Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

8.1 Il Periodo dei Viceré Spagnoli (1500)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

Il Casale della Varra di Serino

1. Gian Antonio Summonte, nei primi anni del 1600, ci informa “...circa i suoi (di Napoli) Casali, che latinamente vichi o paghi son detti, che sono al numero di 37, i quali fanno un corpo con la città, godendo anch’essi l’immunitadi, privileggi e prerogative di lei, havendo anco luogo, in essi Casali, le Consuetudini napolitane compilate per ordine di Carlo II. Hor di questi casali ve ne sono molti di grandezza e numero di habitatori a guisa di compìte cittadi ... (fra cui) S. Giorgio a Cremano, Ponticello, Varra di Serino e S. Giovanni a Teduccio.

Questi Casali sono abbondantissimi di frutti d’ogni sorte e qualità, de’ quali se ne gode tutto l’anno: sono anco fertilissimi di vini pretiosi e delicati, di frumento, lino finissimo e cànnapo in gran quantità, di bellissime sete, vettovaglie d’ogni sorte, selve, nocellàmi, polli, uccelli, et animali quadrupedi, così di fatica come da taglio, e gli habitatori di questi Casali quasi ogni giorno vengono in Napoli a vendere delle loro cose, commodità veramente grandissima a’ cittadini ...” [1].

2. La descrizione del Summonte è, con tutta probabilità, un po' esagerata, secondo “l’intonazione... costantemente ottimistica” (Croce) propria degli storici napoletani a quel tempo, ma non è del tutto infondata.

3. In seguito all’unificazione, il Casale della Varra di Serino ebbe, nel Cinquecento, un periodo di rapida ed impetuosa espansione demografica ed economica, nonché di crescita civile, grazie alla base posta dalla razionale sistemazione aragonese.

4. Inoltre, nel 1577 anche Casavaleria si univa alla Varra di Serino sicché, a fine secolo, questa poteva ormai ben dirsi conformata “a guisa di compìta città”, e contava [2] più di 1.000 abitanti: alla stessa data, S. Giovanni a Teduccio ne aveva circa 1.200 e S. Giorgio a Cremano circa 400.

5. Come già in precedenza accennato, tutte le condizioni favorevoli del periodo aragonese furono sostanzialmente mantenute nel passaggio al vice-regno spagnolo.

Padulàni e cafòni

6. La Varra di Serino continuava ad essere terra demaniale (per “privilegio” confermato dal nuovo re, Ferdinando “il Cattolico” di Spagna, il 15 ottobre del 1505), quindi non soggetta ad alcun feudatario particolare; i contadini potevano coltivare autonomamente la terra, che era stata razionalmente sistemata nel periodo aragonese ed era pertanto divenuta molto più produttiva; godevano degli “usi civici” su di essa e potevano venderne liberamente i prodotti (soprattutto ortaggi, frutta e vino) nella vicina città; le lavorazioni della lana, della seta, della cànapa, del lino, avevano raggiunto uno sviluppo più che discreto; gli abitanti non pagavano l’imposta diretta (il focàtico), dalla quale erano esentati come cittadini di Napoli, ed erano inoltre esenti anche dalle imposte sui beni di consumo, che invece gli abitanti della città pagavano.

7. La condizione sociale dei contadini nei Casali demaniali più vicini alla città, e quindi anche nella Varra di Serino, pur rimanendo un condizione di duro lavoro, era dunque complessivamente più agiata rispetto a quella degli altri contadini del vice-regno (non a caso, avevano un nome proprio, “padulàni”, e non “cafòni”):

‘N capa sempe ‘a còppola,

‘e piére sempe ‘e zuòccole,

dint’a panza sempe ‘e vruòccole.

8. Non è perciò del tutto privo di fondamento concreto lo slancio lirico di Bernardino Rota (1509-1575), uno dei poeti napoletani più rappresentativi del periodo [3], che così èvoca i vari paesi della valle del Sebéto, fra la città di Napoli ed il Vesuvio:

Inghirlandàto di canne, versi il Sebéto le sue acque lucenti.

Qui i suoi lauri abbondevolmente Resina,

Portici prepari i suoi mirti,

e Barra le uve, e le sorbe Cremano.

Qui Somma ne dia le corbezzole, e Trocchia i fichi,

Pollena le ciriege, e Fratta le fragole.

Incoronato di pàmpini, a noi si mostri il Vesuvio

e dal fumante suo vertice una novella fiamma risplenda.

O il pari slancio di Bernardo Tasso (1493-1569), padre del più celebre Torquato:

Quanta invidia ti porto, o bel terreno,

dove Sebéto, colle lucid’onde

bagnando le sue rive alme e feconde,

porta il pìcciol tributo al gran Tirreno [4].

... E fa bel ciò che riga e ciò che bagna (di nuovo il Rota).

Padulàni e làzzari

9. Inoltre, la popolazione contadina dei Casali poté e seppe mantenere una sua sobria dignità ed una sua precisa identità culturale anche rispetto alle condizioni, non solo di atroce miseria ma spesso di abbrutimento morale, che caratterizzarono invece il nascente sotto-proletariato urbano dei “làzzari”, così descritto dal Doria:

“La nuova detestabile plebe, pittoresca soltanto per i suoi stracci e per la grassa salacità del dialetto (non più quello aureo e scarno di Loise de Rosa), infingarda, subdola, vendicativa, bestemmiatrice (già il Pontano, nel suo dialogo Antonius, aveva notato come i Napoletani avessero contratto dagli Spagnoli l’abito del turpiloquio), religiosa a modo suo (cioè sempre più avviata, senza alcuna elevazione spirituale, alle pratiche superstiziose), turbolenta e insolente e micidiale in condizioni favorevoli, spaurita e strisciante nel momento del pericolo” [5].

Oppure, visto con gli occhi dell’aristocrazia e dei borghesi dell’epoca, dal Capaccio, con accenti di disprezzo e di paura insieme:

“Vil gente mendìca e mercenaria, atta a disfare ogni buona costituzione di ottima repubblica; canaglia da cui è nato ogni tumulto popolare e ogni sollevamento fatto in questa città, e alla quale non si può porre altro freno che la forca... perché più indiscreta e indisciplinata di questa non ha tutto il mondo insieme...” [6].

Padulàni e cittadini

10. Occorre però notare che le condizioni di favore sopra menzionate erano, in realtà, a vantaggio non tanto dei Casali quanto della città di Napoli, che da essi traeva quasi per intero il proprio fabbisogno alimentare ed aveva, quindi, tutto l’interesse ad evitare che i contadini lasciassero le terre e andassero ad aumentare la crescente popolazione cittadina.

11. Più lucido, anche se ugualmente appassionato, sembra perciò il Giulio Cesare Cortese (1575-1627):

E chillo bello mio sciummo Sebéto,

patre carnale de li cetatìne,

che bace a mare mo tanto coièto,

scorrènno a le padùle pe li rine,

pe chi, pe no tornèse, taglio e meto

torza che balerrìano tre carrìne.

Perché, Napole mio, dica chi voglia,

non sì Napole cchiù, si non haie foglia [7].

12. Nei versi del Cortese, diversamente che in quelli degli aristocratici Rota e Tasso, appare anche la fatica degli abitanti delle “padùle”; di chi, per un solo “tornese”, taglia e miete “torze” che in realtà varrebbero almeno “tre carlini”; sicché, è questa fatica che contribuisce a mantenere “bello” il ”sciummo” ed a renderlo davvero “padre carnale dei cittadini”, perché serve a sfamare una intera città che si nutre prevalentemente di “foglia” ovvero di prodotti ortofrutticoli.

13. Si consideri che il Cinquecento ed il Seicento, nonostante la grande peste del 1656 che decimò la popolazione, furono per Napoli il periodo della “alluvione demografica” (Galasso) e della nascita della plebe urbana (il ceto sociale dei famosi “làzzari”, di cui prima si è detto), dovute soprattutto al massiccio fenomeno di immigrazione da tutte le provincie del regno.

14. Nei primi 50 anni del vice-regno spagnolo, la popolazione di Napoli si quintuplicò, passando dai circa 40.000 abitanti della fine del Quattrocento ai circa 200.000 della metà del Cinquecento, per arrivare poi ai 500.000 intorno alla metà del Seicento.

15. Questa crescente popolazione fu, fino al Seicento, una popolazione di “mangia-foglie” (come si diceva) e non di “mangia-maccheroni”, come invece divenne solo a partire dal Settecento: foglia con carne, per i signori; foglia senza carne, per i poveri; foglia, con carne solo la Domenica, per il medio ceto.

E tutta la “foglia”, per tutta questa gente, veniva coltivata dai contadini delle “padùle” (i “padulani”) di Barra, di Ponticelli, etc. che si recavano poi, quasi ogni giorno, in città con i loro carrettini per smerciare, a prezzo assai tenue, il frutto delle loro fatiche.

Padulàni, cafòni e làzzari

16. “Padulani”, “cafoni” e “lazzari” erano, quindi, gruppi distinti fra loro, ma insieme fondamentalmente uniti nell’essere semplicemente la parte più povera della popolazione, quella che sopportava il peso maggiore nella società: i contadini (sia padulani sia cafoni), perché erano sfruttati direttamente ed erano quelli che lavoravano per tutti; la plebe urbana, perché non produttiva e quindi completamente abbandonata a se stessa e costretta a sopravvivere di espedienti.

17. Per la sorte di questa popolazione povera, nel suo complesso, ben poca attenzione vi fu da parte dei viceré e tanto meno della corte di Madrid, che erano di solito “in tutt’altre faccende affaccendati”, come adesso si dirà.

La politica fiscale: le gabelle

18. Per i non-nobili e non-ricchi, la politica fiscale degli Spagnoli costituì una nuova edizione, aggiornata e peggiorata, di quella del periodo angioino e produsse analoghi effetti [8].

19. Vennero progressivamente e costantemente aggravate, fin quando scoppiò la rivolta di Masaniello nel 1647, le imposte indirette sui beni di consumo, le cosiddette “gabelle”: vi era la gabella sul grano, sulla farina, sull’orzo e sull’avena; la gabella sulla “neve” e quella alla “pietra del pesce”; la gabelluccia sul vino alla mèscita; la gabella sul sale e quella sul tabacco. Naturalmente, le gabelle più pesanti, e più odiose per il popolo, erano quelle sui generi alimentari di più largo consumo: la frutta, la verdura e il pane.

20. Venne inoltre ripristinato il pedaggio che si pagava per introdurre in città vari tipi di merci, cioè in pratica il vecchio “quartàtico” del periodo angioino.

La politica fiscale: arrendatòri e parànze

21. Il sistema di riscossione era quello dell’arrendamento: per ogni gabella si faceva una gara d’appalto per affidare a privati la riscossione della medesima.

L’arrendatòre vincente doveva versare nelle casse dello Stato la cifra pattuita e provvedere poi in proprio a farsi pagare dai contribuenti (cioè dal popolo); per far ciò, egli aveva la sua parànza (come si diceva), composta da soldati, contabili, governatori e uomini di legge che dipendevano da lui.

Naturalmente, una volta raggiunta la cifra da versare allo Stato, tutto il di più costituiva il guadagno dell’arrendatòre e della sua parànza; questo guadagno, che in teoria poteva arrivare fino al 20%, in pratica sfuggiva ad ogni controllo e ciò era fonte di gravi arbìtri ed abusi. Per di più, sempre più spesso, i viceré cedettero agli arrendatori l’intero introito di determinate gabelle, che venivano “vendute” per ripianare debiti dello Stato.

22. Essendo tali i sistemi di riscossione, ed aggiungendosi la dilagante corruzione dei funzionari, ben si comprende l’affermazione del Croce: “delle somme spremute al popolo, assai meno della metà perveniva al règio eràrio” [9].

Chi si arricchiva

23. Si comprende, forse, anche il paradosso evidenziato da alcuni studiosi: nonostante le cifre versate dalla popolazione fossero notevoli in rapporto alla miseria di gran parte degli abitanti, la Spagna finì addirittura per rifondere del proprio in Italia meridionale [10].

24. In realtà, “se la ricchezza scemava nei baroni, si accresceva e in gran parte trapassava nel medio ceto o ceto civile, nei due principali elementi di cui questo si componeva: gli speculatori e gli avvocati. Erano, i primi, soprattutto appaltatori di gabelle, esportatori di granaglie e di altri generi, banchieri e prestatori di denaro, in parte indigeni, in più grande e cospicua parte genovesi...” [11] ed altri forestieri.

La politica fiscale: i donatìvi

25. Oltre alle gabelle ed al tradizionale focàtico, vi erano poi i cosiddetti “donativi”, il tipo di tassazione forse più emblematico del periodo.

26. Erano naturalmente delle feroci imposizioni, ma la cerimoniosa ipocrisia spagnolesca, tipica dell’epoca, le chiamava “donativi” perché, formalmente, si trattava di “doni spontanei” che la popolazione riconoscente faceva al sovrano regnante, per venire incontro alle “esigenze” (prevalentemente di guerra e di rappresentanza) di quest’ultimo.

27. Ora, le esigenze di guerra dei sovrani erano continue e crescenti: prima Carlo V (contro Francesco I di Francia), poi Filippo II (contro Elisabetta d’Inghilterra), mantennero la Spagna in uno stato di guerra permanente per tutto il Cinquecento; ed i loro successori li imitarono, con la rovinosa guerra detta “dei trent’anni” (1618-1648) ed altre ancora, sostanzialmente senza alcuna interruzione.

28. “Sua Maestà” spiegava ai napoletani il viceré Don Pedro de Toledo (1532-1553) “si impegna in grandi imprese per difendere le cose sue e per offendere anchora quelle del predicto inimìco” e naturalmente le grandi imprese “non se possono fare senza il nervo de la guerra, che è la pecùnia” [12].

Il viceré Pedro de Toledo

29. E circa un secolo dopo, il viceré Manuel de Zuniga y Fonseca, conte di Monterey (1631-1637), continuava a prodigarsi per far comprendere ai napoletani (i quali, evidentemente, non erano ancora del tutto convinti) che “è mestieri che la città e il regno di Napoli sopportino le spese della guerra e ne sentano le molestie, le quali sono tutte lievissime, paragonate a quelle che tutte le altre provincie patiscono; ... per assicurar loro la libertà, l’onore, le vite e le facoltà, è necessario che aiutino e soccorrano, facendo sforzi comuni” [13].

30. Le esigenze di rappresentanza, poi, erano se possibile ancora più esorbitanti: il gusto delle “forme” e delle “apparenze” era tipico dell’epoca e proverbiale nei domìni spagnoli, nei poveri come nei ricchi; ma nei ricchi, naturalmente, costava di più! Poteva così accadere che, nel 1539, un donativo di 285.000 ducati ne prevedesse 25.000 solo per le “pianelle dell’imperatrice”…

31. I donativi venivano deliberati, a nome delle popolazioni, dai cosiddetti “parlamenti” (a partire dal 1642, dai “sedìli” della capitale, sostituiti ai parlamenti), che si riunivano in media ogni due anni ed in effetti parlavano quasi esclusivamente di essi, del modo di riscuoterli e di ripartirne il peso.

32. Essendo però i “parlamenti” formati dai soli baroni delle province e dai nobili della città più un solo “eletto del popolo”, facilmente manovrabile e corruttibile, la inevitabile conseguenza era che i donativi finivano per ricadere quasi esclusivamente sui ceti più poveri.

33. “Il popolo napoletano odiava i baroni e i gentiluomini che, nei parlamenti, riversavano sulla gente povera il maggior peso delle imposizioni per donativi... e votavano gabelle che esso popolo solo pagava, mentre quei gentiluomini, sfuggendo ai dazi, si riempivano le case di viveri e di merci d’ogni sorta e, per di più, spesso guadagnavano con assumere gli appalti” [14].

34. In definitiva, secondo il calcolo del Croce, dal 1504 al 1664 il vice-regno versò 80 milioni di ducati, ed altri 5 milioni e mezzo dal 1664 al 1733, con una punta massima “così nell’invio di soldatesche (5.500 cavalli e 48.000 pedoni) come nei tributi di danaro, al tempo della guerra dei trent’anni (1618-1648), viceré il conte di Monterey (1631-1637)...

35. Si susseguirono, per due o tre decenni, inasprimenti di gabelle, sul sale, sulla farina, sul vino, gravezze di alloggiamenti militari, alterazioni della moneta, estorsioni di donativi volontari... finché, al tempo del viceré duca d’Arcos (1646-1648), la nuova gabella sulla frutta accese la scintilla della rivolta” [15].

La politica fiscale: il gioco del lotto

36. Dopo che la rivolta di Masaniello ebbe fatto scorrere il sangue, si dovette porre maggior cura nel non irritare il popolo; si giunse, allora, fino ad escogitare forme di tassazione “mascherate”, celebre fra le quali è il gioco del lotto o, come allora si diceva, la “beneficiata (o bonafficiata) reale”.

37. Il motivo dell’introduzione di questo gioco in Napoli è molto chiaramente espresso dagli autori dell’epoca:

“Essendo stati richiesti dalla corte di Spagna a Sua Eccellenza (Antonio Pedro Alvarez de Toledo, marchese di Astorga, vicerè dal 1672 al 1675) la somma di ducati 350.000, si va da lui cercando qualche espediente per scorticare e non guastare la pelle nel ritrovarli. Si è così proposto, da un erudito ingegno forestiero, che si facesse la beneficiata all’uso di Venezia e di Genova, affinché col lecco di vincere alcuna cosa per li cartelli che si mettono dai particolari, si venghi a far il guadagno poi di alcun miglione...” [16].

38. La prima “beneficiata reale” [17] si tenne nel settembre 1672.

“Il Fuidoro ... nota che i napoletani accorrevano in folla a comprare le cartelle, nella speranza di guadagnare, con due carlini, un rotolo di argento e senza considerare che, insieme colle 5.000 cartelle scritte, ne eran mescolate ben 95.000 bianche.

Egli raccoglie pure le voci maligne, secondo le quali tutto ciò era un ladroneccio stabilito a favore del barone Scioli (“abruzzese senza terra e senza vassalli”), appaltatore del giuoco, il quale si era assicurato efficaci protezioni nella corte vice-regnale.

Le estrazioni si fecero in seguito nel salone della Règia Camera, nella Vicarìa. A quella del 24 aprile 1675 il viceré assistette incognito da un finestrino della cappella, mentre la sala era addirittura stipata di gente. Uscirono, chi ne avesse curiosità, i numeri 18-36-41-46-70, apportando (secondo afferma il Conforto) poca vincita ai giuocatori e grosso guadagno agli appaltatori del giuoco.

Esso fruttava all’erario pubblico 22.000 ducati all’anno...” [18].

Gabelle e donativi nella Varra di Serino

39. In questo quadro generale di vessazioni, è pur vero che gli abitanti della Varra di Serino, raccolti nella loro estaurìta di S. Atanasio su terra demaniale, non pagavano le gabelle sui consumi primari (il pane, il vino, la frutta, la verdura, etc.); non pagavano la gabella alle porte di Napoli per introdurre le loro merci in città; non pagavano il focàtico...

Non potevano però sfuggire, ed era un peso considerevole, ai famigerati donativi “spontanei” nei confronti del re di Spagna!

Non poterono sfuggire, purtroppo, neanche a quella che fu, per Napoli, la più funesta tra le “grandi imprese” militari dei sovrani, nella prima metà del Cinquecento, e cioè la spedizione del Lautrec.

Odetto di Foix, visconte di Lautrec, sconfitto dalle “parùle” nel 1528

40. Nel contesto della guerra contro Carlo V, il re Francesco I di Francia inviò in Italia uno dei suoi più valorosi e spietati condottieri, Odetto di Foix, visconte di Lautrec, il quale nell’aprile del 1528 pose l’assedio alla città di Napoli, mentre le navi dei mercenari genovesi, suoi alleati, ne bloccavano il porto.

41. Governatore e comandante della città, per parte spagnola, pur senza avere ufficialmente il titolo di viceré, era in quel momento Ugo di Moncada, che cercò di spezzare l’assedio dalla parte del mare, uscendo ad affrontare le navi genovesi al largo di Salerno, ma fu sconfitto nello scontro di Capo d’Orso, il 28 aprile 1528, ed egli stesso, colpito da diversi proiettili d’arma da fuoco, cadde in mare e morì.

42. Alla testa delle truppe spagnole venne posto allora Filiberto di Chalons, principe di Oranges, il quale pensò di rompere l’assedio ricorrendo ad una specie di “guerra batteriologica” ante litteram e cioè “utilizzando” a scopo bellico la peste, che aveva iniziato a manifestarsi in città già dal 1526 e che era d’altronde endemica, in tutto l’occidente europeo, a partire dalla metà del Trecento [19].

Filiberto di Chalons, principe di Oranges

43. Lo schieramento francese, dal lato orientale della città, andava dal Poggio-reale (dove si trovava la famosa villa aragonese) fino al mare, e si trovava perciò proprio a ridosso dell’area delle paludi ed in mezzo ai canali del fiume Sebéto [20].

44. Esso, come scrive Francesco Guicciardini (1483-1540) nella sua “Storia d’Italia” (Lib.19, cap.4), si trovava già in gravi difficoltà, “per le infermità causate, in grande parte, dallo avere tagliato gli acquidotti di Poggioreale per tôrre a Napoli la facoltà del macinare, perché l'acqua sparsa per il piano, non avendo esito, corroppe l'aria, donde i franzesi, intemperanti e impazienti del caldo, si ammalarono”.

45. A ciò “aggiunsesi la peste, la contagione della quale penetrò per alcuni infetti di peste mandati studiosamente da Napoli (cioè da Filiberto di Chalons) nello esercito”.

46. Vittima dell’epidemia rimase, fra gli altri, lo stesso comandante francese, Odetto di Foix visconte di Lautrec, che morì il 17 agosto del 1528 ed ebbe poi monumento funebre nella chiesa di S. Maria La Nova. Accanto a lui riposa, ancor oggi, il suo compagno in quella sfortunata impresa, il capitano Pedro Navarro, soldato micidiale, esperto di “mine”, che combatté prima per Spagna e poi per Francia.

47. Decimato dalla malattia e senza più alcuna guida, l’esercito francese in breve si sbandò, cercando rifugio ad Aversa, da dove in seguito gli spagnoli lo costrinsero a ritirarsi definitivamente dal regno.

48. Naturalmente, come spesso accade, nessuno dei “gloriosi” condottieri combattenti si preoccupò più di tanto delle povere popolazioni inermi e così i contadini dei Casali (Varra di Serino, Ponticelli, S. Giovanni a Teduccio, etc.) dovettero subire, in quell’infausto 1528, prima l’usuale saccheggio a scopo di rifornimento alimentare delle truppe del visconte di Lautrec e poi le conseguenze dell’epidemia alimentata dall’astuto principe di Oranges, la quale naturalmente non colpì solo le truppe francesi ma rimase ad infierire sulle popolazioni del posto anche dopo, quando i francesi si erano già messi in salvo ad Aversa.

49. Il brillante Filiberto di Chalons, principe di Oranges, come premio per la sua vittoria, ebbe da Carlo V il feudo di Melfi e Canosa, ma (giustizia divina ?) ben poco poté goderne i frutti, dato che venne a morte solo due anni dopo (e precisamente il 3 agosto 1530) mentre era impegnato nell’assedio di Firenze.

La morte di Jacopo Sannazaro (1530)

50. A quanto pare, assai consolato dalla morte dell’Oranges fu Jacopo Sannazaro, il grande poeta del periodo aragonese, che morì pochi giorni dopo di lui, nello stesso anno 1530, come racconta l’Alvino (“La collina di Posilipo descritta”- Napoli, 1845):

“Il poeta Jacopo Sannazaro ... ebbe in dono dal suo re (Federico d’Aragona) una tenuta alla punta di Mergellina. Quivi fabbricò una torre ed una casa, e nella calma di questi luoghi dolcissimi compose la maggior parte delle sue opere ed il poema De partu Virginis.

La casa venne demolita dal viceré di Napoli Filiberto, principe di Oranges, allorché, fedele al suo re infelice, Sannazaro lo seguiva in Francia”.

Pertanto, “allegrezza profonda e feroce” il poeta “esprimeva sul letto di morte, allorché ascoltava la fine dell’odioso principe di Oranges, caduto sotto Firenze assediata da Carlo V. Allora, agonizzante, esclamava gioioso: - Il Cielo ha finalmente vendicato le Muse, a torto offese... e, componendo il volto ad un sorriso, si moriva”.

Jacopo Sannazaro ritratto da Tiziano

Alcune memorie dell’infausto triennio 1526-1528

51. A lungo rimase, nella memoria delle popolazioni, il ricordo del triennio 1526-28 come periodo infausto di peste e di guerra.

52. Durante la pestilenza, nel 1527, la città di Napoli fece pubblico voto di costruire nel Duomo una nuova grande “Cappella del Tesoro” in onore del patrono S. Gennaro, al quale ci si era rivolti per ottenere protezione e scampo. Fu solo nel 1601, però, che la Deputazione, appositamente eletta dai Sedili cittadini a partire dal 1527, stabilì di dare inizio all’opera e ne ottenne l’assenso da un “breve” di papa Paolo V. La costruzione della Cappella del Tesoro di S. Gennaro si protrasse poi per tutto il Seicento ed anche oltre.

53. Anche la edificazione, da parte del Sedile del Popolo, della chiesa di S. Maria di Costantinopoli in Napoli, è collegata alla peste del 1526-28, come riporta Gennaro Aspreno Galante:

“I napoletani, scampati alla peste che dal 1526 al 1528 desolò la città, edificarono in questo luogo (la attuale Via S. Maria di Costantinopoli) una cappella in rendimento di grazie alla Vergine, collocandovi un’immagine di Lei simile a quella che salvò Costantinopoli da un incendio; ma poscia l’edicola fu abbandonata e rovinò affatto.

Nel 1575, nuovamente la peste infierì in Italia e una pia donna, ispirata in visione, ricordò ai napoletani la prodigiosa immagine della Vergine, onde la cavassero dalle ruìne e le edificassero un novello tempio, come fu fatto, e la città e il Regno fu immune dal flagello” [21].

Sul frontone del tempio venne posta la scritta, che tuttora si legge, MATRI DEI OB URBEM AC REGNUM A PESTE SERVATUM.

A Pietrabianca nel 1535: Carlo V, Bernardino Martirano e Nina Palumbo

54. Altro importante episodio militare della prima metà del Cinquecento fu la vittoria di Carlo V nella battaglia di Tunisi (1535) contro i Turchi, in seguito alla quale l’imperatore ritornò conducendo liberi 20.000 cristiani che erano schiavi degli “infedeli”.

55. Nel corso di questo memorabile ritorno, Carlo V fece sosta a Napoli, per la sua prima ed unica visita alla città, fermandosi per tre giorni nel piccolo Casale di Pietrabianca.

56. “Diceasi una volta Leucopetra, ed anche oggidì ritiene il nome di Pietrabianca... la contrada che dai Due Palazzi in Portici (fatti fabbricare nel Settecento da due dotti giureconsulti, Vargas e de Stefano) discorre fino alla Madonna del Soccorso (fondata nel 1517 in S. Giovanni a Teduccio)... Io per me penso che la natural qualità della pietra calcarea abbia fatto dare quel nome a questo luogo” [22].

“De muodo ch’a Sebéto a mano manca

da na femmena bella, è Petra Janca” [23].

57. Bernardino Martirano, segretario del regno e “uomo di molte lettere ornato”, fece qui costruire verso il 1530 un suo palazzo, che fu cenacolo di poeti ed erudìti, continuando in tal modo quella tradizione di “uso nobile del territorio” iniziata con la villa aragonese di Poggioreale [24].

58. “E’ da sapersi che questo (il palazzo di Bernardino Martirano) è un edificio molto grande, capace di una numerosissima famiglia, con giardini, e viale al mare; fu l’imboccatura di Portici nel venire da Napoli, arricchito di acqua perenne...

Nel 1535 questo nobile palazzo col suo delizioso giardino servì di alloggio per tre giorni all’Imperador Carlo V, priacché entrasse glorioso ed acclamato in Napoli, dopo il ritorno della impresa di Tunisi, siccome lèggesi in una iscrizione in marmo situata sotto quella finestra, da cui affacciàtosi l’Imperatore, concesse alcune grazie e privilegi a’ nostri cittadini, a preghiere fàtteli da una donna paesana, per nome Gelsomina o Nina Palumbo; i quali privilegi, come di portare in Napoli frutta, ed alcuni altri comestibili, senza pagar gabella, gode anche oggi la nostra Università (Portici)....” [25]

Le concessioni di Carlo V

59. La popolana di Portici, Nina Palumbo, ottenne quindi da Carlo V il privilegio “di portare in Napoli frutta ed alcuni altri commestibili, senza pagar gabella” all’ingresso in città; in altri termini, ottenne che venisse esteso anche al Casale di Portici il beneficio di cui già godevano i Casali più vicini alla città, fra i quali la Varra di Serino.

60. Tale concessione da parte di Carlo V non fu peraltro occasionale, ma rientrava nel quadro delle direttive che egli diede in occasione di quella sua visita al vice-regno napoletano.

61. Nel riconfermare i benefìci a favore dei Casali sancìti in epoca aragonese e poi da Ferdinando il Cattolico, l’imperatore ebbe modo anche di constatare che alcune terre e Casali demaniali erano stati, con modalità non sempre limpide, “infeudati” da nobili famiglie e pensò di risolvere il problema concedendo alle “Università” locali il cosiddetto “jus praelationis”: i Casali infeudati potevano cioè ritornare al demànio règio, versando al feudatario l’equivalente del valore dei loro terreni.

62. Ciò diede luogo, in seguito, ad alcuni fenomeni paradossali, giustamente celebri: interi paesi si auto-tassavano pesantemente per raccogliere la somma necessaria e finalmente si “riscattavano al demànio”; ma, subito dopo, venivano nuovamente venduti ad altri privati dai viceré, pressati dall’esigenza di pagare i debiti pubblici, per cui i paesi dovevano nuovamente dissanguarsi per riscattarsi di nuovo, e così via... Addirittura, alcuni Casali arrivarono a “mettersi in vendita” da soli, allo scopo di pagare i debiti che avevano contratto... per riscattarsi.

63. Questi “giri viziosi” del sistema feudale non facevano altro, naturalmente, che togliere ai poveri per dare ai ricchi, aggravando ancor più le condizioni di vita delle popolazioni.

64. La Varra di Serino, comunque, non venne a trovarsi in simili spiacevoli situazioni, rimanendo senza contestazione “in demànio”, almeno fino al cruciale anno 1637, nel quale il viceré Manuel de Zuniga y Fonseca, conte di Monterey (1631-1637), pressato dai debiti e dalle richieste della corte di Madrid, decise di mettere in vendita indistintamente tutti i Casali demaniali.

65. Le generali proteste, sollevazioni e tumulti che vi furono in quella occasione in tutti i Casali, e nei quali anche la Varra di Serino fece la sua parte, costituirono quasi il prologo e la prova generale della rivolta, detta di Masaniello, che avvenne dieci anni dopo (1647).

Bernardino Mendoza e il rifacimento del ponte della Maddalena nel 1555

66. Il cardinale Pedro Pacheco de Villena (1488-1560) fu vicerè di Napoli dal 1553 al 1556. Negli ultimi mesi del 1555, egli dovette assentarsi dalla città per partecipare, in Roma, al “conclave” per l’elezione del nuovo papa, dopo la morte di Giulio III.

67. Durante la sua assenza, fu nominato governatore luogo-tenente Bernardino de Mendoza, che tenne l’incarico solo per pochi mesi, fino al febbraio 1556, quando arrivò un nuovo viceré, Fernando Alvarez de Toledo, primo duca di Alba (1556-1558).

68. Il breve periodo di governatorato del Mendoza stette però a lungo in benedizione nella memoria delle nostre popolazioni, in quanto fu lui a promuovere un’opera pubblica di fondamentale importanza per i contadini, che dovevano andare in città a vendere i prodotti degli orti delle “parùle”, e cioè la ricostruzione del ponte sul fiume Sebéto, detto “ponte della Maddalena” [26], che era andato distrutto qualche tempo prima a causa delle piogge abbondanti.

69. Così ci informa il Celano: “Fu questo ponte da un gran diluvio rotto, e portato al mare; fu poscia rifatto, nell’anno già detto (1555) da Bernardino de Mendoza, governatore del Regno...” [27].

Giacomo Serpotta, la battaglia di Lepanto del 1571

Grazie e disgrazie nel periodo di Don Perafàn (1559-1571)

70. Durante i 12 anni (1559-1571) del vice-regno di Pedro Afàn de Ribera, duca di Alcalà (detto, a Napoli, “Don Perafàn”, abbreviazione di “Pedro Afàn”), vi furono almeno tre annate di carestia grave (nel 1559, nel 1565 e nel 1570) e ben quattro terremoti, durante uno dei quali la terra tremò quasi ogni giorno, in Napoli e nel circondario, dal 25 luglio al 19 agosto del 1561.

71. Scarne ma terribilmente efficaci sono, in proposito, le celebri descrizioni del Summonte:

“Nel mese di febraio 1565, fu in Napoli una grandissima penuria di pane, in tanto che il grano valse carlini ventiquattro il tumulo, e l’orzo un ducato; fu anche penuria di verdume, di modo che si vendevano le frondi delle verze vecchie per buoni càuli (cavoli), e durò questa carestia, fuor e dentro Napoli, fin al mese di maggio, che fu cagione di grande calamità, e molti poveri si morivano di fame, et altri per non morirsi vendevano la virginità delle proprie figlie, con gran disservitio del nostro Signore Iddio, non senza grave colpa degli regij ministri” [28].

72. Nel 1562-63 (dunque, fra il terremoto del 1561 e la carestia del 1565), si ebbe, sempre a detta del Summonte, un “general contagio di catarri, onde ne seguì mortalità tale, che spaventò gli animi delle genti, e ne morirono le centinaia delle persone in poco tempo... durò questo morbo quasi tutto il mese di Gennaio 1563, e fu giudicato che morirono solo in Napoli più di vintimila persone... e non solo questa città sentì tal morbo, ma anche quasi tutta Italia, che in ogni parte morì numero infinito di persone di ogni età e sesso, particolarmente i ricchi”.

Per il che, giudicandosi che questa malattia provenisse da “distemperamento d’aria, fu per ordine del viceré comandato, che ciascheduna casa havesse a far fuoco la mattina avante la porta per consumar una nebbia, che ogni giorno per due hore nascondeva la luce del giorno; e così fu fatto...” [29].

73. Il “contagio di catarri” doveva essere con tutta probabilità una malattia tipo bronchite o polmonite, dovuta, a quanto sembra, ad un periodo non usuale di freddo e di umidità (la nebbia); ma perché mai questa malattia colpiva “particolarmente i ricchi”? sembrerebbe più logico che essa colpisse particolarmente i poveri, che avevano abitazioni (quando le avevano) certamente più umide e meno riscaldate di quelle dei ricchi.

74. Ad ogni modo, la vicenda è emblematica, sia dei problemi dell’epoca, sia dell’approssimazione con la quale le autorità vice-reali si cimentavano con essi.

Pedro Afàn de Ribera, duca di Alcalà

75. Un po’ meglio andò, quanto a provvedimenti, nella successiva carestia del 1570; si segua ancora la narrazione del Summonte:

“Nel fine dell’anno 1569, con buonissima parte del 1570, fu in tutto il regno di nuovo grande carestia. Il grano valse a quattro scudi il tomolo. I poveri contadini, tanto maschi come femmine, venivano nella città chiedendo pane, con sembianze più di morti che di vivi.

76. In tanto che fu per li Signori Eletti della città pigliato espediente, che tutti i poveri fossero sustentati ed alimentati nello spedale di San Gennaro fuori la città, ove da mille poveri trattenuti furono, sino a tanto che quella rabbia di carestia mancata fusse. La bontà di Don Parafan de Ribera, Vicerè del regno, fe’ fare una cerca di danaro per elemosina per tutta la città, donandogli egli buona somma di ducati, dei quali molti poveri vergognosi della città sostenuti furono, con molta lode sua e dei cittadini che vi presero parte, i quali non nòmino acciò non pèrdino presso Dio la lor mercède” [30].

77. Annate di carestia, terremoti, epidemie, erano gli eventi “notevoli” per la popolazione contadina, quelli che emergevano dallo scorrere ordinario delle stagioni e dei lavori agricoli ad esse collegati e, fra i poveri contadini che patirono queste disgrazie, vi furono certamente anche quelli della Varra di Serino.

La strada delle Calabrie (1562)

78. L’ epoca di Don Perafàn merita però di essere ricordata anche per un avvenimento di carattere positivo, di grande importanza.

Infatti, nel 1562 (un anno dopo il terremoto), il viceré promosse l’apertura della “strada delle Calabrie”: la grande strada che, riprendendo in parte il tracciato di epoca romana e partendo proprio dal ponte della Maddalena, univa Napoli a Salerno ed a Reggio Calabria, procedendo lungo la costa tirrenica. Essa non soltanto consentì un più agevole sviluppo di tutti i paesi situati lungo la costa, ma costituì la premessa del successivo insediamento, nel Settecento, delle Ville vesuviane dette del “Miglio d’oro”.

Anche per Barra, l’importanza della “strada delle Calabrie” fu notevole, come si dirà più estesamente in seguito [31].

Nel 1585: l’Eletto Starace

79. I fatti accaduti nel 1585 in Napoli sono abbastanza noti.

Durante quella nuova annata di carestia, il viceré in carica Pedro Tèllez Giròn, primo duca di Osuna (1582-1586), ricevette ordine di inviare a Madrid una quantità supplementare di grano, per le esigenze della popolazione spagnola.

Per fare ciò, fece ricorso ad un espediente già altre volte adoperato a Napoli: ridurre il peso della “palata” di pane, lasciandone però inalterato il prezzo.

Più precisamente: per poter inviare in Spagna 400 mila tòmoli “straordinari” di farina, il peso della “palata” di pane in vendita a Napoli venne dimezzato, da 48 a 24 “once”, uguale restando il prezzo di 4 “grana”.

80. Questa volta, però, la “protesta dello stomaco” non rimase senza effetti, ed il popolo cominciò a tumultuare.

La rabbia popolare si indirizzò (o fu indirizzata…) non contro gli spagnoli, i nobili o i ricchi borghesi, che speculavano sul commercio del grano, bensì contro l’ “Eletto del popolo” Giovan Vincenzo Starace, che venne letteralmente fatto a pezzi dalla turba scatenata.

81. D. Gaetano Parascàndolo, un pio e dotto sacerdote di quei luoghi, pubblicò nel 1858, in Napoli, una “Monografia del Comune di Vico Equense”, dalla quale traiamo le seguenti notizie:

Giovan Vincenzo Starace figlio di Andrea (e nativo di Vico, come risulta dai registri della Curia di quella terra), fu anche Eletto del popolo di Napoli, al quale nel 1585 per false supposizioni venne in odio, e ferito di stoccata fu sepolto ancor vivo in una cappella di S. Agostino (la chiesa di S. Agostino alla Zecca, in Napoli); di là cavato, dopo la fuga delle compagnie dei soldati, con barbara crudeltà tornarono quei furibondi della plebe in varie guise a tormentarlo; e finalmente lo trascinarono, nudo, sanguinoso e semi-vivo, verso la Sellerìa, ove dopo aver dato l’ultimo spirito ai 9 maggio 1585, il suo cadavere venne dilaniato e diviso fra la plebe…”

Aggiungiamo altresì che la sua casa alla Sellerìa venne saccheggiata e poi data alle fiamme.

82. Ora, è possibile che Giovan Vincenzo Starace non fosse del tutto esente da colpe, nello svolgimento del suo ufficio di Eletto: è noto, infatti, che gli Eletti del popolo erano, assai spesso, corrotti dal viceré e dai nobili per ottenere il loro voto favorevole, ed approfittavano in vari modi del ruolo che ricoprivano, per arricchire se stessi e le proprie famiglie. E’ certo però che egli non era l’unico, né il principale, responsabile della fame del popolo e rappresentò, in quella circostanza, il classico “capro espiatorio”.

83. In seguito a tali fatti, i nobili della città uscirono in corteo per le vie e, gettando monete alla plebe, annunciarono che la “palata” di pane sarebbe presto ritornata al peso consueto.

84. Calmate dunque in tal modo le acque, il viceré procedette ad una feroce repressione: istituìto un apposito tribunale speciale, vennero individuate e processate, in modo alquanto sommario, circa 500 persone, che furono condannate, non formalmente per l’omicidio dell’Eletto, ma “per sedizione contro il rappresentante di Sua Maestà Filippo II di Spagna” (cioè il viceré).

85. Furono condannate: 31 persone a morte, 71 alle galere e circa 400 all’esilio. Alcuni dei 31 condannati a morte, subirono anche, prima dell’impiccagione, il taglio delle mani, e dopo di essa, lo squartamento del cadavere.

Le teste e le mani mozzate furono poi esposte in gabbie di ferro, in una sorta di terribile monumento commemorativo, sul luogo degli eventi.

Per tale Giovan Leonardo Pisano, mercante di spezie e capo-piazza alla Sellerìa, si procedette anche, in aggiunta a quanto sopra, a distruggere la sua abitazione ed a cospargere di sale il terreno da essa occupato.

Nel 1585: Virgilio Scognamiglio, un Barrese nel tumulto

86. Dagli atti, risulta anche quanto segue:

“Giustizia del 2 ottobre 1585. Vergilio Scognamiglio, di mestiere potecàro, da Barra, fu condannato ad essere tenagliato, impiccato e squartato. Lasciò la moglie Antonia Pàparo, una sorella nubile e la madre Lucente”.

87. E’ poco probabile che il nostro Virgilio Scognamiglio fosse un pericoloso rivoluzionario, e nemmeno un semplice capo-popolo arruffone, e nemmeno si sa, peraltro, se partecipò direttamente all’uccisione dell’Eletto.

Forse, era solo un poveretto che si lasciò trascinare dall’onda del tumulto, un po’ come Renzo Tramaglino, il protagonista de “I promessi sposi”, durante la sommossa di Milano, ma non seppe o non poté essere abbastanza furbo da mettersi successivamente in salvo, come invece riuscì a fare Renzo Tramaglino, secondo il Manzoni.

88. D’altronde, come si vede, nessuno andava tanto per il sottile.

Il popolo più povero, dopo circa un secolo di ingiustizie e di vessazioni da parte dei viceré e della complice classe dirigente napoletana (nobili e borghesia incipiente), cominciava a fare “giustizia” sommaria, come accadrà poi in forma ancora più estesa con la rivolta di Masaniello nel 1647.

Gli esponenti del potere economico e politico (spagnoli e napoletani), impauriti ma pur sempre arroganti ed opportunisti, per salvaguardare se stessi applicavano i criteri del diritto tribale: individuazione del capro espiatorio da sacrificare, rappresaglia indiscriminata, etc. Ben lungi, quindi, dal cercare almeno di attenuare i conflitti che sorgevano da un sistema strutturalmente oppressivo, si gettavano invece i semi di ulteriori tragedie future.

Comunque sia, a ricordo dei drammatici fatti del 1585, rimane ancor oggi in Napoli… una strada: la Via Eletto Starace, traversa dell’attuale Corso Umberto I (il “Rettifilo”).

Il Concilio di Trento nella zona vesuviana

89. Il Concilio di Trento (1545-1563), convocato dal papa Paolo III (1534-1549) e concluso, dopo varie sessioni, dal papa Pio IV (1559-1565) fu, in ogni senso, l’evento centrale del secolo.

Con esso, la Chiesa cattolica, da una parte, respingeva e condannava le tesi teologiche avanzate dai “protestanti” e, d’altra parte, iniziava una propria vigorosa riforma interna, allo scopo di correggere quelle rilassatezze morali che fornivano facile pretesto agli “eretici”.

90. A Napoli, fu con il Sinodo diocesano, aperto il 4 febbraio 1565 dal giovane e sfortunato cardinale Alfonso Carafa (1557-1565), che iniziò il recepimento e la pratica attuazione dei decreti del Concilio.

91. E’ a partire dal 1565, quindi, che s’incominciarono a tenere obbligatoriamente, come stabilito a Trento, quei registri parrocchiali che, con l’annotazione delle nascite, dei matrimoni, delle morti, etc. dell’intera popolazione, costituiscono una fonte preziosa per la storia dei nostri Casali. Da quella data, anche, possediamo l’elenco dei parroci [32].

92. A partire da allora, allo scopo di rafforzare l’unità della Chiesa locale attorno al suo Pastore nonché l’autonomia della Chiesa stessa rispetto alle ingerenze dei poteri mondani ai vari livelli, il Vescovo fu tenuto, quale obbligo grave del suo incarico, a risiedere nella sua diocesi e ad effettuare periodicamente la cosiddetta Santa Visita a tutte le chiese di sua competenza. Di queste “Visite” si conservano quindi gli Atti (altra preziosa fonte storica).

93. Anche per la nostra zona, il Concilio di Trento segnò uno sparti-acque epocale, perché modificò radicalmente il modo di essere della Chiesa e quindi dell’intera comunità locale.

94. Fortunatamente, vi è documentazione di una Santa Visita effettuata (pur non essendo allora obbligatoria) prima del Concilio.

La prima Visita alle chiese del territorio vesuviano di cui si conservino gli Atti è, infatti, quella ordinata dall’arcivescovo di Napoli Francesco Carafa (1530-1544) ed eseguita dal suo vicario generale Leonardo de Magistris, vescovo di Capri, negli anni 1542-1543.

Gli Atti di questa Visita consentono di disegnare un quadro abbastanza chiaro e preciso della situazione della Chiesa nei nostri Casali prima del Concilio di Trento (in particolare, il Casale della Varra di Serino fu visitato il 25 febbraio del 1543).

Facendo poi il confronto con quanto emerge dagli Atti di Santa Visita dei cardinali Alfonso Gesualdo (1599), Decio Carafa (1620) e Francesco Buoncompagno (1629), si ha la possibilità di misurare quali e quanti mutamenti furono introdotti in seguito al Concilio stesso [33].

La fine delle estaurìte

95. Prima del Concilio di Trento, a tutto il 1542-43, sia la Varra di Serino (con la chiesa di S. Atanasio) che la vicina Casavaleria (con le chiesette di S. Maria del Pozzo e di S. Martino) erano “estaurìte” [34].

96. “Dopo il Concilio di Trento, gli arcivescovi napoletani si diedero da fare per ottenere questi due scopi principali:

- sottomettere alla propria giurisdizione le estaurìte, mediante la Santa Visita ed il controllo dei libri dei conti;

- riservare a sé la nomina dei cappellani, a cui fu dato il titolo di parroci e la inamovibilità” [35].

97. Queste due cose significavano però, in pratica, la fine delle estaurìte come forme autonome ed originali di organizzazione del laicato e quindi la fine di un certo modello di Chiesa.

98. Le comunità locali, con i loro “magistri”, cercarono pertanto di opporsi, con tutti i mezzi a loro disposizione, a tali “novità” che, dal loro punto di vista, equivalevano a un “infeudamento” delle estaurìte da parte dei vescovi.

99. Lo scontro fra arcivescovi napoletani ed estaurìte durò a lungo, sino alla fine del secolo ed oltre. La documentazione di esso si trova nella grande raccolta (“quanto laboriosa altrettanto gloriosa e degna d’eterna ed immortal memoria”, a giudizio di Pietro Giannone) degli atti concernenti i rapporti tra il Regno di Napoli e la Santa Sede, nota col nome di “Archivio della règia giurisdizione” [36].

100. In forma sintetica, e limitatamente ai paesi vesuviani, il contrasto è descritto dal P. Giovanni Alàgi, nello studio citato in nota [37].

101. Per difendere la loro autonomia, le estaurìte si appoggiarono all’autorità civile, sotto la cui competenza (la “règia giurisdizione”, appunto) esse rientravano in quanto associazioni laicali, ma i viceré non poterono resistere a lungo alle pressioni che giungevano da molto in alto: addirittura, il papa Pio V (1566-1572) se ne lamentò ufficialmente con Filippo II, re di Spagna.

102. Né gli arcivescovi napoletani andarono molto per il sottile: si adoperò abitualmente l’arma della scomunica, per convincere gli estauritari più riottosi ad accettare la “Santa Visita” ed il relativo controllo dei libri dei conti.

103. Contemporaneamente, e conferendo nuovi contenuti a un nome antico, si promuovevano nei Casali le “confraternite” o “congregazioni”, come forme di associazionismo laicale destinate a prendere il posto delle antiche estaurìte.

La nomina dei parroci

104. Molto interessante è anche la questione della nomina dei parroci.

Il Concilio di Trento (Cap. XVIII della Sessione XXIV) aveva stabilito come segue le norme per la nomina dei parroci: quando una parrocchia viene a trovarsi priva di parroco, il vescovo deve provvedere alla sostituzione attraverso un concorso pubblico; i candidati devono essere esaminati da una commissione, formata da almeno tre esaminatori; la commissione deve poi pubblicare l’elenco di tutti coloro che sono stati approvati; infine, fra tutti gli approvati, il vescovo sceglie colui che gli sembra più adatto al governo di quella determinata parrocchia.

105. “Tutto ciò, quando il beneficio parrocchiale è di libera collazione”.

Il Concilio prevede, però, anche il caso di chiese parrocchiali nelle quali i laici abbiano il diritto di presentazione (e sarebbe stato proprio questo il caso delle nostre estaurìte) purché colui che viene presentato subisca l’esame e risulti idoneo, essendo l’esame la condizione assolutamente necessaria per poter ricevere il “beneficio” parrocchiale cioè la rendita connessa all’ufficio di parroco.

106. Ora, “gli arcivescovi napoletani vollero ignorare, nella seconda metà del Cinquecento, che le parrocchie dei Casali rientravano nel numero delle chiese di diritto patronato dei laici, e bandirono regolari concorsi, e conferirono i benefici parrocchiali, di loro propria ordinaria autorità, senza tenere alcun conto dei diritti delle varie “Università” (cioè delle comunità locali, con i loro eletti laici). Naturalmente, ci furono molti ricorsi e lamentele...

107. In fondo, la prassi degli arcivescovi era questa: partivano dalla presunzione che le parrocchie fossero di libera collazione e si comportavano di conseguenza, col regolare bando di concorso, le Bolle di nomina, etc.

Quando gli estauritari si lamentavano, non davano ascolto o, al più, chiedevano che documentassero i loro diritti. Il più delle volte, la documentazione scritta mancava (non era mai servita per il passato, tanto la cosa era pacifica) e allora si aveva buon gioco per mettere a tacere le proteste e magari accusare come usurpatori coloro che, a quanto pare, non facevano che difendere un loro antico e mai contrastato diritto. Diritto che, a dir la verità, non era stato abolito dalle disposizioni del Concilio di Trento, ma solo, come abbiamo visto, regolamentato.”

108. P. Alagi ritiene che: “gli arcivescovi fecero un’opera meritoria, liberandosi dalle importune ingerenze dei laici in una faccenda tanto delicata qual è la nomina dei nuovi parroci; tuttavia, il modo che essi adoperavano per giungere a tale lodevole risultato qualche volta appare un po' brusco”.

Le novità del Concilio

109. In definitiva, alla fine del secolo (Atti di Santa Visita 1599, card. Alfonso Gesualdo) troviamo le seguenti novità:

1) Nei volumi di Santa Visita, si evitano i termini “estaurìta, estauritàri”, che vengono sostituiti da “magistrantia, magistri”.

2) Dove si può, si consiglia di rinnovare i propri “Capitoli” o Regolamenti. I nuovi “Capitoli” non contengono più il diritto di nominare il “cappellano” e prescrivono di amministrare i beni della comunità anzitutto a scopo di culto (arredo delle chiese, salario del parroco e del sacrestano, etc.) e, solo in secondo luogo, a scopo di assistenza ai poveri (malati, invalidi al lavoro, anziani, dote per le fanciulle povere, etc.)

3) Gli arcivescovi insistono affinché, al fianco della “magistrantia” della chiesa, si istituisca anche la “Confraternita del Santissimo Sacramento”, con propri maestri, che si preoccupino di promuovere il culto al Santissimo Sacramento. E’ evidente che questi nuovi maestri indebolivano il prestigio e la potenza degli antichi estauritari, che per il passato erano stati i veri padroni della chiesa.

4) Scompare, d’altronde, il termine “cappellano” e, al suo posto, compare quello nuovo di “parroco”.

5) Il parroco è in-amovibile, mentre per il passato, in quasi tutti i paesi vesuviani, il “cappellano” era amovibile a discrezione degli estauritari.

6) La nomina del parroco diventa diritto esclusivo dell’arcivescovo.

7) L’amministrazione dei beni della parrocchia, malgrado le lotte sostenute e la istituzione delle Confraternite del SS. Sacramento, resta ancora, tuttavia, nelle mani dei laici: il parroco rimane un semplice salariato da parte di questi ultimi e non può disporre autonomamente dei beni della chiesa (in seguito, però, anche questa limitazione gradualmente scomparirà).

8) E’ tuttavia assodato che anche le estaurìte, sebbene si preferisca evitare questo nome, sono sotto la giurisdizione dell’arcivescovo.

La parrocchia post-tridentina: il parroco

110. In pratica, dunque, a partire dal Concilio di Trento, iniziò anche nei nostri paesi, nel bene e nel male, l’instaurazione di un nuovo modello di Chiesa: la parrocchia dell’epoca moderna, destinata a vita almeno 4 volte centenaria (fino al Concilio Vaticano II, che nel 1962-65 inaugurerà a sua volta una nuova fase nella storia della Chiesa cattolica).

111. Da una parte, migliorava decisamente il livello del clero, per la cui formazione il Concilio di Trento stabilì l’istituzione dei “Seminari” in ogni diocesi. Si ebbero quindi: una migliore selezione ed una più solida ed uniforme preparazione culturale dei chierici; una maggiore attenzione all’obbligo del celibato ecclesiastico; la stabilità e continuità della cura pastorale in ogni villaggio.

112. In corrispondenza, il parroco diventava di diritto, e gradualmente anche di fatto, il “monarca assoluto” della sua parrocchia, della quale rispondeva solo al vescovo, che però era lontano... e quindi il centro, se non la massima autorità, di tutta la vita del Casale.

Cosa faceva un parroco dei Casali

113. Egli era, nella maggior parte dei casi, l’unico che sapesse leggere e scrivere (in italiano e latino) e che avesse rapporti con le istituzioni, civili e religiose, esterne al paese.

All’interno della sua contrada, non vi era in pratica alcun evento che non passasse, direttamente o indirettamente, per le sue mani: aveva la possibilità, anche grazie alla confessione, di conoscere personalmente tutte le sue pecorelle e di seguirle, ad una ad una, dalla nascita alla morte (e anche nell’al di là, con le Messe per i defunti).

Predicava; battezzava; curava il catechismo e la rudimentale istruzione dei bambini e di qualche giovane più idoneo allo studio; vigilava sulla moralità delle fanciulle; combinava molto spesso i matrimoni (specie in casi particolari, come le gravidanze pre o extra coniugali); sorvegliava i costumi (il giuoco, i bevitori, i danzatori, le osterie...); mediava le liti e le eventuali controversie, anche patrimoniali, in famiglia; assisteva gli ammalati e i morenti (e quindi influiva sui làsciti ereditari); celebrava infine i funerali e le Messe per le anime dei defunti.

114. Oltre all’ordinaria ed esatta amministrazione dei sette Sacramenti, gli erano inoltre richieste (e retribuite) dal popolo altre prestazioni, assolutamente imprescindibili in una società agricola arretrata: organizzare preghiere e processioni per la pioggia o per il bel tempo; benedire i campi affinché scompaia il “verme” che divora le foglie o il grano; tenere cerimonie speciali contro i flagelli che possono minacciare il raccolto (i topi, le cavallette, i parassiti delle piante) o contro le malattie degli animali domestici e da lavoro; scacciare gli spiriti cattivi o i fantasmi che infestano le case; invocare i Santi preposti contro le varie malattie (S. Lucia per le malattie degli occhi, S. Biagio per quelle della gola, S. Apollonia per il mal di denti, S. Antonio Abate per l’herpes, etc.) ma anche conoscere ed eventualmente applicare i rudimenti della medicina (in una situazione, ricordiamolo, in cui non vi erano, per i poveri, né medici né medicine).

Quanto guadagnava

115. Le sue condizioni economiche erano spesso tutt’altro che floride. Il reddito di un parroco dei Casali, secondo la pregevole ricerca condotta da Carla Russo e più volte citata, era più o meno equivalente a quello di un funzionario pubblico di livello medio-basso (intorno ai 150 ducati), anche se maggiori erano la sua autorevolezza morale e prestigio sociale, come del resto le sue responsabilità.

Il Concilio di Trento aveva stabilito che nessuno potesse essere ordinato prete se non avesse prima dimostrato di “avere i mezzi per potersi onestamente sostentare”. In pratica, quindi, la famiglia doveva provvedere a costituire al figlio una “dote”, proprio come per il matrimonio di una figlia: questo “titolo clericale”, nei Casali, era costituito prevalentemente dagli affitti di terreni ed immobili che venivano “intestati” al figlio-prete. Il Card. Innico Caracciolo, nel 1680, stabilì ufficialmente che il titolo clericale (detto anche “sacro patrimonio”) non poteva essere inferiore ai 36 ducati ma nei Casali, anche prima del 1680, quasi tutti i preti stavano appena al di sopra dei 36 ducati e qualcuno, per esenzione ricevuta “a causa di povertà”, anche al di sotto.

116. I parroci, in particolare, oltre al loro titolo clericale, avevano poi un reddito che era composto prevalentemente da:

- riscossione delle “dècime” (che però a Barra non c’erano: positivo làscito dell’antica Estaurita: vedi n°36 in “Il periodo svevo”);

- reddito proveniente da terreni e/o case “intestate” alla parrocchia;

- la “congrua” ovvero lo stipendio che veniva a loro versato dalle Università;

- i redditi da Messe (= la gente che pagava per far celebrare Messe per i defunti o per ottenere “grazie” particolari);

- la cosiddetta “stola”, cioè i proventi che derivavano dal rilascio di certificati vari (di battesimo, cresima, matrimonio, morte, etc.), e soprattutto dalla celebrazione dei funerali (in casa, in chiesa ed “accompagno” al cimitero, con pagamento delle candele) e il più delle volte anche dalle “offerte spontanee” per i battesimi ed i matrimoni, visto che le disposizioni Sinodali vietavano di far pagare i Sacramenti.

Complessivamente, alla Barra, nel 1687, il reddito lordo complessivo del parroco era di 166 ducati: a titolo di confronto, a Marano era di 300 (il massimo, nei Casali) ed a Resina di 60 (il minimo).

Ducato d'oro del 1504, immagine proveniente dall'Asta Varesi - UTRIUSQUE SICILIE - del 30 Maggio 2000. Clicca sull'immagine per ingrandire

La parrocchia post-tridentina: le confraternite

117. Il parroco è l’unico diretto responsabile della parrocchia e ne diviene, forzatamente, anche il fac-totum. I laici più fervorosi ed obbedienti possono, però, diventare “collaboratori” della sua attività.

Lo strumento principale di questa collaborazione sono, dopo Trento, le già menzionate confraternite o congregazioni, che erano appunto i “sodalizi” nei quali i fedeli venivano raccolti, formati e guidati spiritualmente in modo disciplinato, nonché organizzati per quel tanto di reciproca assistenza che la comune povertà consentiva.

118. Gli statuti di questi sodalizi, sostanzialmente simili fra di loro pur con alcune varianti, ne disegnano abbastanza chiaramente la natura e le attività.

119. Gli iscritti erano, solitamente, divisi in gruppi di dieci: ad ogni “decuria” erano preposti un “decurione” ed un “vice-decurione”, che avevano soprattutto il compito di vigilare sulla presenza dei “fratelli” alle adunanze di istruzione religiosa e sulla loro assiduità ai sacramenti ed alle sacre funzioni in genere, dalla Messa ai funerali religiosi.

120. Al di sopra dei decurioni, vi era poi una gerarchia di “ufficiali”, che sovra-intendevano ai vari aspetti della vita della confraternita. Ordinariamente, erano previsti 18 “ufficiali”: un superiore (con due assistenti); un segretario; un depositario; un portinaro; un maestro dei novizi; un maestro di cerimonie; un sacrestano e compagno; un prefetto di sacrestia e compagni; un prefetto delle paci; un prefetto de’ bisognosi; più consultori semplici. Eventualmente, poi, al fine di “un più perfecto et exacto governo dell’oratorio”, l’organico poteva anche essere allargato.

121. Il “superiore” era al vertice della piramide e decideva, col consiglio degli assistenti, circa le iniziative della confraternita, l’uso dei fondi, l’espulsione di coloro che non rispettavano le regole o si rendevano moralmente indegni.

122. Il “depositario” era il tesoriere, che teneva l’inventario dei beni mobili e immobili della confraternita e curava il bilancio, mentre il “portinaro” deteneva le chiavi sia della sede (e quindi era responsabile dell’immobile) sia della cassetta delle offerte (e quindi era responsabile di essa).

123. Il “maestro dei novizi” aveva evidentemente il compito di iniziare i nuovi iscritti all’osservanza dello spirito e delle regole della confraternita; il “maestro di cerimonie” era invece il custode sia dell’osservanza delle regole e procedure della congregazione durante le riunioni e le processioni, sia della compostezza nelle celebrazioni religiose (sedeva vicino all’acquasantiera, all’ingresso, per invitare i confratelli ad inginocchiarsi ed a fare bene il segno della croce, ad “ascoltare” con devozione la Messa, a recarsi ordinatamente a fare la comunione, etc.).

124. Il “sacrestano” doveva arrivare nell’oratorio prima degli altri, per predisporre la funzione (sistemare l’altare, l’acqua benedetta, accendere le candele e poi spegnerle alla fine, etc.); e per consentire questo, il “prefetto di sacrestia”, con un numero variabile di compagni, doveva pre-occuparsi che la sacrestia fosse sempre mantenuta pulita, in buon ordine e che non mancasse mai del necessario (paramenti, arredi sacri, candele, etc.).

125. Il prefetto “de’ bisognosi” era il preposto agli aiuti materiali da darsi a persone indigenti o comunque bisognose, interne ed esterne alla confraternita; mentre il prefetto “delle paci” svolgeva il compito di “pacificatore” in caso di liti o di controversie eventualmente insorte tra confratelli.

126. In ogni caso, è da notare che tutti questi “ufficiali” non erano eletti dai confratelli ma nominati dal Padre spirituale, che di solito era il parroco. Solo il superiore e i due assistenti erano eletti dai confratelli, ma all’interno di una rosa di tre nomi proposti dal Padre.

Confraternite ed estaurite

127. Si possono, a questo punto, utilmente confrontare gli statuti delle confraternite nel contesto post-tridentino, di cui sopra, con i “capitoli” delle estaurite, di cui ai nn°32 e seguenti de “Il periodo svevo”.

128. Si sente, anzitutto, che il “clima” generale è cambiato. La Chiesa non è più anzitutto la comunità dei credenti, ma tende ad identificarsi puramente e semplicemente con la sola gerarchia (“la nostra Santa Madre, la Chiesa gerarchica” diranno i Gesuiti), che si costituisce come “casta” separata, al di sopra del popolo; che non solo parla, anche nella liturgia, una lingua a parte (il latino) ma deve “governare” il popolo. L’obbedienza ai superiori diviene virtù quasi più importante della stessa carità. Le cerimonie del culto e le apparenze esteriori della religiosità e della moralità, garantite dal controllo sociale, tendono a prevalere sull’intima adesione alla Parola di Dio (e la Bibbia viene, del resto, proibita ai fedeli).

E’ iniziato, insomma, nel clima inevitabilmente unilaterale della polemica anti-protestante, quel processo di involuzione ecclesiologica al quale solo con i grandi documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965) si inizierà a porre riparo [38], con un rinnovato ritorno alle fonti evangeliche e patristiche.

129. In questo clima generale, si nota poi in particolare che le estaurite:

- erano dei veri e propri organi di “autogoverno” di una intera, anche se piccola, “comunità popolare”,

- con estauritari che erano eletti da e, in ogni momento, rispondevano a “l’assemblea de li homine de lo casale”,

- di cui amministravano i beni comuni (fra cui lo stesso edificio della chiesetta) e le offerte,

- e che sceglievano e stipendiavano essi stessi il loro prete-cappellano, peraltro amovibile a giudizio dell’assemblea.

130. Le confraternite, per contro, sono l’organizzazione di una parte della comunità locale, guidata e disciplinata dall’autorità ecclesiastica; i poteri reali sono molto più ristretti (le decisioni più importanti le prende ormai il parroco ed il parroco lo designa il vescovo); la struttura interna, più verticistica ed autoritaria; le attività prevalenti, non più di tipo sociale, ma devozionale, con una particolare attenzione (del resto tipica dell’epoca) alle “forme” e alle “apparenze” (una “bella” funzione, ordinata e silenziosa; un “bel” funerale, per il decoro della famiglia ed il prestigio della confraternita, etc.).

Permangono, però, sia pure in forma diversa, le sempre valide “7 opere di misericordia” evangeliche (vedi Mt 25, 31-46): gli infermieri per assistere gli ammalati, specie i più bisognosi; i decurioni che devono recarsi ad assistere i confratelli in punto di morte ed avvisare il parroco; l’organizzazione dei funerali a cura della confraternita, etc.

131. Per altri aspetti, invece, non si può parlare di involuzione, ma si deve anzi sottolinearne la modernità:

“La maggior parte delle confraternite presenti nei Casali erano miste ovverosia ne facevano parte sia uomini che donne … E come non era generalmente prevista l’esclusione delle donne, così gli statuti delle confraternite non presentavano norme volte ad un reclutamento sociale specifico … le poche limitazioni previste concernono l’ambito territoriale e non la condizione sociale dei confratelli [39].

Si tende cioè a superare sia la rigida subalternità della donna rispetto al suo maschio/padrone sia la ripartizione della società per ceti e corporazioni, entrambi tipiche del medioevo. Le persone “civili”, come il notaro, il medico, l’avvocato, il sacerdote, l’artista (perfino il grande e ricchissimo Francesco Solimena) sono “confratelli” allo stesso titolo dei massari, dei bracciali, degli artigiani, ed alla stessa unica condizione di “essere di buoni costumi”.

132. In definitiva, sia pure in modi e tempi diversi rispetto a quelli delle estaurìte, anche nelle confraternite continua a soffiare lo stesso spirito evangelico, “incarnato” in solide comunità popolari, che si organizzano per affrontare i propri problemi quotidiani il più fraternamente possibile nel contesto sociale storicamente dato.

Il convento e la chiesa dei Francescani

133. Sulla cresta dell’onda suscitata dal Concilio di Trento, nella seconda metà del Cinquecento arrivarono a Barra, in un Casale la cui popolazione era in continua crescita e nel quale parimenti crescevano le articolazioni della vita civile, gli insediamenti stabili dei Francescani e dei Domenicani.

134. Per primi, arrivarono i Francescani: quelli, precisamente, del ramo detto “Ordine dei frati minori conventuali” (in sigla, ofmc), che si insediarono a Barra “di sotto le torri”, poco distante dall’antica chiesa dedicata a S. Atanasio. Il loro convento, con annessa chiesa, fu ultimato nel 1585, come si evince dalla lapide tuttora visibile al di sopra della porticina di accesso al convento, posta all’esterno della chiesa, accanto all’ingresso di questa.

135. La lapide è sormontata dallo stemma della famiglia de Fazio e reca la seguente scritta:

DIVAE MARIAE GRATIARVM

HIERONIMVS DE FATIO NEAPOLITANVS

SACRVM HVNC LOCVM IN FAMILIAE VSP

ERIGENS DEDICAVIT

ADDICTIS ANNVIS DVCATIS XX VT PERPETVO

TER IN HEDDOMADA HIC SACRIFICETVR

MAIORUM EXEMPLO MONITVS

HOC OPVS TERMINATVM VLTIMO

OCTOBRIS M D L XXX V

ET MARINVS DE FATIO DE NEAPOLI FVNNAVIT

DIVAE CATAERINAE DE CORONA DICATAM

IN REGIONE SEDILIS PORTE NOVE DE NEAPOLI

SVB DIE PRIMO NOVEMBRIS M CCC L IIII

Traduzione:

A S. MARIA DELLE GRAZIE

GEROLAMO DE FAZIO NAPOLETANO

QUESTO LUOGO SACRO ALLA SUA FAMIGLIA

ERIGENDO DEDICO’

STANZIATI 20 DUCATI ALL’ANNO AFFINCHE’ IN PERPETUO

TRE VOLTE ALLA SETTIMANA QUI SI SACRIFICASSE

MONITO L’ESEMPIO DEGLI ANTENATI

QUESTA OPERA FU TERMINATA L’ULTIMO

DI OTTOBRE 1585

E MARINO DE FAZIO DI NAPOLI FONDO’

DEDICATA A S. CATERINA DI CORONA

NELLA REGIONE DEL SEDILE DI PORTANOVA DI NAPOLI

NEL GIORNO PRIMO NOVEMBRE 1354.

136. Come si vede, il convento e la chiesa di Barra furono donati ai Francescani da un patrizio napoletano di nome Gerolamo de Fazio, il quale vi aggiunse altresì la rendita di 20 ducati all’anno, affinché i frati provvedessero a celebrare, in perpetuo, tre Messe alla settimana in suffragio dei defunti della sua famiglia.

137. L’opera fu opportunamente terminata l’ultimo giorno di ottobre, cioè all’anti-vigilia del 2 novembre, ricorrenza dei defunti. Gerolamo de Fazio afferma di aver fatto questo seguendo l’esempio dei suoi avi, in particolare di Marino de Fazio, il quale, alcuni secoli prima, e precisamente il primo novembre del 1354, aveva fondato una chiesa dedicata a S. Caterina “de corona”, nella regione del sedile di Portanova in Napoli.

138. Il riferimento è alla chiesa detta S. Caterina di Spina Corona, che in effetti si trova nella regione dell’antico sedile (o seggio) di Portanova e precisamente in quella che attualmente è denominata Via Giuseppina Guacci Nobile, una strada che inizia in Piazza Portanova (dove si trova l’antica chiesa estaurìta del seggio, S. Maria “in Cosmedin”) e, procedendo parallela al Corso Umberto I, termina sul fianco destro dell’Università.

139. Da un antico atto notarile, risulta che la chiesa di S. Caterina di Spina Corona fu fatta costruire nel 1354 (e la data coincide con quanto affermato dalla lapide di Barra) da alcuni nobili del sedile di Portanova (fra i quali, evidentemente, vi era anche il nostro Marino de Fazio) con annesso un monastero di monache benedettine.

140. Successivamente, le monache furono trasferite altrove, essendo il convento divenuto troppo piccolo per accoglierne l’aumentato numero, e la chiesa venne allora acquistata dalla comunità ebraica napoletana, che la adattò a sinagoga.

141. In seguito all’espulsione degli ebrei da Napoli [40], chiesa e convento vennero affidati ad alcuni nobili del seggio di Portanova, che vi fondarono un conservatorio destinato, inizialmente, alle donne di origine ebraica divenute cristiane e, successivamente, a giovani orfane.

142. Fu poi il famoso viceré spagnolo don Pedro de Toledo (1532-1553) a trasferire le orfanelle in S. Eligio e a trasformare la chiesa in rettorìa. Lo stesso don Pedro fece anche costruire, all’esterno della chiesa, accanto all’ingresso, una fontana pubblica, che il popolo denominò immediatamente “fontana delle zizze”, essendo essa costituita da una Sirena alata, dalle cui “zizze” (seni) sgorga l’acqua. O meglio, sgorgava l’acqua, perché la fontana risulta quasi permanentemente rotta, come purtroppo tante altre, consimili ed illustri, fontane monumentali di Napoli.

143. Poiché quindi don Pedro aveva, di fatto, sottratto ai nobili di Portanova la “loro” chiesa di S. Caterina di Spina Corona, alcuni decenni dopo Gerolamo de Fazio volle, evidentemente, ricostituire una chiesa “di famiglia”, nella quale far celebrare in perpetuo messe di suffragio per i defunti della sua stirpe.

144. Si coglie qui, all’evidenza, un tratto caratteristico della spiritualità cattolica post-tridentina.

Il Concilio di Trento, fra le altre cose, aveva fortemente sottolineato, contro la negazione fàttane dai “protestanti”, la dottrina circa l’esistenza del Purgatorio, già definita nel Primo (1245) e nel Secondo (1274) Concilio di Lione: “C’è un purgatorio e le anime che in esso sono ritenute trovano un soccorso nei suffragi dei fedeli, soprattutto nel sacrificio dell’altare, sommamente gradito a Dio” [41].

Ciò implicava, naturalmente, la opportunità di educare adeguatamente, presso i fedeli, la devozione alle “anime del Purgatorio”, con relative offerte in denaro da farsi alla Chiesa, allo scopo di far celebrare Messe (anche “in perpetuo”) per suffragare le anime dei propri cari defunti [42].

145. Infine, fu solo un caso che il de Fazio, per edificare la “sua” chiesa, scelse la Varra di Serino, cioè proprio il Casale che aveva nel suo stemma la stessa Sirena che don Pedro de Toledo aveva fatto collocare sulla fontana accanto a S. Caterina di Spina Corona? Forse è solo una coincidenza; ma è indubbiamente una coincidenza singolare.

La magistrantia di S. Antonio

146. Sempre nello spirito del Concilio tridentino e delle relative norme di attuazione date dagli arcivescovi napoletani, i Francescani promossero subito la formazione di una congregazione di laici, che fu la prima in Barra e che venne detta “di S. Antonio”, in quanto gli aderenti si riunivano in una cappella laterale della chiesa, dedicata appunto al grande Santo francescano S. Antonio di Padova.

147. Già nel 1639, quando cioè non esistevano ancora né la Confraternita “parrocchiale” della SS. Annunziata né quella “domenicana” del SS. Rosario, gli Atti di Santa Visita registrano l’esistenza della “magistrantia cappellae Sancti Antonii, constructa intus ecclesiam Sanctae Mariae de Gratia fratrum minorum conventualium Sancti Francisci”.

148. Non si trattava quindi di una vera e propria confraternita, ufficialmente costituita e regolamentata, ma era tuttavia una magistrantia secondo il nuovo spirito del Concilio (vedi n°109). La novità, introdotta dai Francescani, di quella inedita forma di associazionismo laicale dovette colpire parecchio il popolo della Varra di Serino, tanto che da allora l’intera chiesa dei Francescani in Barra venne detta semplicemente “chiesa di S. Antonio”.

149. D’altra parte, i Francescani poterono organizzare subito la loro magistrantia laicale proprio perché, essendo il loro convento di nuova istituzione in Barra, non avevano l’impaccio di dover prima vincere la resistenza di una qualche pre-esistente estaurìta che rivendicasse le proprie prerogative.

150. Una volta istituita, la magistrantia di S. Antonio poté poi costituire il modello che l’autorità ecclesiastica additava ad esempio per il laicato, affinché si sotto-mettesse obbedientemente alle direttive degli arcivescovi, rinunciando alla “fastidiosa” organizzazione (e mentalità) estauritaria.

151. In questo senso, la sua “sperimentale” istituzione influì certamente anche sulle vicende della vicina chiesa estaurìta di S. Atanasio.

La confraternita femminile

152. Altra esperienza all’avanguardia per l’epoca fu quella della confraternita di Nostra Signora del Carmine [43]: si trattava stavolta di una vera e propria confraternita, ufficialmente costituita, ma con la caratteristica di essere esclusivamente femminile. Nei Casali, tali esperienze si contavano sulle dita di una sola mano, ma una simile si trovava proprio nel vicino Casale di S. Giovanni a Teduccio, con il nome di S. Maria di Costantinopoli.

Quella Barrese potrebbe essersi formata, e quindi aver avuto la propria sede, intorno ad una piccola cappella dedicata appunto alla Vergine del Carmine, la cui esistenza sul territorio di Barra è documentata già negli ultimi anni del Cinquecento.

153. In queste confraternite, dunque, le donne svolgevano tutti quei ruoli che normalmente erano riservati agli uomini: di gestione, manutenzione e custodia del luogo sacro, di insegnamento alle novizie, di guida nella recita delle preghiere, ed anche di direzione e di amministrazione del sodalizio.

Per l’epoca, non è davvero poca cosa. E forse, proprio per il loro essere troppo avanti rispetto ai tempi, non durarono a lungo: sia quella di Barra sia quella di S. Giovanni a Teduccio, dopo il 1640 non sono più menzionate in Atti di Santa Visita.

La Varra di Serino da estaurìta a parrocchia

154. Come si è già detto [44], dagli Atti di Santa Visita del card. Francesco Carafa risulta che, alla data della Visita (25 febbraio 1543), la popolazione del Casale della Varra di Serino continuava ad eleggere periodicamente i suoi “quattro maestri laici” per governare la chiesa (e gli annessi beni) di S. Atanasio, ed i maestri sceglievano chi dovesse essere il prete cappellano, che era comunque “amovibile”, poteva cioè essere rimosso e sostituito con un altro, a giudizio delle famiglie e degli stessi “magistros laycos”. Tale situazione perdurò, sia pure in modo conflittuale, fino al 1620, cioè per quasi un altro secolo ancora, finché …

155. “Coram Illustrissimo et Reverendissimo Domino Cardinali Archiepiscopo Neapolitano et aliis Visitatoribus, in Casali Serini de Barra, neapolitanae dioecesis, comparuerunt Lucretia Parrilla, Mattheus Riccius et heredes quondam Nardi Jupparelli, extauritarij et compatroni ecclesiae estauritae curatae Sancti Attanasij de dicto Casali Serini de Barra, neapolitanae dioecesis...

et dicunt quod ab immemorabili tempore ipsi comparentes, et eorum antecessores, fuerunt et sunt in pacifica possessione nominandi Cappellanum dictae Ecclesiae nutu amovibilem...”.

“Et fuit dictum ut exhibeant praedicti praetendentes scripturas ad hoc, ut provideri possit de iure...”.

“Sed pro parte Regi Fisci fuit replicatum non constitisse nec constare de praetenso Iure patronatus super dicta Ecclesia parochiali sed esse ad meram collationem” [45].

Traduzione:

“Davanti all’Illustrissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Arcivescovo di Napoli (Decio Carafa) ed altri Visitatori, nel Casale Serino di Barra, della diocesi di Napoli, compaiono Lucrezia Parrilla, Matteo Riccio e gli eredi del defunto Nardo Juppariello, estauritari e con-patroni della chiesa estaurìta curata di Santo Attanasio, del detto Casale Serino di Barra, della diocesi di Napoli...

e dicono che da tempo immemorabile essi comparenti, ed i loro predecessori, furono e sono in pacifico possesso del diritto di nomina del Cappellano di detta chiesa, amovibile...”

“E fu detto che esibiscano, i predetti pretendenti, scritture ad hoc, affinché si possa provvedere secondo il diritto...”

“Ma da parte del Règio Fisco fu replicato non constare questo preteso diritto di patronato su detta chiesa parrocchiale, ma essere di mera collazione...”

156. E così anche a Barra, nel 1620, con la usuale motivazione dell’assenza di documenti scritti (vedi n.107), veniva posta la parola “fine” alla storia pluri-secolare della estaurìta contadina sorta nel periodo svevo (1194-1226).

Carlino d’argento del 1504. Clicca sull'immagine per ingrandire

La parrocchia “Ave Gratia Plena” (detta “di S. Anna”)

157. La fine dell’antica estaurìta venne ad intrecciarsi con l’inizio della fabbrica della nuova chiesa, intitolata all’Annunziata (“Ave Gratia Plena”).

158. Gli Atti di Santa Visita del card. Guglielmo Sanfelice (1878-1897), più di due secoli dopo, riportano: “Nell’archivio della parrocchia non vi sono documenti che parlano della sua fondazione; solamente una copia dell’istrumento di detta fondazione è presso il Municipio, colla data del 1° ottobre 1610, per l’istrumento rogato per notar Trinchino.

In quanto alla sua fondazione, non ci sono documenti che ci fanno conoscere da chi furono sostenute le spese per detta fabbrica, ma per tradizione verbale si dice che furono elargite dalla maggior parte del popolo di Barra e, di poi, intervenne anche il Municipio” [46].

159. In effetti, però, nel Seicento, non c’era “il Municipio” bensì “il Casale” e “la Universitas degli uomini del Casale”: “per le costituzioni di Federico II di Svevia (1220-1250), perciò sin da tempi antichissimi …” l’amministrazione locale “… si affidava ad un Sindaco e due Eletti, scelti dal popolo in così largo Parlamento che non altri erano esclusi dal votare fuorché le donne, i fanciulli, i debitori della comunità e gli infami per condanna o per mestiero. Ci si adunava in certo giorno d’estate nella piazza e si facevano le scelte per gride, avvenendo di rado che bisognasse imborsar più nomi per conoscere il preferito” [47].

160. Gli Atti di Santa Visita più vicini ai fatti, cioè quelli del card. Decio Carafa (1620), del card. Giacomo Cantelmo (1699) e del card. Giuseppe Spinelli (1741), consentono perciò di precisare che la nuova chiesa (essendo divenuta troppo piccola, per l’aumentata popolazione, la storica chiesetta di S. Atanasio) era stata voluta, fondata e costruita dall’Universitas con una deliberazione approvata dal parlamento locale nel 1610. Nella stessa deliberazione, l’Universitas si impegnava a dotare la chiesa, a stipendiare il parroco, ed a mantenere il culto del SS. Sacramento, riservando per altro a sé il gius-patronato sulla chiesa stessa e quindi il diritto di presentazione del parroco (vedi sopra, n°105).

I fondi per la costruzione provennero dalle elargizioni spontanee dei cittadini, integrate con contributi dell’erario pubblico (ricordiamo che la Varra di Serino era zona demaniale), anche se il titolo che fu dato alla chiesa (“Annunziata” ovvero “Ave Gratia Plena” ovvero A G P) era lo stesso di quello della chiesa di Napoli dalla quale l’estaurìta ed i suoi terreni dipendevano, sia pure in modo ormai del tutto nominale [48].

161. Di fatto, però, già nel 1614 la Curia arcivescovile provvide a nominare direttamente il primo parroco della nuova chiesa, che fu Don Giovanni Antonio Serubo (1614-1627), senza concordare la nomina né con gli antichi estauritari né con la Universitas ma con Bolla di conferma spedita direttamente da Roma, pur continuando l’Universitas a provvedere al pagamento del parroco, alle spese per il culto ed alla manutenzione della chiesa parrocchiale.

162. Prima di Don Giovanni Antonio Serubo, sono menzionati nei registri parrocchiali Don Giovanni Battista Riccio (1565-1594), Don Gian Domenico Montella (1597-1598) e Don Scipione Siniscalco (1598-1613), che fu presumibilmente il primo ad officiare sia nella vecchia chiesa di S. Atanasio che in quella nuova dell’Annunziata, non appena questa, ancorché non ultimata, cominciò ad essere agibile per il culto.

163. Tutti e tre, però, non erano ancora “parroci” nel senso tridentino, bensì “cappellani” nominati dagli estauritari, proprio come quel loro predecessore di nome Don Ambrogio de Riccardo [49], menzionato negli Atti di Santa Visita del Card. Francesco Carafa nel 1543.

164. I lavori per ultimare la chiesa andarono per le lunghe, quasi quanto quelli per la chiesa dei Domenicani (vedi n°173), il che è attestato anche dal fatto che il fonte battesimale (che si può vedere nella prima cappella a sinistra, entrando in chiesa) venne dedicato solo nel 1697, come è scritto nella lapide che lo sovrasta.

165. Di questo, però, e di altre vicende, si dirà nel paragrafo dedicato a “La parrocchia di S. Anna nel Seicento”.

Il convento e la chiesa dei Domenicani

166. Appena un po’ dopo i Francescani, arrivarono i Domenicani, che si insediarono però nell’altra parte del Casale, nella zona detta “di sopra le torri”.

167. Come si è detto, è certo che i Domenicani possedevano un pezzo di terra in Barra già dal 24 dicembre 1301, data del diploma di donazione da parte del re Carlo II d’Angiò [50], ma si trattava solo di una delle tante rendite feudali che servivano per il mantenimento della chiesa e del convento di S. Domenico Maggiore in Napoli.

168. L’insediamento dei frati si ebbe solo alla fine del Cinquecento, anche qui in seguito a una donazione:

“Il giorno 13 ottobre 1584, nel monastero di Napoli, presente frate Agostino de Perùsia et altri frati”, il signor Ottavio d’Aponte dona all’Ordine una casa “composta di quattro membri, due inferiori e due superiori, con cortiglio”, per potervi costruire le infrastrutture adatte alla vita del convento. Il d’Aponte chiede che i frati rimangano sempre dipendenti dal monastero di Napoli e, per sé e per i suoi discendenti in linea diretta, di poter apporre le insegne della famiglia sull’altare della costruenda chiesa e, nel giorno della Purificazione di Maria Vergine, “una torcia di cera bianca di due libbre” [51].

169. Un mese dopo, precisamente il 16 novembre 1584, si svolse la cerimonia della posa della prima pietra, alla presenza dell’allora arcivescovo di Napoli, Annibale de Capua [52].

170. I lavori veri e propri iniziarono però solo alcuni anni dopo: a partire dall’ 8 luglio 1588, si conservano i resoconti del “mastro supervisore” Fabio del Buono, che effettuava mensilmente il controllo dello stato di avanzamento dei lavori, ai fini del pagamento dei “mastri fabbricatori” Aniello Moschetto, Giulio Giordano, Giovanni Vincenzo e Nicola Nello di Leone.

171. I frati andarono ad abitare nel convento appena possibile, ma i lavori durarono ancora a lungo (la loro ultimazione è segnalata solo nell’anno 1649): evidentemente, il progetto iniziale si andò man mano ampliando, grazie alle offerte di nuovi benefattori, fra i quali sono noti in particolare Donato di Ferrante e Giovanni Alfonso Bozaotra (che donò ben 500 ducati).

172. Comunque, il 12 maggio del 1610, venne istituito il “priorato” di Barra: il primo priore si chiamava P. Callisto da Marcianise e “fu un benemerito del convento, avendolo, al tempo del suo governo, edificato quasi tutto”, con due dormitori e dodici celle.

La costruzione della chiesa

173. Ancor più per le lunghe andarono i lavori di costruzione della chiesa, i quali si protrassero addirittura per tutto il Seicento e furono ultimati solo agli inizi del Settecento.

174. Il P. Marco Maffei da Marcianise fece intervenire, per la costruzione della chiesa di Barra, fra’ Giuseppe Nuvolo (1570-1643), l’architetto domenicano di grido, famoso per il campanile della chiesa del Carmine nonché per la chiesa della Sanità in Napoli [53].

175. Successivamente, dal 1691 al 1703, l’architetto Arcangelo Guglielmelli (1650-1717) rifece completamente la chiesa: trasformò la pianta ellittica di Giuseppe Nuvolo ed espanse il complesso, come risulta da parecchi documenti relativi alla costruzione, da lui firmati nel biennio 1700-1701.

Si può qui notare che Arcangelo Guglielmelli era stato allievo e poi collaboratore di Dionisio Lazzari (1617-1689) il quale, come dice il Cozzolino, aveva una sua bella casa, con annessa cappella, all’Abbeveratoio in Barra. Sia il Lazzari che il Guglielmelli lavorarono anche per la chiesa domenicana della Sanità in Napoli; Dionisio Lazzari, in particolare, è l’artefice del grande pulpito (datato al 1678) che si vede in quella chiesa.

176. Infine, nel 1703, il cantiere fu affidato a Francesco Solimena (1657-1747), che risiedeva in Barra ed era terziario domenicano. In particolare, la facciata della chiesa è di elegante disegno settecentesco, che il Venditti [54] attribuisce a Solimena per l’analogia che egli vi riscontra con la facciata della chiesa di S. Nicola alla Carità in Napoli, opera certa del Solimena.

La dedica a S. Maria della Sanità

177. Fin dall’inizio, comunque, convento e chiesa in Barra furono dedicati a S. Maria della Sanità [55], prendendo il nome dell’altro e più grande insediamento domenicano in Napoli, istituito nel 1577 dall’arcivescovo Paolo Burali d’Arezzo [56].

178. La dedica del complesso a S. Maria della Sanità era tutt’altro che casuale o puramente devozionistica. Indicava infatti l’appartenenza del convento di Barra al movimento di “riforma” dell’Ordine domenicano che aveva il suo centro propulsivo, sul territorio diocesano, proprio nell’omonimo convento in Napoli.

179. Occorre qui dire che la situazione, nei conventi domenicani di Napoli e del regno, negli anni intorno al Concilio di Trento, era nel complesso decisamente deplorevole, stando a quanto ne riportavano gli stessi Nunzi pontifici e Visitatori apostolici.

180. Prosperavano “la vita privata, gli abusi nell’amministrazione, le irregolarità nel reclutamento e nella formazione dei giovani frati, la noncuranza per le osservanze claustrali, l’arrivismo di fronte alle cariche di prestigio, e soprattutto generale insofferenza, spirito di fazione, insubordinazione..” [57]. Addirittura, si arrivava frequentemente al delitto comune: frodi, “casi di furto, ferimenti e omicidi” [58] perpetrati dai religiosi.

181. Di fronte a tutto questo, un piccolo ma fervoroso gruppo di frati e di suore avvertiva in modo acuto l’esigenza di una riforma, tanto morale quanto organizzativa, che riportasse l’Ordine a maggiore autenticità evangelica e fedeltà allo spirito del Santo fondatore.

182. “Il cosiddetto ritorno all’osservanza primitiva comportava tutta una serie di pratiche che l’uso, nel corso del tempo, aveva messe da parte o attenuate: una liturgia corale più puntuale e fervente; una nuova presa di coscienza della vita comune (estesa quindi a tutti i momenti della giornata); una povertà personale e comunitaria che bandiva con decisione tutte le forme di vita privata in auge nei conventi non osservanti; un nuovo impulso alla vita di studio; il ripristino di alcune austerità particolarmente avversate o trascurate in altri ambienti, quali i viaggi a piedi, la mendicità giornaliera di porta in porta praticata anche dai frati più in vista per le loro cariche o il loro prestigio personale, l’esecuzione da parte di tutti dei lavori materiali della casa, etc.” [59].

183. Gli innovatori si richiamavano ad alcune esperienze positive già in atto, come il convento femminile “della Sapienza” (fondato nel 1530 da Maria Carafa e ritenuto dagli storici il più serio ed il migliore della capitale nel Cinquecento) e soprattutto alla figura carismatica di P. Paolino Bernardini da Lucca, acceso seguace del Savonarola, che nel 1573 aveva dato avvio ad una rigida riforma la quale, dal nome della regione meridionale nella quale per prima si affermò, fu detta “riforma d’Abruzzo”.

184. I Domenicani “riformati” di Napoli trovarono valido appoggio nelle autorità ecclesiastiche, che intendevano dare seria attuazione al Concilio di Trento, ed ebbero il loro centro propulsivo, come detto, nel neo-nato convento della Sanità in Napoli.

Il P. Marco Maffei da Marcianise (1542-1616)

185. Appassionato protagonista del movimento di riforma post-tridentina dei Domenicani fu proprio il citato P. Marco Maffei da Marcianise (1542-1616), che visse nel convento di Barra gli ultimi anni della sua vita ed ivi morì (la sua sepoltura si trova però nella chiesa della Sanità in Napoli).

186. Entrato nell’Ordine nel 1559 (a diciassette anni), il Maffei nel 1576 scriveva, insieme ad altri quattro compagni, una fervorosa lettera al Cardinale moderatore ed al Maestro generale dell’Ordine domenicano, nella quale sollecitava l’inizio dell’opera di riforma e chiedeva di potersi ritirare con i confratelli in un convento ove fosse possibile attuare la vita riformata:

“Noi abrugiamo di desiderio, né ci par mai di vedere quella hora santa. Vossignorìa illustrissima può et vuole, cossì il padre reverendissimo generale: perchè donque restarrà? perchè tante difficultà? perchè tante dilationi? Per amor d’Iddio, Vossignorìa illustrissima non vogli differire più; diasi questo principio a questa santa riforma!” [60].

187. In seguito all’avvio della “santa riforma”, il Maffei operò assiduamente, con la parola e con l’esempio, rivestendo anche cariche di responsabilità nell’Ordine, affinché essa si affermasse e si radicasse saldamente in tutta l’Italia meridionale.

Barra nella “riforma” Domenicana

188. Il convento di Barra apparteneva quindi a questo movimento riformatore; anzi, proprio in questo spirito venne fondato, nel 1584.

189. Quel “Frate Agostino de Perùsia”, nelle cui mani, il 13 ottobre 1584, il signor Ottavio d’Aponte effettuò la donazione all’Ordine della sua casa di Barra (vedi n°168), era appunto un convinto seguace del Bernardini, e cioè il P. Agostino Castiglione Fusco da Perugia, che dal 6 ottobre 1583 era stato posto a capo del convento di S. Maria della Sanità in Napoli.

190. In effetti, il d’Aponte “aveva promesso, per un voto fatto alla Vergine, di spendere 600 ducati nella fabbrica di una chiesa da donare ai Cappuccini. Ma costoro avevano rifiutato l’offerta, forse per il timore di non trovare, nella nuova zona, fonti di reddito sufficienti. La sorella del d’Aponte suggerì allora di passare l’offerta ai Padri domenicani del convento della Sanità di Napoli, dei quali era penitente” [61].

191. Ancora nella fase iniziale di sistemazione del convento di Barra, vi operò e vi morì (nel 1589), in concetto di santità, un fra’ Antonio Vallerano di Somma. E nel 1655 vi si ritirò, come oblato, fra Raimondo de Paola, un convertito assai famoso ai tempi suoi, che dedicò da lì innanzi la sua vita alla preghiera contemplativa, con frequenti estasi mistiche, e all’aiuto ai più poveri e bisognosi [62].

192. Se, da una parte, è quindi vero che l’insediamento di Barra, a causa della sua collocazione in luogo ameno e tranquillo, si prestava particolarmente ad accogliere frati anziani e bisognosi di cure e di riposo (lo stesso Maffei, come detto, vi trascorse gli ultimi anni della sua vita e vi morì), non si deve tuttavia pensare che esso fosse un semplice “ospizio”.

193. Si trovava, al contrario, inserito in una fervida corrente di rinnovamento culturale e morale, che era evangelicamente “segno di contraddizione” all’interno dell’Ordine e della Chiesa, e non mancò certo di suscitare le simpatie del popolo della Barra e di svolgere un benefico influsso sulla sua vita.

194. Anche i Domenicani, infatti, fondarono naturalmente in Barra una loro confraternita laicale, che venne intitolata, altrettanto naturalmente, al “Santissimo Rosario”.

195. Le Confraternite del Rosario erano, com’è noto, istituzioni tipiche dell’Ordine domenicano (un legame ribadito ufficialmente anche dal papa S. Pio V nel 1569) ed ebbero la loro massima fioritura nel periodo successivo alla famosa vittoria della flotta “cristiana” su quella “turca” nella battaglia navale di Lèpanto (7 ottobre 1571): vittoria che venne attribuita alla intercessione della Madonna, invocata appunto con la recita del rosario, e che fu anche la causa della istituzione, da parte dello stesso papa S. Pio V (1566-1572), della festa liturgica della “Beata Maria Vergine del Rosario” che si celebra tuttora il 7 ottobre.

196. Il famoso predicatore domenicano P. Ambrogio Salvio (1491-1577), che fu priore del convento di S. Pietro Martire a Napoli e poi Vescovo di Nardò, già nel 1566 aveva ricevuto da papa Pio V la facoltà di fondare il tutto il Regno congregazioni del rosario.

197. A scrivere gli statuti e i regolamenti delle Confraternite del Rosario a Napoli fu il domenicano Fra Callisto da Missanello, autore delle “Regole e costituzioni, essercitii spirituali e cerimonie da osservarsi dalle congregazioni e compagnie del Santissimo Rosario”, che furono più volte ristampate nel corso del Seicento e divennero il modello per tutte le analoghe confraternite dell’Italia meridionale [63].

198. A Ponticelli, una Confraternita del Rosario fu istituita già nel 1577, come ben documentato dal Mancini [64]. A Barra, la fondazione ufficiale della Confraternita fu posteriore di quasi un secolo: certamente [65], non prima del 1667.

Casavaleria nel Cinquecento

199. Entrando nella chiesa di S. Maria del Pozzo in Barra, sulla destra, incastonata nel pavimento, vi è una lastra tombale, che dà accesso alle sottostanti sepolture.

Sopra la lastra, sono incise le figure di due uomini, vestiti con sacco e cappuccio ed inginocchiati uno di fronte all’altro, che tengono in mano qualcosa che non si riesce a distinguere bene, forse una torcia.

200. Sotto le due figure, vi è la seguente scritta:

SEPOLTVRA

FACTA P IOANES BERNO

BORIELLO VIC COCOZA

ANTVONO VENDERVSO ET

TROIANO DE LVCA MRI DE

SS M DEL PVZO DE CASA

VALERA DE ELEMOSINE

FACTE COMONE MENTE

ANO M DLXIII

201. Consideràte le abbreviazioni (P=per; BERNO=Bernardino; VIC=Vincenzo; MRI=Magistri), la scritta si può rendere in questo modo:

SEPOLTURA

FATTA DA GIOVANNI BERNARDINO

BORRIELLO, VINCENZO COCOZZA,

ANTONIO VENERUSO E

TROIANO DE LUCA, MAGISTRI DI

S. MARIA DEL POZZO DI CASA

VALERIA, DA ELEMOSINE

FATTE COMUNE MENTE

ANNO 1563

202. Ancora nel 1563, dunque, Casavaleria era una estaurìta autonoma, con i suoi quattro “Magistri” eletti, che gestivano i fondi, raccolti presso tutto il popolo (“comune mente”), per soddisfare le esigenze della comunità (in questo caso, quella, principalissima, di una degna sepoltura).

203. Proprio di fronte, però, a questa lastra tombale (quindi, a sinistra di chi entra in chiesa), ve ne è un’altra, che reca la scritta seguente [66]:

LA VNIVERSITA DEL

VARRA DE SERINO

DONA QVESTA

PIETRA A S M D PVZZO

1 5 77

204. Questa seconda lastra tombale (14 anni dopo la prima) ci permette di concludere che, nel 1577, Casavaleria si era ormai unificata con la Varra di Serino, la cui amministrazione (“Università”) donò la pietra.

205. Dunque, nel 1577 (o poco prima), scomparve la estaurìta autonoma di Casavaleria ed i suoi quattro magistri poterono essere al più responsabili di una “confraternita”. Corrispondentemente, essi persero anche il diritto di nominare il loro cappellano e nel 1581 fu nominato un “rettore” della chiesa di S. Maria del Pozzo, di nome Don Scipione d’Avitabile [67].

206. La nomina del rettore avvenne con una Bolla spedita direttamente da Roma, evidentemente per vincere le resistenze dei magistri, che non intendevano rinunciare all’antico e, fino ad allora, incontestato diritto di scegliersi il loro prete.

207. Ne seguì, inevitabilmente, un periodo di malumori e di controversie fra il rettore e gli amministratori laici della chiesa, che si concluse in modo traumatico allor quando questi ultimi, evidentemente esasperati, diedero le loro dimissioni da ogni incarico.

208. Sicché, quando il card. Alfonso Gesualdo visitò Casavaleria nel 1599 e chiese se “dicta confraternitas sit in suo vigore, et quomodo gubernetur”, gli fu risposto (da don Scipione d’Avitabile) che “non v’è più confraternita alcuna, per causa di lite, et da loro si sono andati via, et li beni di essa so’ restati per la chiesa, delli quali se ne darà annotatione insieme con gli altri beni mobili di essa chiesa” [68].

209. L’ottimo don Scipione era dunque riuscito, senza colpo ferire, ad incamerare tutti i beni dell’antica estaurìta e ad allontanare i riottosi. Perfetto. Solo che adesso, però, a Casavaleria non vi era più alcuna organizzazione laicale, nemmeno la confraternita...

210. Ne seguì un periodo di evidente decadenza ecclesiale. La prova più tangibile di questa decadenza è data dal fatto che, mentre fino ad allora Casavaleria aveva avuto due chiese [69] aperte al culto (S. Maria del Pozzo e S. Martino), a partire dalla nomina del rettore (1581) la chiesa di S. Martino venne abbandonata, e già dagli Atti di Santa Visita del card. Gesualdo nel 1599 risulta essere in rovina:

“Tectum demolitum et parietes remanentes sunt in parte versus orientem aperti, et reliqui minantur ruinam. Etiam altare dirutum est” [70].


Cronologia dei Viceré Spagnoli di Napoli

(Nel Cinquecento)

La tomba di Ferdinando e Isabella, Cappella reale, Granada

Sotto il Regno di Ferdinando II d’Aragona “il cattolico” e di Isabella di Castiglia (1479-1516):

1503-1507 Gonzalo Fernandez de Cordoba, “il gran capitano”

1507-1509 Juan de Aragòn, conte de Ribagorza

1509-1522 Raimondo de Cardona

1510 - Mobilitazione della città di Napoli contro il tentativo del viceré di introdurre l’Inquisizione spagnola e primo bando di espulsione (parziale) degli Ebrei.

Sotto il Regno di Carlo V, imperatore (1516-1556):

1522-1527 Charles de Lannoy

1523-1525 Andrea Carafa, conte di Santa Severina

1525-1527 Giovanni Carafa, conte di Policastro

 (i due Carafa furono governatori luogo-tenenti del Lannoy)

1527-1528 Ugo de Moncada

1528-1529 Filiberto de Chalons, principe di Orange

1529-1532 Cardinale Pompeo Colonna

1532-1553 Pedro Alvarez de Toledo, marchese di Villafranca

1541 - Bando di espulsione (totale) degli Ebrei.

1547 (maggio-luglio) - Rivolta armata della città di Napoli contro il nuovo tentativo del viceré di introdurre l’Inquisizione spagnola.

1553 (gennaio-maggio) Luigi de Toledo, figlio del precedente

1553-1556 Cardinale Pedro Pacheco de Villena

1555-1556 Bernardino de Mendoza (governatore-luogotenente del card. Pacheco)

Carlo V d'Asburgo, statua di Palazzo Reale Napoli

Sotto il Regno di Filippo II (1556-1598):

1556-1558 Fernando Alvarez de Toledo, primo duca d’Alba

1558 (giugno-settembre) Juan Manrique de Lara

1558-1559 Cardinale Bartolomé de la Cueva y Toledo

1559-1571 Pedro Afàn de Ribera, duca di Alcalà

1571-1575 Cardinale Antoine Perrenot de Granvelle

1575-1579 Inigo Lopez Hurtado de Mendoza, marchese di Montejar

1579-1582 Juan de Zuniga, principe di Pietrapersia

1582-1586 Pedro Tèllez Giròn, primo duca di Osuna

1586-1595 Juan de Zuniga, conte di Miranda

1595-1599 Enrico de Guzmàn, conte di Olivares


Cronologia degli Arcivescovi di Napoli Nel ‘500

(a partire dal 1415)

1415 Fine del “grande scisma” d’Occidente

1415-1435 Nicola II de Diano

1438-1451 Gaspare de Diano

1451-1457 Card. Rinaldo Piscicelli

1457-1458 Giacomo Teobaldeschi

1458-1484  Card. Oliviero I Carafa (1430-1511); creato cardinale dal papa Paolo II nel 1467, su richiesta del Re di Napoli Ferrante I d’Aragona; nel 1480 vengono ritrovate nell’abbazia di Montevergine le ossa di S. Gennaro, ivi portate dal Re Guglielmo I d’Altavilla nel 1154 ed inizia una lunga disputa con i monaci per ottenere il ritorno a Napoli delle reliquie.

1484-1503 Alessandro Carafa; fratello del precedente, il 13 gennaio 1497 riporta trionfalmente a Napoli le ossa di S. Gennaro: esse vengono riposte nella cappella realizzata sotto l’altare maggiore della cattedrale (il cosiddetto “Succorpo”), su commissione della famiglia Carafa; nella cappella si vede anche la statua a grandezza naturale del Card. Oliviero I Carafa.

1503-1505 Card. Oliviero I Carafa (in qualità di amministratore apostolico)

1505-1530 Card. Gian Vincenzo Carafa (1477-1541); creato cardinale dal papa Clemente VII nel 1527).

1530-1544 Francesco Carafa, nipote del precedente.

1544-1549 Card. Ranuccio Farnese (1530-1565); creato cardinale dal papa Paolo III nel 1545, all’età di 15 anni).

1549-1555 Card. Gian Pietro Carafa (1476-1559); arcivescovo di Chieti; nel 1524, insieme a S. Gaetano da Thiene, fonda l’Ordine dei Teatini; creato cardinale dal papa Paolo III nel 1536; eletto papa nel 1555 con il nome di Paolo IV).

1557-1565 Card. Alfonso Carafa (1540-1565); pro-nipote del precedente e da lui creato cardinale nel 1557 all’età di 17 anni; fu detenuto in Castel S. Angelo dal 7 giugno 1560 al 2 aprile 1561, per accuse poi rivelatesi infondate; rientrato a Napoli, il 4 febbraio 1565 aprì il Sinodo diocesano per attuare il Concilio di Trento e morì il 29 agosto dello stesso 1565, all’età di 25 anni).

1565-1576 Mario Carafa (fondò il Seminario di Napoli nel 1568).

1576-1578 Card. Paolo Burali d’Arezzo (nato a Itri, Gaeta, nel 1511 e morto a Napoli nel 1578; Teatino dal 1557; cardinale dal 1570, per volontà di S. Pio V; proclamato Beato nel 1772, dal papa Clemente XIV)

1578-1595 Annibale di Capua

1596-1603 Card. Alfonso Gesualdo


Cronologia dei Parroci della “Ave Gratia Plena” di Barra

(a partire dal Cinquecento)

Ultimi cappellani della chiesa estaurìta di S. Atanasio:

D. Gian Battista Riccio (aprile 1565-maggio 1594)

D. Gian Domenico Montella (dicembre 1597-aprile 1598)

D. Scipione Siniscalco (ottobre 1598-dicembre 1613)

Parroci della parrocchia “Ave Gratia Plena”:

1.            Giovanni Antonio Serubo (febbraio 1614-gennaio 1627)

2.            Francesco Antonio del Pozzo (settembre 1627-aprile 1654)

3.            Vincenzo Imperato (maggio 1654-giugno 1656)

4.            Carlo Riccardo (novembre 1656-aprile 1684)

5.            Giuseppe Barbieri (giugno 1684-giugno 1687)

6.            Giuseppe Carlino (agosto 1687-gennaio 1709)

7.            Giovanni De Annunziata (luglio 1709-febbraio 1710)

8.            Donato Fragnolo (agosto 1710-marzo 1731)

9.            Nicola Montella (novembre 1731-settembre 1743)

10.         Salvatore Roselli (settembre 1743-giugno 1761)

11.         Michele Raiola (luglio 1761-settembre 1799)

12.         Cosimo Barbato (marzo 1801-dicembre 1803)

13.         Gaetano Ascione (gennaio 1806-aprile 1825)

14.         Alessandro Russo (giugno 1825-maggio 1837)

15.         Giuseppe Minichino (dicembre 1838-gennaio 1848)

16.         Giuseppe Sannino (agosto 1848-luglio 1861)

17.         Diego Mignano (luglio 1861-giugno 1882)

18.         Luigi De Micco (gennaio 1883-febbraio 1890)

19.         Luigi Perna (luglio 1890-maggio 1896)

20.         Raffaele Guida (agosto 1896-giugno 1900)

21.         Saverio Sannino (ottobre 1900-marzo 1927)

22.         Salvatore Matarese (maggio 1927-settembre 1929)

23.         Adolfo Russo (novembre 1929-novembre 1967)

24.         Vincenzo Petrone (febbraio 1968-dicembre 1988)

25.         Ciro Miniero (gennaio 1989-giugno 2011); da settembre 2011,

 Vescovo di Vallo della Lucania.

26.         Maurizio D’Alessio (settembre 2011- )


Note

[1] Gian Antonio Summonte- “Historia della città e Regno di Napoli”, 1602.

[2] Atti di Santa Visita del card. Alfonso Gesualdo, 1599, citati da N. Del Pezzo-”I casali di Napoli”, in “Napoli nobilissima” 1892.

[3] Il bel monumento funebre di Bernardino Rota si può vedere in una della cappelle laterali della chiesa di S. Domenico Maggiore in Napoli.

[4] Bernardo Tasso – “Rime”, sonetto CC XX IV.

[5] G. Doria – “Storia di una capitale”, Ed. Ricciardi, Napoli, 1975.

[6] G. C. Capaccio – “Descrizione di Napoli” in ASN, III (riportato da Benedetto Croce, op. cit.).

[7] Giulio Cesare Cortese- “Micco Passaro”, Canto V, 23. Il Cortese è il maggior poeta napoletano del Seicento. Fu protetto dal colto viceré Pedro Fernandez de Castro, secondo conte di Lemos (1610-1616), che lo costituì governatore di parecchie città demaniali. Si innamorò di una nobile dama del Granducato di Toscana, ma venne da lei disprezzato e deriso, riportandone una cocente delusione. Le sue opere, tutte di stile eroi-comico scherzoso e popolaresco, sono la “Vajasseide” (1615), dal napoletano “vajassa” (=donna plebea e volgare); “Micco Passaro” (1621); “Il viaggio di Parnaso” (1621); “Il Cerriglio incantato” (1628). E’ attribuita a lui anche “La Tiorba a taccone” (dal nome di uno strumento musicale a corda del Seicento): una raccolta di poesie, pubblicata con lo pseudonimo di Filippo Sgruttendio, nelle quali canta, in modo burlesco, il suo amore per una gran dama di nome ... Cecca.

[8] Vedi i paragrafi “La politica fiscale: suoi effetti” e “La politica fiscale: sue cause”, in “Il periodo angioino (1266-1442)”.

[9] Benedetto Croce, op. cit.

[10] Benedetto Croce, op. cit.

[11] Benedetto Croce, op. cit.

[12] Benedetto Croce, op. cit.

[13] Benedetto Croce, op. cit.

[14] Benedetto Croce, op. cit.

[15] Benedetto Croce, op. cit.

[16] I. Fuidoro-”Giornali di Napoli dal 1660 al 1680” a cura di V. Omodeo, Napoli 1939.

[17] Le estrazioni si facevano, all’inizio, solo 2-3 volte l’anno; dal 1737 salirono a 9 e poi a 18 volte l’anno; dal 1806 si cominciò ad estrarre 2 volte al mese; infine, nel 1817 fu introdotta l’estrazione settimanale al sabato.

[18] Giuseppe Ceci - “Il giuoco a Napoli”- Napoli, 1897.

[19] Vedi il paragrafo su “La peste nera (1347-1350)” in “Il periodo Angioino (1266-1442)”.

[20] Nella toponomastica napoletana, in memoria di quell’assedio, rimangono tuttora la Cupa Lautrec (lungo il cimitero di S. Maria del Pianto, a Poggioreale) e la Via Ponte dei Francesi.

[21] Gennaro Aspreno Galante - “Guida sacra della città di Napoli”- Napoli, 1872.

[22] F. Alvino- “Viaggio da Napoli a Castellammare”- Napoli, 1845.

(23) Giulio Cesare Cortese, op. cit.

(24) Vedi il paragrafo “L’uso nobile del territorio-La villa del Poggio reale”, in “Il periodo aragonese (1443-1501)”.

(25) N. Nocerino- “La Real Villa di Portici”- Napoli, 1787.

[23] Giulio Cesare Cortese, op. cit.

[24] Vedi il paragrafo “L’uso nobile del territorio-La villa del Poggio reale”, in “Il periodo aragonese (1443-1501)”.

[25] N. Nocerino- “La Real Villa di Portici”- Napoli, 1787.

[26] Vedi il paragrafo “Foris flubeum-Territorio plagiense” in “Il periodo del ducato (661-1140)”. Per una trattazione più sistematica delle vicende del famoso ponte, si veda: Ludovico de la Ville sur-Yllon- “Il ponte della Maddalena” in “Napoli nobilissima”, 1898, VII.

[27] Celano-Chiarini “Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli”- Napoli, 1860, V.

[28] Summonte, op. cit.

[29] Summonte, op. cit.

[30] Summonte, op. cit.

[31] Vedi il paragrafo “La villa di Gaspare Roomer” in “La Barra nel Seicento”.

[32] Vedi il relativo allegato.

[33] E’ andato purtroppo smarrito il volume relativo alla Santa Visita del card. Annibale di Capua (1580).

[34] Si trovavano, cioè, nella condizione descritta nei paragrafi “Le estaurìte” e “Considerazioni sulle estaurìte” in “Il periodo svevo (1194-1266)”, con gli sviluppi descritti nel paragrafo “L’estaurìta di Sirinum viene data in feudo - La contesa” de “Il periodo angioino (1266-1442)” e nel paragrafo “Documenti e dati” de “Il periodo aragonese (1443-1501)”.

[35] G. Alagi- “Le chiese parrocchiali della zona vesuviana nel secolo XVI” in “Asprenas”-anno VII (1960)- pag.38 sqq.

[36] La raccolta fu commissionata nel 1616 dal viceré Pedro Fernandez de Castro, secondo conte di Lemos (1610-1616), ed eseguita dal giureconsulto Bartolomeo Chioccarelli. L’opera è costituita di ben 18 volumi, più un 19° che costituisce l’indice di tutta la raccolta. Il tema delle estaurite è trattato nel volume 15°.

[37] G. Alagi, op. cit.

[38] Con la “riscoperta” della centralità della Bibbia (Dei Verbum); della ecclesiologia di comunione (Lumen gentium); dell’atteggiamento non pregiudizialmente polemico, ma di dialogo, della Chiesa cattolica nei confronti del mondo e delle altre religioni e confessioni cristiane (Gaudium et spes); di una liturgia partecipata e non semplicemente “fruita” dai fedeli (Sacrosanctum Concilium).

[39] Carla Russo – “Chiesa e comunità nella Diocesi di Napoli tra Cinque e Settecento”, Ed. Guida, Napoli, 1984.

[40] Il primo bando di espulsione degli ebrei vi fu nel 1510. La maggior parte di essi dovette andarsene e rimasero in città solo quelle 200 famiglie che poterono versare un tributo supplementare di 300 ducati l’anno, poi salito nel 1535 a ben 10.000 ducati l’anno. Infine, nel 1541, don Pedro de Toledo sancì l’espulsione per tutti gli ebrei, anche i più ricchi, dalla città e dal regno.

[41] Concilio di Trento, XXII sessione, 3-4-dicembre 1563. Da notare che il documento del Concilio aggiunge anche, poche righe oltre: “Ma tutto quello che serve alla curiosità o ha l’aspetto di una superstizione o di un guadagno vituperevole, dev’essere vietato come motivo di scandalo per i fedeli”.

[42] Il popolo ne dedusse subito, più o meno giustamente, il proverbio: “Senza denàre nun se càntano Messe” (Senza denaro non si celebrano Messe).

[43] Carla Russo, op. cit.

[44] (44) Vedi il paragrafo “La contésa” in “Il periodo Angioino (1266-1442)”.

[45] Atti Santa Visita Card. Decio Carafa (1620).

[46] Atti di Santa Visita Card. Guglielmo Sanfelice (1878-1897).

[47] Pietro Colletta – “Storia del reame di Napoli”, 1825.

[48] Vedi il paragrafo “L’estaurita di Sirinum viene data in feudo” in “Il periodo Angioino (1266-1442)”.

[49] Vedi il paragrafo “La contésa” nel capitolo dedicato a “Il periodo Angioino (1266-1442)”. Può essere interessante notare che, nel 1565 (dunque, 22 anni dopo), ritroviamo lo stesso Ambrogio de Riccardo, che era cappellano in Barra nel 1543, come “parrocchiano della Villa de Pontecello intitolato S. Maria della Neve”. E’ lui, infatti, che inaugura il primo libro dei battezzati esistente in quella parrocchia, il quale inizia con queste parole: “Laus Deo et gloriosae beatae Mariae semper virgini. A dì p.° Novembre 1565. Io, Don Ambrosio de Licardo, Parrocchiano della Villa de Pontecello intitolato S. Maria della Neve, con la presente faccio fede haver baptizatj li suscritti, secondo comandato da sacrosanta Romana Madre ecclesia...”

[50] Vedi i paragrafi “Documenti e dati” e “I domenicani” in “Il periodo angioino (1266-1442)”.

[51] Vedi: Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, fasc. 5301-5302; 5306; 5322-5723.

[52] G. Alagi – “S. Giorgio a Cremano: vicende e luoghi”, S. Giorgio a Cremano, 1981.

[53] M. Miele- “Fra’ Nuvolo e fra’ Azaria. Nuovi dati biografici sui due artisti napoletani del Cinque-Seicento”, in “Archivium Fratrum Praedicatorum” 56 (1986), pp.170-205.

[54] A. Venditti - R. Pane - G. Alisio - P. Di Monda - L. Santoro - “Ville vesuviane del Settecento” - ESI - Napoli, 1959.

[55] A tutt’oggi, in una cappella laterale della chiesa dei Domenicani in Barra, si custodisce il bel quadro della Madonna della Sanità.

[56] Vedi “Napoli sacra”, 14° itinerario, Ed. Elio De Rosa, Napoli, 1996.

[57] Michele Miele -”Marco Maffei da Marcianise e la riforma domenicana a Napoli”, in “Campania sacra” n°18/1, 1987, pp. 78-93.

[58] Michele Miele, op. cit.

[59] Michele Miele, op. cit.

[60] Michele Miele, op. cit.

[61] Carla Russo, op. cit.

[62] Carla Russo, op. cit.

[63] Carla Russo, op. cit.

[64] Giorgio Mancini - “La confraternita del SS. Rosario in Ponticelli”, Napoli 1992. Vedi anche L. G. Esposito - “Le confraternite del Rosario in Campania nell’età moderna” in Campania Sacra 19/1, 1988.

[65] Carla Russo, op. cit.

[66] Circa questa scritta, il P. Alagi annota giustamente: “Il lapicìda doveva essere molto rozzo e imprevidente. L’ultima sillaba del primo rigo è saltata via (è scritto, infatti, DEL invece di DELLA), forse perché erano state prese male le misure e si dovette tagliare una parte della pietra, riuscita troppo larga. Al secondo rigo, il povero scalpellino aveva dimenticato la desinenza di VARRA e aveva scritto VARR DE SERINO; accortosi poi dell’errore, aggiunse la A finale di VARRA nella pancia della D seguente” (Giovanni Alagi-”Ricerche su Casavaleria, antico Casale dell’agro vesuviano” in “Asprenas, anno X, n°4, 1963).

[67] Giovanni Alagi-”Ricerche su Casavaleria, antico Casale dell’agro vesuviano” in “Asprenas, anno X, n°4, 1963.

[68] G. Alagi, op. cit.

[69] G. Alagi, op. cit.

[70] G. Alagi, op. cit.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, settembre 2016

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