparteneva.
Filippo Naldi è l’uomo di potere vero, il Gelli tra le due
guerre. E’ lui che convince Mussolini a sposare la linea
interventista che lo porterà ad uscire dal Partito Socialista e
dalla direzione dell’Avanti. E’ lui che gli troverà i soldi per
Il Popolo d’Italia …
Tenga presente che tutti e quattro i quadrumviri della marcia su
Roma e del primo regime fascista … De Bono, De Vecchi, Balbo e
Bianchi … erano massoni”.
30. “Nell’autunno del 1914, Filippo Naldi aiutò Mussolini a
fondare Il popolo d’Italia: lo presentò alle Messaggerie
Italiane, che dovevano incaricarsi della rivendita del giornale;
gli organizzò la rete dei servizi di informazione dall’Italia e
dall’estero; e lo mise in contatto con l’Agenzia Italiana di
Pubblicità, preziosa per la raccolta dei finanziamenti.
31. Dietro a Naldi, vi erano gruppi industriali, come quelli
degli zuccherieri, dei siderurgici e degli elettrici, che si
battevano per l’entrata dell’Italia in guerra … in seguito, lo
stesso Naldi rivelò di aver agito anche su direttive del
Ministro degli Esteri Antonino Paternò Castello, marchese di San
Giuliano”.
I soldi francesi ed inglesi a Mussolini
32. Il sostegno economico di Francesi ed Inglesi al giornale di
Mussolini continuò poi, naturalmente, anche negli anni
della guerra combattuta dall’Italia al loro fianco: ancora nel
1917,
Mussolini si
impegnò con gli Inglesi, per la somma di 100 sterline a
settimana, a boicottare eventuali manifestazioni pacifiste in
Italia, dopo la disfatta di Caporetto.
I due “pezzi da novanta” in azione
33. Il Mussolini venne dunque “comprato” e “messo in opera”
dall’èlite guerrafondaia già nell’autunno del 1914.
34. L’altro “pezzo da novanta” propagandistico[20],
il Gabriele Rapagnetta-D’Annunzio, venne invece attivato l’anno
seguente, per mettere in scena il cosiddetto “maggio radioso”.[21]
Il braccio politico: Savoia,
Salandra e Sonnino
35. Per quanto riguarda, invece, il “braccio politico”
dell’èlite, esso era costituito, in pratica, solo da tre
ma importantissime persone: il Re Vittorio Emanuele III di
Savoia; il primo ministro (Antonio Salandra) ed il ministro
degli esteri (Sidney Sonnino) del secondo governo Salandra, in
carica dal 5 novembre 1914 al 18 giugno 1916.
Il Sonnino[23]
era infatti succeduto, come ministro degli esteri, all’ambiguo
marchese di S. Giuliano[24],
venuto a morte il 16 ottobre 1914.
Furono in pratica queste tre persone a decidere, politicamente,
per la guerra.
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Sidney Sonnino (1847-1922) |
Il patto segreto di Londra (26
aprile 1915)
36. Infatti, dopo aver condotto trattative sia con gli Austriaci
sia con l’Intesa, per verificare chi offriva di più, il Re
Vittorio Emanuele III ed il capo del governo, Antonio Salandra,
autorizzarono il marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla,
ambasciatore nel Regno Unito, a firmare, all’insaputa del
parlamento italiano, un patto con le potenze dell’Intesa
(Patto di Londra, 26 aprile 1915) che stabiliva l’entrata in
guerra dell’Italia, a fianco di Inghilterra, Francia e Russia,
entro un mese dalla firma.
37. All’interno stesso del governo, tranne i medesimi Salandra e
Sonnino, nessuno venne messo al corrente di una così grave
decisione.
38. I termini del Patto di Londra rimasero anch’essi segreti,
fino al 1917, quando furono resi pubblici dai bolscevichi russi,
subito dopo la rivoluzione.
Essi prevedevano, in caso di vittoria, il passaggio all’Italia
non solo delle “città italiane irredente” Trento e Trieste, ma
anche di Bolzano, dell’Istria, della Dalmazia settentrionale
(esclusa Fiume); ed inoltre, la città di Valona in Albania, il
mantenimento delle isole del Dodecaneso, una parte delle colonie
tedesche in Africa e zone di influenza in Asia Minore.
Per la patria?
39. Anche per l’Italia, non si trattava dunque di una guerra
“patriottica”, la quarta guerra d’indipendenza, il completamento
del Risorgimento, come si diceva … e come alcuni, in buona fede,
ma erroneamente, credettero.
Si trattava semplicemente di partecipare, sia pur sempre “da
straccioni”[25],
alla spartizione imperialistica del mondo.
40. Si può ben dire, in sintesi, che una piccolissima
minoranza di affaristi, capeggiati dal Re, volle
trascinare in guerra il popolo italiano contro la sua volontà e
contro il bene comune dell’Italia.
Questo non era, però, possibile senza un adeguato “lavaggio dei
cervelli” ...
La messa in scena del “maggio
radioso” del 1915
41. Pertanto, alla firma del Patto di Londra (26 aprile 1915),
seguì un mese, quello che in seguito venne definito “il maggio
radioso”, nel quale si organizzarono, in tutta Italia, massicce
manifestazioni a favore della guerra, per convincere l’opinione
pubblica più riluttante ed iniziare l’indottrinamento delle
grandi masse contadine circa i “nobili” e “patriottici” motivi
del conflitto.
42. E’ sempre opportuno ribadire, a futura memoria ed a scanso
di possibili equivoci, che non si trattò affatto di una sorta di
referendum fra “neutralisti” ed “interventisti”, in cui
il popolo, alla fine, dovesse decidere fra l’una e l’altra tesi.
La decisione, infatti, era già stata presa, con il patto
di Londra, da una ristrettissima èlite di potenti, che
avevano deciso loro per tutti.
43. Il “maggio radioso” fu soltanto una grande messa in scena
propagandistica, pagata dalla stessa èlite ed appoggiata
dal Re e dal capo del governo, che non esitarono a servirsi
anche della violenza di piazze appositamente aizzate, per
“convincere”, con le buone o con le cattive, il riottoso
Parlamento e la più vasta opinione pubblica.
A Napoli, come abbiamo detto,
“allo scopo di rendere popolare e ben accetta la guerra anche
fra gli strati infimi della popolazione” si utilizzarono perfino
vecchi arnesi della “Bella Società Riformata”, come Gaetano Del
Giudice.
L’orazione del
Rapagnètta-D’Annunzio allo scoglio di Quarto
44. All’uopo, venne richiamato in Italia l’altro
“pezzo da novanta” propagandistico,
il Gabriele Rapagnetta-D’Annunzio.
45. Costui, come ci informano tutti i suoi biografi, era
scappato in Francia nel 1910, perché pieno di debiti e,
comprensibilmente, inseguito dai creditori.
46. Riapparve però, improvvisamente in Italia la sera del 4
maggio 1915, a Genova, ufficialmente invitato dalle autorità per
tenere, all’indomani, il discorso celebrativo per
l’inaugurazione del “Monumento ai Mille”, nei pressi di quello
scoglio di Quarto, da dove, 55 anni prima (il 5 maggio 1860),
era partita la celebre spedizione.
|
Monumento dei Mille a Genova Quarto |
47. E’ qui da notare che, al suo ritorno in Patria, i suoi molti
creditori non avanzarono più alcuna pretesa: dobbiamo
necessariamente pensare che qualcuno avesse pagato i suoi debiti
…
48. Comunque sia, il 4 maggio l’Italia si ritirò ufficialmente
dalla Triplice Alleanza, e l’indomani (= 5 maggio 1915), il
Rapagnetta-D’Annunzio, innanzi ad una grande folla, pronunciò
una retorica ed altisonante orazione, tanto illogica ed
insensata nel contenuto quanto ampollosa ed enfatica
nella forma.
Chi volesse dilettarsene, e farsene direttamente un’opinione, la
può facilmente reperire in versione integrale, recentemente
pubblicata anche “in rete”, insieme a tutti i discorsi tenuti
dal Rapagnètta-D’Annunzio durante il “radioso maggio”.
49. La maggior parte dei presenti, con alta probabilità, non ci
capì nemmeno una parola, ma il grande buffone non mirava certo a
farsi capire, ma solo ad instillare retoricamente negli animi la
necessità ed anzi la “sacralità” di quella guerra, e ad aizzare
la folla contro i “neutralisti” vigliacchi e traditori.
Il “colpo di stato” del Savoia
50. Fra i neutralisti, il più influente era ancora il Giolitti.
La sua opposizione alla guerra era ben nota a tutti e, rientrato
a Roma per la sessione primaverile del Parlamento, ricevette in
segno di solidarietà 320 “biglietti da visita” di deputati, che
da soli costituivano la maggioranza assoluta della Camera, e
quelli di un centinaio di senatori: ed era facile prevedere che,
il giorno della convocazione dell'Aula, convergendo tutti i
parlamentari nella Capitale, sarebbero ancora aumentati.
|
La Stampa del 13 maggio 1915 |
51. Ma, contro Giolitti, il Re e il Salandra attuarono un vero e
proprio “colpo di stato”. Il Salandra rinviò l’apertura della
Camera dal 12 al 20 maggio e, il 13 maggio, rassegnò formalmente
le sue dimissioni nelle mani del Re.
52. Nel frattempo, il Rapagnètta-D’Annunzio, fiancheggiato da
un’aggressiva campagna di stampa “interventista”, scese a Roma
ad aizzare la piazza, esortando la folla ad usare direttamente
la violenza fisica contro i politici neutralisti.
|
Il Rapagnetta D'Annunzio arringa in
teatro |
53. In uno dei suoi tanti comizi romani, il
Rapagnètta-D’Annunzio incitò direttamente ad invadere la casa di
Giolitti e “ad uccidere quel boia labbrone le cui calcagna di
fuggiasco sanno le vie di Berlino”. Vennero affissi dei
manifesti che ritraevano Giolitti, di spalle, al momento della
fucilazione, come i disertori; ed il questore di Roma avvertì
Giolitti che non era in grado di garantire la sua incolumità.
54. La folla, fanatizzata dal “poeta (as)soldato”, fece
violentemente irruzione nello stesso edificio della Camera.
Il tentativo di Giolitti
55. In questo clima non proprio sereno, durante le consultazioni
per la formazione del nuovo governo, il Re mise al corrente
Giolitti dell’esistenza e del contenuto del Patto di Londra, che
lo “obbligava” a scendere in guerra entro un mese dalla firma:
non farlo, avrebbe compromesso la dignità internazionale
dell’Italia ed avrebbe comportato inevitabilmente la stessa
abdicazione del Sovrano.
56. Giolitti fece un ultimo disperato tentativo, cercando di
“spiegare” al Savoia che la sua abdicazione non sarebbe stata
affatto necessaria: siccome il Patto di Londra era stato firmato
all’insaputa del Parlamento, sarebbe invece bastato
un voto alla Camera che, confermando la neutralità dell’Italia e
la piena fiducia nel Re, avesse dato al nuovo governo il mandato
di riprendere i negoziati con l'Austria, che nel frattempo era
disposta a fare ampie concessioni territoriali (anche Trento e
Trieste) in cambio del semplice non-intervento dell’Italia nel
conflitto.
57. Alla fine, però, Giolitti dovette arrendersi all’evidenza:
il Re stesso era il capo del partito che voleva, ed aveva
progettato, la guerra. Se ne ritornò quindi in Piemonte, senza
nemmeno attendere la riapertura della Camera.
|
Vittorio Emanuele III con Alberto I del
Belgio |
Alla guerra, alla guerra!
58. Privato così il partito neutralista del suo capo
parlamentare, il Re ebbe facile gioco a respingere le dimissioni
di Salandra e confermarlo nel suo incarico, già il 16 maggio.
Del resto, il famoso Statuto Albertino allora in vigore,
attribuiva solo al Re, e non al Parlamento, il potere di
dichiarare la guerra.
|
Antonio Salandra (1853-1931) |
59. Il 20 maggio, la Camera si riunì, e Salandra chiese al
Parlamento i pieni poteri straordinari per la guerra: 407
deputati, contro 74, votarono a favore; solo i socialisti
votarono contro.
Il 23 maggio, il Consiglio dei ministri firmò la dichiarazione
di guerra all’Austria-Ungheria e proclamò la mobilitazione
generale, affidando la guida dell’esercito al generale Luigi
Cadorna.
Il 24 maggio 1915 l’Italia entrò nella Prima guerra mondiale.
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Manifesto di chiamata alle armi |
La guerra “di trincea”
60. Il poeta Gabriello parlò alla fanteria:
“Coraggio, fantaccini, vi fo’ una poesia”.
I fantaccini dissero al vate Gabriello:
“Tu siedi al tavolino, noi si va al macello”.
Per le grandi masse popolari, essenzialmente di un macello si
trattò: i primi attacchi italiani, sull’onda della retorica
patriottica, vennero compiuti di giorno, a ranghi compatti, con
bandiera e fanfara in testa … ma ben presto tutti presero
coscienza, assai crudamente, della tragica realtà che era la
guerra “di trincea”.
61. La trincea era uno scavo di circa un metro di profondità nel
terreno (spesso nella roccia), rialzato ai bordi di un altro
metro con pietre, sacchi di calce o di terra.
|
Guerra di trincea |
Si andava all’attacco uscendo di corsa dalla propria trincea, a
piedi e allo scoperto, per conquistare la trincea del nemico,
inquadrati e sospinti dagli ufficiali, che non poche volte
dovevano “convincere” con le armi i propri stessi soldati ad
andare all’assalto …
62. Dalla trincea avversaria, di solito protetta anche da
reticolati, si levava allora il fuoco di sbarramento di fucili,
mitragliatrici e piccoli calibri da campo.
Le mitragliatrici erano, in queste condizioni, particolarmente
micidiali (400 colpi al minuto); i calibri, a loro volta, erano
solitamente caricati a shrapnel, ossia proiettili che
esplodevano a terra o a poca distanza dal suolo, sprigionando
una rosa di palle di piombo e pezzetti di ferro.
I reticolati fermavano l’impeto degli attacchi, invischiando i
soldati in matasse ferrose, che vanamente si cercava di
tagliare, sotto il fuoco nemico, con pinze e cesoie, o di far
saltare con cariche esplosive montate su tubi di ferro.
Chi riusciva a superare una trincea, se ne trovava poi di fronte
un’altra, esattamente uguale alla precedente.
|
Guerra di trincea |
63. Questa “catena di montaggio” della morte, questo ben
pianificato massacro a ondate successive, era dunque la guerra
“moderna”.
continua
Vedi “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”, nn°170-180.
Il padre di Gabriele D’Annunzio si
chiamava, alla nascita, Francesco Paolo
Rapagnètta. Ma i suoi genitori, quando lui
aveva 13 anni, lo diedero in adozione (Corte
Civile dell’Aquila, Decreto del 4 dicembre 1851)
ad un facoltoso commerciante, di famiglia
arricchitasi durante il Decennio Francese, di
nome Antonio d’Annunzio, il quale aveva
sposato in seconde nozze Anna Lolli,
sorella della mamma di Francesco. Francesco
Paolo Rapagnètta divenne perciò, in
seguito all’adozione, Francesco Paolo
d’Annunzio: sposàtosi poi con Luisa De
Benedictis, ne ebbe 5 figli, dei quali Gabriele
fu il terzo.
Claudio Pavese – “Carlo Esterle” in Dizionario
biografico degli italiani, 1993.
Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira – “Storia
d’Italia nel periodo fascista”, Einaudi, 1956.
Corrado Li Greci intervista Giovanni Francesco
Pecoraro (Carpeoro) in Avanti! del
2-2-2017.
Mauro Canali – “Filippo Naldi” in Dizionario
biografico degli italiani, 2012.
Vedi “The Times” del 14 ottobre 2009.
Il Rapagnetta-D’Annunzio, abilissimo giocoliere
delle parole, buon ben dirsi il “Nietzsche de
noàntri”. La sua filosofia di vita era fatta
di frasi del tipo: “Il mondo è la
rappresentazione della sensibilità e del
pensiero di pochi uomini superiori”.
E lui era, naturalmente, convintissimo di essere
fra questi “uomini superiori”: “Io sono un
animale di lusso; e il superfluo m’è necessario
come il respiro” … Benito Mussolini, suo degno
compàre, lo descrisse adeguatamente: “D’Annunzio
è il dente cariàto d’Italia: bisogna o
strapparlo o ricoprirlo d’oro”. Preferirono
ricoprirlo d’oro.
E’ opinione di chi scrive, e senza offesa per
alcuno, che il “Monumento ai Mille” sia di una
ridicola bruttezza. Esso si ispira all’Inno
di Garibaldi, scritto dal poeta Luigi
Mercantini nel 1858, i cui versi iniziali sono
“Si scopron le tombe, si levano i morti, i
martiri nostri son tutti risorti” e raffigura,
infatti, un gruppo di uomini nudi, addossati
l’uno all’altro, che sembrano uscire da sotto
terra. Primeggia tra essi la figura di
Garibaldi, che scruta in piedi l’orizzonte. Il
tutto è sormontato da una figura femminile
alata, significante la Vittoria, che cinge la
testa di Garibaldi con le braccia arcuate come
una corona.
Le fattezze di Garibaldi sono quelle dell’attore
genovese Bartolomeo Pagano, che aveva
interpretato il personaggio di “Maciste” nel
kolossal-film muto “Cabìria”, uscito nel 1914,
alla cui sceneggiatura aveva collaborato lo
stesso Rapagnètta-D’Annunzio, che era
l’inventore anche dei nomi Maciste e Cabìria (=
Nata dal fuoco).
Autore del Monumento è lo scultore Eugenio
Baroni (1880-1935) il quale, peraltro, fece
anche cose migliori.