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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

10.1 Il Periodo Borbonico (1734-1790)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

L’indipendenza

1. Nel 1734, dopo più di due secoli di dipendenza da altre nazioni, Napoli ridiventò un regno autonomo e tale rimase fino all’annessione al regno d’Italia, avvenuta nel 1860.

2. L’indipendenza, per la verità, non fu una conquista dei Napoletani, ma solo una delle conseguenze delle cosiddette “guerre di successione”, cioè delle guerre (e relative trattative diplomatiche) attraverso le quali le varie dinastie aristocratiche e case regnanti si contendevano l’Europa.

3. In particolare, in seguito alla guerra di successione polacca, l’abile ed ambiziosa Elisabetta Farnese riuscì ad ottenere che il regno di Napoli venisse assegnato a Carlo di Borbone, figlio suo e di Filippo V, re di Spagna, che l’aveva sposata in seconde nozze. Iniziava così la dinastia dei Borbone di Napoli, il cui primo e migliore esponente fu proprio Carlo, in età di soli 18 anni quando ascese al trono.

Carlo III di Borbone

4. “Aveva per natura cuor buono, senno maggiore dell’età, sentimento di giustizia e di carità verso i soggetti, temperanza, desiderio di grandezza, cortesia nei discorsi: piacevole di viso, robusto e grande di persona, inclinato agli esercizi di forza ed alle arti della milizia” [1].

“I prìncipi rappresentano spesso il secolo che in essi si personifica. E Carlo III, con arte dolce non astuta e col senno dei migliori, governò. Guadagnò i nobili con gli onori, le classi civili colle riforme, il popolo col lavoro ed i commerci. Ed ai guadagni del popolo Carlo III volgeva il lusso dell’aristocrazia...

Nessuno osò negare la grandezza del suo regno. Il popolo, che ama spesso i vizi dei prìncipi, ne rispetta sempre le virtù. E perciò Carlo III è rimasto sempre grande nella fama de’ posteri” [2].

L’epoca delle riforme (1734-1790)

5. Gli anni di Carlo III di Borbone (1734-1759) e quelli della prima parte del regno di suo figlio Ferdinando IV (fin circa il 1790), furono per Napoli l’epoca classica dell’ assolutismo illuminato: l’asse del potere era costituito dall’alleanza fra il potere indiscusso ed indiscutibile del monarca e la parte più attiva e colta dell’ aristocrazia, del clero e della ascendente borghesia, che dibatteva e promuoveva le idee nuove, di riforma intellettuale e sociale, provenienti soprattutto dalla Francia.

6. Mediatore ed interprete politico di questa alleanza fu soprattutto il celebre ministro Bernardo Tanucci (Stia di Arezzo, 1698 – S. Giorgio a Cremano, 1783) che ascese con Carlo ai massimi gradi del potere ed a lungo vi rimase, come presidente del consiglio di reggenza nel periodo della minore età di Ferdinando (1759-1767), e poi ancora dopo, finchè non ne venne allontanato nel 1776, ad opera soprattutto di Maria Carolina d’Austria (1752-1814), sposata da Ferdinando nel 1768 e, da quel momento, sempre più arbitra delle sorti del regno.

Un periodo di progresso nazionale

7. In quest’epoca, scrive il Croce, “i dotti erano consultati ed adoperati: al Genovesi [3] si diè l’incarico di proporre le scuole da fondare o da riformare dopo l’espulsione dei Gesuiti e l’incameramento dei loro beni [4]; al Pagano [5] si chiesero lumi per la riforma dei processi criminali; il Galanti [6] venne inviato a studiare la condizione delle provincie e a proporre i modi da tenere per riordinarle nella giustizia e nell’economia… Il Filangieri [7] sentiva che la sua opera di studioso sarebbe stata feconda di effetti pratici: La gloria dell’uomo che scrive (così nell’introduzione del suo libro) è di preparare i materiali utili a coloro che governano...

8. Era un periodo di progresso nazionale e ciò tutti riconoscevano... Come dappertutto allora in Europa, nel ripensare il passato e nel vedere i miracoli della cultura e delle illuminate monarchie, il petto si allargava a un respiro di soddisfazione e di fiducia. Anche tra i forestieri, che in gran numero venivano a Napoli per viaggi d’istruzione e di curiosità e scrivevano libri per riferire e commentare ciò che avevano veduto, i più seri concorrevano nello stesso giudizio.

9. Non già che rimanessero nascosti i mali, che erano grandi e si mostravano soprattutto a coloro che, come lo Swinburne, vollero visitare le provincie; e la plebe e il lazzaronismo di Napoli, divenuti di fama mondiale, salirono quasi agli onori della leggenda.

10. Ma alla miseria, alla ignoranza, alla barbarie... non facevano solo compenso la bellezza della città e del golfo, i ricordi classici (riapparvero allora, agli occhi meravigliati del mondo, le dissepolte città di Pompei ed Ercolano), la magnificenza della corte e della nobiltà, e quello che si considerava come le triomphe des napolitaines, cioè la musica...

11. Quei viaggiatori trovavano qui uomini studiosi e dotti e gente coltissima, coi quali conversavano e s’intendevano; avvertivano l’affetto dei popoli per la monarchia ad essi benefica; vedevano che si era occupati intorno ai modi di migliorare l’agricoltura, aprire le comunicazioni, difendere le coste con una vera marina, dare forza alle leggi ed introdurre in questo bel paese l’abbondanza e la prosperità...” [8].

Il “miglio d’oro”

12. In questo contesto, dunque, nacque il famoso “miglio d’oro” delle ville vesuviane: più di 100 dimore aristocratiche [9], dotate di splendidi parchi e discese sulla spiaggia, luoghi di residenza o di sola villeggiatura per le più nobili famiglie del Regno.

Le ville erano poste tra il Vesuvio ed il mare, nel tratto della litoranea “strada delle Calabrie” compreso fra S.Giovanni a Teduccio e la Torre del Greco, avendo come baricentro la reggia di Portici fatta costruire da Carlo III.

La fondazione della règgia di Portici

13. Le circostanze, infatti, della fondazione della reggia di Portici, riportate da vari autori, furono le seguenti.

Nell’anno 1738, Carlo III di Borbone contrasse matrimonio con Maria Amalia Walburga di Sassonia, figlia del re di Polonia: “giovinetta che non compiva 15 anni, modesta e di costumi pura e devota” [10]. Fu questo uno dei rari casi nei quali un matrimonio combinato per ragioni di stato, come allora sempre avveniva nelle case regnanti, si rivelò anche di felice armonia tra i due diretti interessati. “Rallegrava i due sposi gioventù di entrambi, regno felice, cuor pio, sacro nodo, piaceri vicini ed innocenti” [11].

14. Un giorno di maggio dello stesso anno 1738, tornavano insieme da Castellammare, dove avevano assistito alla pesca dei tonni, per la via di terra, e...

“Alla regina parvero così belle le campagne, le quali specialmente sull’avvicinarsi a Napoli le si dispiegavano agli occhi, e l’aria la quale vi si respirava per cotal maniera soave, che non si potendo più contenere: Oh che bell’aria! – disse - oh che bei siti! qui ci dovrebbe essere una villa, qui ci dovrebbe essere una villa!

Anche al re cominciò a parerne così, tanto maggiormente che quivi presso doveva trovarsi buona caccia e buona pesca, delle quali due cose egli si dilettava moltissimo” [12].

15. “Il re, la sera, raccontò ai cavalieri gli avvenimenti del giorno, l’andata per mare, il ritorno per terra, e l’aver veduto dei bei casini alla Torre della Nunziata e del Greco, ed a Portici; e domandò al medico Buonocore se quelli erano luoghi di buona aria.

Costui gli rispose di sì, e che infatti il principe di Elbeuf si aveva fatto, vicino ai Padri Alcantarini al Granatello, quel bel palazzo che poi passò in potere di Carlo e fu convertito in peschiera.

Se non che, vi fu chi fece riflettere al Vesuvio vicino ed al danno che aveva fatto alle città sepolte ed a quello che faceva di volta in volta con le sue strepitose eruzioni. Ma a questo - rispose il re - Iddio, Maria Immacolata e S.Gennaro ci penseranno. Allora la regina: Dunque, resta risoluto? Ed il re, pieno di buona grazia: Risolutissimo [13].

E così avvenne che la Barra…

16. “Questo esempio di Carlo, avvalorato dalla fiducia posta da lui nella protezione del cielo, mosse parecchi ad imitarlo. E così avvenne che la Barra, e più che la Barra, Resina, Portici, Cremano e S.Giorgio, cominciarono a popolarsi di nobili casini, ed abitarsi da molti, anche di altissimo grado, i quali presero a venire da queste parti per starvi a diporto, e taluni anche a domicilio, piuttosto che andare altrove, come usavano prima” [14].

La vita dei nobili: il lusso e gli sprechi

17. La vita che i nobili conducevano in queste ville era in generale, come può immaginarsi, una vita di ozio e di lusso, di ricevimenti e feste, di sprechi e di ostentazioni ...

18. “Il nobile di corte” osservava Gaetano Filangieri “non sa vivere senza essere riscaldato dai raggi del trono. Quest’astro, che lo oscura, che lo tormenta, che lo degrada, è l’unico oggetto della sua vile ambizione. Per essergli vicino, egli trascura i suoi interessi, egli mantiene uno stuolo prodigioso d’oziosi che servono più al suo fasto che al suo comodo, egli consuma le sue rendite e quelle della sua posterità...”.

19. Così, ad esempio, di Teresa Lembi, moglie del principe D. Tommaso di Caramanico che aveva villa in S. Giorgio a Cremano, si racconta che spendeva così pazzamente che in una sola notte giunse a giocarsi più delle sue rendite di un anno, vale a dire 80 mila ducati!

Il giorno dopo, il principe suo marito le mostrò un gran mucchio di sacchi sopra una tavola, pieni di monete d’argento; richiesto dalla principessa di cosa fossero, le rispose che voleva solo farle vedere gli 80 mila ducati da lei giocati poche ore prima!

E’ ben vero, però, che “la lezione dei sacchi, dàtale dal principe, scosse fortemente la principessa, la quale, quinci a qualche tempo, ammalò ed infine morì”! [15].

20. Dello stesso principe di Caramanico si racconta che si era fatto costruire una bara, che teneva gelosamente custodita nella sua villa; a chi gliene chiedeva il motivo, rispondeva che aveva dovuto pensare lui stesso a quella spesa, perchè non sapeva se sarebbe stato in grado di farla qualcuno dei suoi, dopo la sua morte!

21. Il drammaturgo Niccolò Amenta, dal canto suo, esaltò l’imponenza dei palazzi vesuviani specialmente impressionato dagli impianti igienici: acqua corrente nelle cucine e “un cesso in ogni stanza, che vi stan dei pitàli dove agiàto cacàr ti vien permesso”. “Si può capire, Amenta soffriva di dissenteria. Ma i particolari da lui registrati (pur maleodoranti) sono, per l’epoca, indici di grande agiatezza e modernità” [16].

La vita dei nobili: la cultura

22. Del resto, le ville vesuviane non erano soltanto luoghi di spreco e di ostentazione.

Nell’area vesuviana, alcune ville furono, fin dal Quattrocento, importanti sedi accademiche fra cui quella di Antonio Beccadelli detto il Panormita, ubicata presso il convento di S. Francesco in Portici [17].

Nel secolo successivo, la tradizione continuò nella villa di Bernardino Martirano, la celebre Leucopetra [18], che fu anch’essa una delle più importanti sedi accademiche, luogo di incontro di letterati, filosofi e uomini di scienza, come Scipione Capéce, Agostino Nifo e Bernardino Telèsio.

Tra fine Seicento ed inizio Settecento, il Niccolò Amenta di cui sopra non si occupava solo di “cessi” e di “pitàli”: egli racconta, fra l’altro, come fosse solito intrattenersi con il filosofo Paolo Mattia Doria in lunghe discussioni nella prestigiosa biblioteca del Palazzo Capuana, in Portici, ricca di manoscritti del Cinquecento.

23. “Infine, nel Settecento… molti giardini delle ville vesuviane appartenenti a famiglie illustri della nobiltà, furono luoghi di riunione, di ritrovo e dibattito sulle arti, le scienze, la musica...

In particolare, un tratto comune a molti esponenti della nobiltà partenopea fu l’interesse per le scienze ermetiche e per l’alchimia, e tali interessi e curiosità condizionarono fortemente la stessa progettazione di molte ville e giardini …

Alla Barra, riferimenti simbolici si ritrovano, ad esempio, nel giardino del Principe di San Nicandro, precettore di Ferdinando IV di Borbone, ove compare nella forma di alcune aiuole il tema dell’uovo filosofico riconducibile alla mònade geroglìfica di John Dee … o nel giardino annesso al palazzo del Principe di Bisignano, ove le matrici compositive denotano figure di costruzione riferibili ad opere di Giordano Bruno.

Sempre a Barra, va ricordato l’ampio giardino del palazzo dei Pignatelli di Monteleone, ove i rondò, posti nei punti di incontro della griglia dei viali, furono disposti in modo da comporre un albero sefiròtico [19].

La vita dei contadini

24. La presenza delle ville comportò anche un complessivo miglioramento delle condizioni di vita nei Casali interessati.

25. Numerosi contadini abbandonarono il duro lavoro dei campi e vennero assunti, a vario titolo, come servi nelle ville dei “signori”: meglio vestiti, meglio alloggiati e con attività comunque meno gravose, poterono così condurre una vita mediamente più agiata ed entrare in contatto con usi e mentalità, nel bene e nel male, più “civili”.

26. Analogamente, potè svilupparsi, per le esigenze di “signori” magari capricciosi ma che potevano permettersi di pagare bene, un artigianato più diffuso e meglio qualificato: si pensi solo a falegnami, sarti, “mannési” [20], maniscalchi, vetrai, muratori, decoratori, fiorai... tutto un composito mondo popolare che traeva di che vivere dalle esigenze, e dagli stessi sprechi, dei “signori”; sicchè davvero “il lusso dell’aristocrazia volgeva ai guadagni del popolo”, secondo l’espressione del Palomba.

27. Anche quei contadini, ed erano naturalmente la maggioranza, che continuarono a lavorare la terra (demaniale), disposero comunque di migliorate condizioni: la frutta e gli ortaggi, già di per sé merce pregiata, poterono ora essere venduti anche, senza bisogno di andare ogni giorno in città, ad un mercato “locale” (le mense dei “signori”), tendenzialmente abbondevole e “magnifico”.

28. La presenza di tanti nobili procurava poi anche la necessità, da parte loro, di avere un contesto complessivamente più decoroso: strade un po' più pulite ed un tantino meglio illuminate, una migliore difesa del suolo e canalizzazione delle acque piovane, il proseguimento dell’opera di bonifica delle paludi ... e tutto questo tornò ovviamente a vantaggio dell’intera popolazione.

Barra: Casale règio della città di Napoli (1797)

29. Anche Barra, quindi, inserita nel contesto del miglio d’oro, vide alquanto migliorate le proprie condizioni e raggiunse in quest’epoca la sua classica configurazione di “Casale règio”, che vediamo disegnata nella carta topografica del duca del Noja (1775) e così descritta dal Giustiniani nel suo “Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli” (1797):

30. “BARRA - Casale règio della città di Napoli, alla distanza di miglia 3 in circa, e situato in luogo piano...

L’aria che si respira in detto casale in certi tempi dell’anno è un poco umida, e talvolta i venti vi menano le cattive esalazioni delle paludi, che gli sono d’intorno a picciola distanza.

Nulladimeno, vi si veggono belle casìne, con eleganti ville di Signori napoletani, e specialmente quelle del principe di Sannicandro, del conte dell’Acerra, e di altri.

Fin dallo scorso secolo, Gaspare di Roomer, fiammingo e ricco negoziante, vi fabbricò un grande edificio, ove alloggiò poi la regina di Ungheria nel passaggio all’impero, il quale dopo la sua morte fu abitato dal principe della Roccella Caraffa ed indi dal conte di Chiaromonte Sanseverino.

Il suo territorio produce buoni frutti, e vi allignano assai bene gli agrumi. I vini, però, non han che fare con quelli di altri paesi, che si avvicinano più alle radici del Vesuvio. In que’ libri, ove trovasi notato che la Barra fa esquisiti vini e lagrime, è un errore de’ loro scrittori. Gli ortaggi sono similmente buoni.

La sua popolazione ascende a circa 5.490 individui e, oltre dell’agricoltura, non vi trovo tra essi altra degna manifattura”.

31. Dunque, alla fine del Settecento, gli elementi che più apparivano caratterizzare il Casale erano l’agricoltura (frutta e ortaggi) e le ville signorili.

Classificazione storica delle ville Barresi

32. Le ville signorili barresi possono essere classificate in tre periodi storici:

  • le ville-masseria del Seicento (villa Amalia, villa Filomena e villa Mastellone: vedi nn°13-15 de “La Barra nel Seicento);

  • le ville “di delizia”, edificate ex-novo o radicalmente ristrutturate nel Settecento (villa Roomer-Bisignano, villa de Càrdenas-Spinelli, villa Pignatelli di Monteleone, villa San Nicandro-Giulia, villa Puoti-Salvetti-Torricelli, villa De Cristofaro, villa Quaranta-Finizio);

  • le ville nobili che non compaiono nella mappa del duca di Noja e sono perciò successive al 1775 (villa Letizia e villa S. Anna all’Abbeveratoio).

A queste vanno poi aggiunte, più piccole e più numerose, le ville borghesi, quelle cioè appartenenti a famiglie benestanti ma non-nobili, edificate soprattutto nel periodo del Decennio francese (1805-1815) ed in quello successivo all’unità d’Italia (1860).

La Villa Sanseverino di Bisignano

33. Pochi anni dopo la sollevazione di Masaniello, Gaspare Roomer cedette la sua splendida villa di Barra [21] non “al principe della Roccella Caraffa”, come erroneamente dice il Giustiniani (vedi sopra, n°30) bensì alla famiglia dei marchesi d’Avalos del Vasto, in cambio di un loro palazzo costruito nel 1581 e sito in Napoli tra via Toledo e via Quercia [22]. Così, nel 1692, il Celano menziona il palazzo “del fu Gaspare Roomer, fiammingo, ora posseduto dal marchese del Vasto, per commutazione fatta della sua casa, come si disse: questo non ha che desiderare, sì nella magnificenza delle statue come nella amenità de’ giardini” [23].

34. Successivamente (ma certo prima del 1709, secondo l’indicazione del Parrino) la villa passò a Girolamo Pignatelli (1641-1701), I prìncipe di Màrsico Nuovo [24].

A conferma di ciò, dai Registri parrocchiali di Barra si desume che il 29 maggio 1706 vi si celebrarono fastosamente le nozze tra la figlia primogenita di questi, Ippolita Pignatelli, e Francesco Spinelli (1681-1752) VII prìncipe di Scalèa.

35. Infine, con documento datato 1 maggio 1765, Girolamo Pignatelli (1721-1777), III prìncipe di Marsico Nuovo e I prìncipe di Moliterno, e il suo figlio ed erede Giovanni Battista (1740-1805), in cambio delle rendite di vari “arrendamenti”, cedettero l’edificio di Barra alla famiglia dei Sanseverino, e precisamente a Pietro Antonio II Sanseverino (1724-1772), conte di Chiaromonte e XI principe di Bisignano [25], ed a sua moglie Aurelia Caracciolo dei principi di Terranova.

36. L’acquisto della villa da parte di Pietro Antonio Sanseverino, conte di Chiaromonte nonché principe di Bisignano, è ricordato (oltre che dal grande stemma della famiglia Sanseverino di Bisignano, che è tuttora visibile sopra il portone d’ingresso) anche nella lapide che si trova ancora adesso nell’atrio della villa, a sinistra di chi entra, e che reca la scritta [26]:

AEDEM VETUSTATE CORRUPTAM

PROXIMIQUE VESEVI FURORIBUS

SAEPIUS LABEFACTATAM

QUAM SIBI POSTERISQUE SUIS EMIT

SAECULO XVIII VERTENTE

PETRUS ANT. SANSEVERINUS

CLAROMONTIS COMES

ALOISIUS SANSEVERINUS

BISINIANENSIUM PRINCEPS

PRISCO ARTIUM NITORI

RESTITUENDAM CURAVIT

A. M DCCC LXX VI

CAJETANO DE HENRICO

OPERIS REGUNDI PRAEFECTO

Traduzione:

LA CASA, ROVINATA DAL TEMPO

E DAI FURORI DEL VICINO VESUVIO

PIU’ VOLTE DISTRUTTA,

CHE PER SE’ E PER I PROPRI DISCENDENTI ACQUISTO’,

NEL CORSO DEL 18° SECOLO,

PIETRO ANTONIO SANSEVERINO

CONTE DI CHIAROMONTE,

LUIGI SANSEVERINO

PRINCIPE DI BISIGNANO

ALL’ ANTICO ARTISTICO SPLENDORE

CURO’ CHE RITORNASSE

NELL’ANNO 1876,

GAETANO DE ENRICO

ESSENDO DIRETTORE DEI LAVORI

37. La lapide, come si nota, fu apposta solo nel 1876 (quindi, dopo l’unità d’Italia), quando, evidentemente in occasione del primo centenario della conclusione dei lavori di restauro eseguiti dai Sanseverino nel periodo 1765-1776, venne effettuato un nuovo restauro, per volontà di Luigi III Sanseverino (1823-1888), XV ed ultimo principe di Bisignano, ed a cura di Gaetano De Enrico.

Assonometria del palazzo Bisignano (a cura di M. Liaci)

38. In effetti, quel 1°maggio 1765, i Sanseverino ricevettero la villa in condizioni parecchio dissestate, ma la riportarono in poco tempo all’antico splendore, adeguandola alle nuove esigenze di “villa di delizia” per una delle più cospicue famiglie del regno, quali essi erano.

39. “Nel giardino più che nel palazzo, si scorge il danaro profuso dall’eccellentissima famiglia di Bisignano per il miglioramento di una proprietà tanto cospicua, destinata unicamente al diporto di nobili personaggi. Templi, colonnati, fontane, grotte, sedili di marmo, piante botaniche di ogni specie, frutti scelti... per una prospera vegetazione... il tutto immaginato e distribuito con proprietà e doviziosità” [27].

40. In particolare, i Sanseverino di Bisignano trasformarono il giardino, già esistente, in un vero e proprio “Orto botanico”, secondo quella nuova sensibilità “scientifica” che si andava diffondendo, col pensiero illuminista, nella parte più colta dell’aristocrazia napoletana.

L’orto botanico del principe di Bisignano alla Barra

41. Al principio del Settecento, esisteva in Napoli un piccolo Orto botanico privato, che trae la sua fama ed importanza dal nome illustre di Domenico Cirillo (1739-1799), lo scienziato e patriota napoletano che partecipò alla vicenda della Repubblica napoletana del 1799 e fu condannato a morte nella successiva repressione borbonica.

42. Questo Orto era situato nel giardino di casa Cirillo, in località Ponte Nuovo, ed era stato costruito e pre-ordinato dallo zio di Domenico, Nicola Cirillo (1671-1734), professore di fisica e medicina nell’Università di Napoli, che teneva corrispondenza col celebre Micheli ed aveva quindi buone cognizioni botaniche.

Fu proprio in quest’Orto che Domenico Cirillo fu educato e istruito, dallo zio, alla conoscenza e all’amore delle piante. Avendo trovato l’Orto ordinato secondo il metodo Tournefort, egli lo ricompose secondo quello di Linneo, lo arricchì di specie indigene ed esotiche e ne fece strumento di ricerca per sé e per i suoi numerosi collaboratori. L’Orto cirilliano andò purtroppo disperso in seguito ai turbinosi avvenimenti del 1799 e alla morte dello stesso Domenico Cirillo.

43. “Saliva intanto in fama il giardino che prima il conte di Chiaromonte e poi il figlio di lui, principe di Bisignano, piantar facevano nella loro villa di Barra” [28]. Barra ebbe quindi un Orto botanico ben prima che venisse fondato quello di Napoli [29].

44. In effetti, fu nell’Orto di Barra che fece le prime osservazioni e la prima esperienza botanica Vincenzo Petagna (1734-1810), successore di Cirillo nel 1779 alla cattedra di botanica dell’Università di Napoli. Grato ai Sanseverino dell’ospitalità, egli dedicò a loro il genere Sanseverinia, che poi venne mutato da Willdenow nel più noto genere Sanseviera.

45. Vincenzo Petagna fu quindi il primo direttore dell’ ”Orto del Principe di Bisignano alla Barra” e se ne occupò in permanenza, anche perchè era “medico ordinario” di quel Casato, cosicchè l’istituzione “acquistò forma di scientifico stabilimento” [30].

46. Successivi direttori dell’Orto di Barra furono il celebre Michele Tenore (1780-1861), allievo del Petagna, che da giovane “ne pose a stampa due copiosi cataloghi” (nel 1805 e nel 1809), e quindi il Gussone [31].

47. Nel frattempo (aprile 1783) il principe Luigi II, figlio di quel Pietro Antonio II Sanseverino che aveva acquistato la villa, trovandosi in malfermo stato di salute, fece cessione dei feudi e dei titoli dei Bisignano al fratello minore Tommaso, venendo poi a morte il 1° ottobre del 1789, all’età di soli 31 anni.

Il garofano di Bisignano

48. Tommaso Sanseverino (1759-1814) fu dunque il XIII principe di Bisignano; egli si rese benemerito della cultura ed in particolare di quella scientifica. Mentre suo padre e suo fratello erano stati solo dei colti mecenàti, egli, a contatto con il Petagna e con il giovane Michele Tenore, divenne un vero e proprio studioso di botanica: arricchì il suo giardino di Barra con piante importate da ogni dove e creò personalmente una nuova varietà di garofano (color rosso chiaro, con stelo e foglie èsili) che da lui prese il nome di garofano di Bisignano.

49. Il principe Tommaso perdette i suoi feudi nel 1806, in seguito alla legge di abolizione della feudalità emanata, nel decennio francese (1805-1815), proprio da quello stesso re Giuseppe Bonaparte che, nel 1807, iniziò la costruzione dell’Orto botanico di Napoli. Gli rimasero, naturalmente, tutti i titoli nobiliari, oltre che una cospicua fortuna come “libero proprietario” di terre e di altri beni mobili ed immobili. Fu anche Consigliere di Stato, Gran Cancelliere dell’Ordine Reale delle due Sicilie nonché socio onorario della Reale Accademia di Storia e di Belle Lettere.

La lenta decadenza

50. Con la sua morte (23 settembre 1814) e la quasi contemporanea apertura dell’Orto botanico napoletano (1817), iniziò la lenta decadenza del giardino della Villa Bisignano in Barra, anche se, ereditato da Pietro Antonio III (1790-1865), XIV principe della casàta, esso rimase molto famoso per tutto l’Ottocento e, fino ad alcuni decenni fa, ancora ne durava il ricordo.

51. Dopo la catalogazione fàttane da Michele Tenore nel 1805 e nel 1809, un completo elenco di tutte le piantagioni in esso contenute fu rifatto dopo l’unità d’Italia, nel 1863, in un “Inventario delle piante coltivate nell’Orto botanico”, oggi custodito presso l’Archivio di Stato di Napoli [32].

Cenni descrittivi della Villa Sanseverino di Bisignano

52. Teresa Colletta sottolinea l’importanza della villa del Roomer “quale testimonianza di architettura civile sub-urbana del primo Seicento”, di tipo intermedio tra il grande modello rinascimentale (di cui Napoli vantava esempi famosi, come le ville Aragonesi di Poggioreale e della Duchesca) e le “ville di delizia” vesuviane settecentesche.

53. La pianta del palazzo è ad U. Esso è chiuso sul fronte strada del Corso Sirena (sul quale domina “con la sua rossa mole e la svettante torre”) e con in-interrotto muro (che cingeva anche il giardino retrostante) lungo la attuale via Villa Bisignano, ma aperto all’interno in un ampio cortile porticato con tre arcate, collegato al giardino retrostante mediante un altro lungo portico con sette grandi arcate.

Villa Bisignano nella pianta del duca di Noia

54. Sul portico, come sulle ali laterali del cortile, con grande effetto scenografico, corre una vasta terrazza, arricchita da una preziosa balaustra con pilastrini in piperno finemente scolpiti di gusto “fiammingo”, fra i quali quello raffigurante l’aquila bicipite degli Asburgo, realizzato in occasione della visita (dall’8 agosto al 19 dicembre 1630) di Donna Maria Anna d’Austria, sorella del re di Spagna Filippo IV, che andava sposa al re d’Ungheria. Dalla terrazza si coglieva la veduta del Vesuvio (in asse con il viale centrale del giardino), della verde campagna circostante e, nei giorni di cielo limpido, anche del mare.

55. E’ da notare che, prima della sopra-elevazione settecentesca, la parte centrale della facciata (lungo il Corso Sirena) era costituita solo dal piano terra, destinato ai servizi, e dal piano nobile, con una “grande galleria” (che comprendeva tutta la parte centrale del piano nobile) e una “loggia coverta”, con tre mirabili archi tuttora visibili.

La pecularietà dell’edificio consisteva proprio nell’evidenziare tale parte centrale, coperta a tetto all’altezza del piano nobile: solo i corpi laterali presentavano un secondo piano. Tale originalità andò purtroppo perduta con la ristrutturazione operata dai Sanseverino di Bisignano nel Settecento.

56. I Sanseverino, nell’operare la trasformazione del giardino in Orto botanico, aggiunsero anche un edificio “per le stufe delle piante” che, con una magnifica facciata comprendente anche un grande orologio, faceva da confine tra il giardino e la masseria retrostante. Questo edificio è andato purtroppo completamente distrutto e si può vedere solo nei disegni conservati nell’Archivio privato dei Sanseverino di Bisignano, riportati da Teresa Colletta nel suo articolo.

Fabbricato per le stufe delle piante

57. La “grande galleria” del piano nobile era riccamente ornata e affrescata con scene bibliche (“Storie di Mosè”), opera del pittore napoletano Aniello Falcone (1607-1656), che era in effetti grande amico (e fornitore) di Gaspare Roomer il quale, secondo la testimonianza del De Dominici, “prendeva tanto diletto delle opere e del conversare faceto e bizzarro di Aniello, che spesso lo andava a ritrovare in casa, e quando trovava ivi un dipinto di suo genio, lo comperava, benché fatto di altrui commissione”.

58. La galleria comprendeva certamente molti dipinti, raccolti dal Roomer e poi dai Sanseverino di Bisignano: si ha testimonianza sicura, riportata da Teresa Colletta, di “un gran quadro di storie, dipinto ad olio di buona maniera dal nostro Cestari [33], la cui altezza è frammezzata da due cornicioni dorati”.

59. Lo storico di Barra Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889, accenna anche ad una “cappella gentilizia” istoriata dal “parmigiano Lanfranco [34].

60. La merlatura traforata della torre, di stile neo-medioevale, risale invece con ogni probabilità al restauro compiuto nel 1876.

L’ombra di Giordano Bruno sul palazzo?

61. L’architetto Filippo Barbera, nel suo bel volume citato in nota 19, parla dell’ombra di Bruno nel progetto del palazzo, scrivendo: “Da una attenta analisi, ho riscontrato che il rettangolo del palazzo, comprensivo di edificio e portico, viene ricavato da una fonte iconografica riconducibile ad alcuni schemi geometrici disegnati da Giordano Bruno (1548-1600).

62. E precisamente, il palazzo fu disegnato assumendo come riferimento la celebre Tavola XIX pubblicata da Giordano Bruno negli Articuli centum et sexaginta ove si rappresenta un quadrato, ripartito in moduli quadrati più piccoli, che risulta racchiuso in un rettangolo avente lato minore uguale a quello del quadrato. Lo stesso disegno fu pubblicato da Bruno anche sulla Tavola XXXII del De triplici minimo et mensura.

Il Fondamentum di Giordano Bruno

63. Si tratta del frazionamento verso il minimo di un quadrato, in ragione dei triangoli in cui è scomponibile. L’immagine è denominata Fondamentum. La costruzione geometrica riprende quella analoga del De limis insecabilis secondo l’edizione giuntina di Aristotele (Vol.VII, c. 165.r).

64. In altri termini, l’ignoto architetto artefice del palazzo disegnò il rettangolo, che va dal profilo posto sul Corso Sirena fino al profilo del porticato che dà sul giardino, nelle stesse identiche dimensioni del rettangolo disegnato da Giordano Bruno. È come se, tra gli infiniti modi di disegnare un rettangolo, si fosse scelto proprio il Fondamentum bruniano”.

L’armonia musicale nelle finestre della torre

65. Lo stesso Barbera aggiunge poi: “Di un certo interesse è anche la torre a pianta quadrata, nella quale è ubicata la scala di collegamento ai piani superiori, la cui caratteristica è nelle piccole finestre ad archi che s’affacciano nel cortile del palazzo. Nessuno ha finora prestato attenzione al fatto che, pur mantenendo costante la loro larghezza, le altezze, calcolate dal bàsolo in piperno fino alla chiave dell’arco, risultano tutte diverse l’una dall’altra seguendo una proporzione aritmetica basata sulle leggi dell’armonia musicale di ascendenza pitagorica”.

Anche sul giardino l’ombra di Bruno?

66. Anche nella progettazione del giardino, secondo il Barbera, è ravvisabile l’ombra di Bruno.

Planimetria del giardino della Villa Bisignano

Il giardino annesso alla villa si sviluppava su un’area di forma rettangolare la cui lunghezza era pari a due volte la larghezza. Esso presentava quattro grandi parterre, di pianta rettangolare, lungo gli assi di due viali disposti a croce ed al centro della croce compariva un rondò con fontana: l’insieme definiva una scacchiera costituita da otto quadrati, che definivano a loro volta i centri dei piccoli cerchi, smussanti gli angoli dei parterre, visibili nel disegno riportato sulla mappa del duca di Noja.

67. La ripartizione modulare del giardino sembra richiamarsi, anche in questo caso, a figure geometriche che ritroviamo in opere di Giordano Bruno. La memoria va alla Tavola XX del De minimo denominata Atrium Minervae, disegno che corrisponde poi alla Figura intellectus presente negli Articuli centum et sexaginta.

La rosa di Bovillus

68. Lo schema geometrico che ricorre in tali figure bruniane fu ispirato alla Geometrica Rosa illustrata nel Libellus de mathematicis rosis di Carolus Bovillus (Charles De Bovelles) che pubblicò la sua opera a Parigi nel 1510 e che fu appunto all’origine di questo schema geometrico, “molto diffuso nella progettazione del Rinascimento”. E si sa che Bovillus fu autore da Bruno molto apprezzato.

L’opinione di Filippo Barbera …

69. La conclusione di Filippo Barbera è che i richiami che appaiono sia nel progetto del palazzo sia in quello del giardino “palesano una evidente conoscenza delle opere di Bruno da parte dell’ignoto progettista del palazzo e del suo illuminato committente (e forse anche del primo committente cioè il Roomer), e l’assunzione dello schema geometrico bruniano potrebbe spiegarsi come un generoso omaggio tributato all’opera del filosofo … per manifeste simpatie verso le sue dottrine filosofiche”.

… e quella dell’autore

70. Personalmente, da un punto di vista più direttamente storico, ritengo che sia da escludere l’ombra di Bruno per quanto riguarda l’edificio voluto da Gaspare Roomer all’inizio del Seicento. Il Roomer era infatti un fervente cattolico e un devotissimo praticante, personalmente legato da rapporti di amicizia con vari esponenti della gerarchia ecclesiastica, e pertanto non avrebbe mai potuto volere nel suo palazzo qualcosa che richiamasse, anche indirettamente, un frate domenicano eretico bruciato sul rogo pochi anni prima (1600) dell’inizio della costruzione del palazzo stesso (intorno al 1620). Inoltre, per quanto ne sappiamo, Roomer era anche uno che sapeva scegliersi molto bene i suoi collaboratori …

71. Mi sembra invece senz’altro possibile, ed anzi probabile, che quando i Sanseverino di Bisignano, nella seconda metà del Settecento, fecero ristrutturare parzialmente il palazzo e totalmente il giardino, fossero a conoscenza (almeno di alcune) delle opere, per quanto proibite, di Giordano Bruno e pensassero di far tributare, dal loro ignoto architetto, un generoso omaggio alla figura del filosofo nolano.

A quell’epoca, infatti, Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero (1710-1771) nonché capo carismatico della Massoneria napoletana, svolgeva con successo una attiva propaganda delle idee massoniche presso i ceti colti in generale e in particolare presso la nobiltà napoletana. Ed anche se la figura di Giordano Bruno divenne una sorta di “bandiera ufficiale” della Massoneria solo nella seconda metà dell’Ottocento, attirava tuttavia fin dal secolo precedente la “studiosa curiosità” di molti Massoni.

Villa De Càrdenas di Acerra – Spinelli di Scalèa

72. Il Parrino, scrivendo nel 1709, attesta che già allora era presente in Barra una villa del “conte dell’Acerra de Càrdenas” ed il Giustiniani conferma la presenza di una villa “del conte dell’Acerra” nel 1797.

73. Lo storico di Barra Pasquale Cozzolino, scrivendo nel 1889, riferisce poi: “Quivi ancora, inverso la metà del secolo passato (quindi, verso la metà del Settecento), vennero a piantare le loro tende estive, con edifizio vistoso, i famosi Conti di Acerra, i quali pur nell’oggi (1889) vantano una Villa ricercatamente mantenuta ed oltremodo piacente!

E fra questi due edifizi: dei Sanseverino, principi di Bisignano, e dei Spinelli, conti di Acerra, dovette estendersi la Barra dei Coczis posta in territorium Tresano, ossia la così detta Barra di sopra, la quale doveva finire a Giambattista Vela… e… anche nell’oggi vi termina idealmente…”.

74. Occorre qui precisare che il titolo e il feudo di “conte di Acerra”, insieme a quello di “marchese di Laìno”, appartenevano di per sé alla famiglia di origine spagnola de Càrdenas: Ferdinando I (Ferrante) de Càrdenas (1450-1511) ne ricevette l’investitura da Federico III d’Aragona (1496-1501), ultimo re della dinastia aragonese in Napoli, e la famiglia de Càrdenas ne rimase in-interrottamente titolare per più di tre secoli, fino cioè alla legge di abolizione della feudalità nel 1806.

75. Nel corso di questi tre secoli, però, la famiglia de Càrdenas si imparentò in maniera molteplice con la famiglia Spinelli: quasi ad ogni generazione, troviamo qualcuno (a) dei de Càrdenas che sposa qualcuno (a) degli Spinelli.

Stemma Spinelli - de Cardenas

76. Conseguentemente, quando la famiglia de Càrdenas si estinse, il che avvenne con Maria Giuseppa de Càrdenas, ultima superstite, che il 7 ottobre 1792 sposò il generale Francesco Pignatelli di Stròngoli (1734-1812) e che morì nello stesso anno del marito (1812), il titolo di “conte di Acerra e marchese di Laìno” passò nella famiglia Spinelli: il 21 aprile 1895, poco prima di morire, Francesco Spinelli (1820-1897) ne ebbe il riconoscimento ufficiale dal re d’Italia con apposito Decreto Ministeriale.

L’origine della villa

77. L’origine della villa Barrese può quindi situarsi nel periodo del vice-regno spagnolo, ed in particolare già nella prima metà del Seicento, ad opera della famiglia de Càrdenas, conti di Acerra e marchesi di Laìno.

78. Infatti, già il 30 dicembre 1640, risulta morta in Barra Donna Isabella Spinelli (1602-1640) che il 10 luglio 1625 aveva sposato Alfonso III de Càrdenas, VI conte di Acerra e marchese di Laino. Ed il 17 marzo 1641 muore a Barra il padre di Alfonso III e cioè Carlo I de Cardenas (1560-1641), V conte di Acerra e marchese di Laino.

79. Abbiamo poi il matrimonio, celebratosi in Barra il 14 aprile 1652 fra Troiano II Spinelli (IV principe di Oliveto, V duca di Aquara e VII marchese di Vico) e Maria de Càrdenas (figlia di Alfonso III de Cardenas, di cui sopra). Questo matrimonio, come detto, risulta celebrato a Barra, ed inoltre uno dei figli che ne nacquero, cioè la quartogenita Faustina, risulta anch’essa nata a Barra, il 12 luglio 1658.

80. Sembra dunque del tutto ovvio che già alla metà del Seicento esistesse in Barra una dimora de Càrdenas-Spinelli, prevalentemente, anche se non soltanto, ad uso di “villeggiatura”. Quasi contemporanea alla villa del Roomer, ed insieme ad essa, è perciò la più antica tra le grandi ville “di delizia” di Barra, anche se ha ovviamente subìto varie modifiche nel corso del tempo e, in particolare, un evidente rifacimento Settecentesco.

81. Ciò è confermato dai dati relativi ad un altro matrimonio, della generazione successiva: questa volta è lo stesso titolare in carica del feudo di Acerra ovvero Carlo II de Càrdenas, VII conte di Acerra e marchese di Laìno, che impalma, in data 15 maggio 1674, Donna Francesca Spinelli, una delle sorelle minori di Antonio I Spinelli, VI principe di Scalèa. Due dei tre figli nati da questo matrimonio, ovvero il secondogenito Troiano ed il terzogenito Pietro, risultano nati a Barra: Troiano, in data 11 settembre 1685; e Pietro, in data 9 maggio 1689. E la stessa Donna Francesca Spinelli risulta morta in Barra il 6 aprile del 1725.

Il “ramo Barrese” della famiglia Spinelli

82. E’ tuttavia intorno alla metà del Settecento, come dice il Cozzolino, che inizia la vicenda degli Spinelli più propriamente “Barresi”: il 28 febbraio 1745, Antonio II Spinelli (1715-1787), VIII principe di Scalea, sposa Giovanna de Càrdenas (1722-1779), figlia di Alfonso IV, VIII conte di Acerra e marchese di Laino.

83. E’ evidentemente intorno a questa data (1745), ed in relazione a questo matrimonio, che la pre-esistente dimora Barrese de Càrdenas-Spinelli diventa “l’edifizio vistoso” di cui parla il Cozzolino, ed assume la planimetria riportata nella mappa del Noja e l’aspetto Settecentesco, sostanzialmente pervenuti fino a noi.

84. In questo periodo (vedi sopra, nn°5-6) gli Spinelli, famiglia di antica nobiltà napoletana, erano “particolarmente attivi nel fare gli onori al re; strettamente uniti fra di loro e numerosi, rappresentavano un partito e una forza che Tanucci indicava come la Spinellerìa [35].

Lo stesso cardinale arcivescovo di Napoli fu, dal 1734 al 1754, quasi in perfetta contemporanea con gli anni di regno di Carlo III di Borbone, un componente della Spinelleria: Giuseppe Spinelli dei marchesi di Fuscaldo (1694 - 1763).

Card. Giuseppe Spinelli

Nella chiesa di S.Caterina a Formiello, vicino alla Porta Capuana, tuttora si possono vedere i monumenti sepolcrali degli Spinelli più illustri, compresi alcuni fra quelli che andiamo citando.

85. Comunque, a partire dal matrimonio del 28 febbraio 1745, possiamo seguire più da vicino le vicende di quel ramo della famiglia Spinelli che, con maggior frequenza, stette in Barra.

86. Da quel matrimonio, nacquero 8 figli, di cui 6 femmine. Dei due maschi, il primogenito fu Vincenzo Maria (1746-1810), pertanto IX principe di Scalea; quello che abbiamo chiamato il “ramo Barrese” trae però origine dal fratello minore di Vincenzo Maria e cioè Francesco Spinelli (1749-1807).

Antonio Spinelli (1795-1884)

87. Francesco Spinelli (1749-1807), già più che quarantenne, sposò Maria Giuseppa Caterina Ungaretti da Gaeta e ne ebbe 6 figli (4 maschi e 2 femmine), il primo dei quali fu Antonio Spinelli (1795-1884), nato a Capua, il quale divenne una personalità di primo piano nella politica e nella cultura napoletane, nel periodo successivo al Congresso di Vienna e alla seconda restaurazione borbonica.

88. Nel 1820 fu nominato direttore del Grande Archivio di Napoli e, nel 1826, Sovrintendente generale degli Archivi del Regno. In tale veste, si oppose energicamente al progetto di affidare tutti gli Archivi dello Stato ai monaci di Montecassino e promosse “la grande organizzazione degli Archivi del Regno”.

89. Questo suo impegno raggiunse il culmine nel 1845 quando, in occasione del VII Congresso degli scienziati italiani, che si tenne a Napoli, presentò il “Ragionamento degli Archivi napoletani”, pubblicato dalla Stamperia reale, e riuscì ad ottenere il trasferimento dell’Archivio di Stato di Napoli dalla vecchia sede di Castel Capuano alla nuova e più idonea sede nel monastero dei SS. Severino e Sossio, dove ancora attualmente si trova.

90. Per due bienni (1833-35 e 1840-42), partecipò alla vita politica a livello locale, in qualità di “decurione” della città di Napoli e successivamente partecipò alla stipula dei Trattati di commercio e di navigazione fra il Regno di Napoli e diversi paesi esteri, finché nel 1847 fu nominato Ministro dell’Agricoltura e del Commercio (Ministero che prevedeva però anche competenze in materia di musei, scavi archeologici, belle arti, pubblica istruzione, etc.). Da questo incarico di governo si dimise dopo breve tempo, nel famoso 1848, ritirandosi a vita privata.

91. Il 25 giugno del 1860, l’ultimo Re di Napoli, Francesco II di Borbone, lo richiamò alla politica attiva, nominandolo Primo ministro e Segretario di Stato proprio nel momento più critico per il Regno napoletano, mentre era in corso la spedizione dei Mille.

92. “Dei nuovi ministri, la maggior forza morale era quella del presidente del consiglio Antonio Spinelli, vissuto 12 anni fuori dalla vita pubblica … Era uomo di forte carattere e di grande dirittura d’animo. Sperò, accettando la presidenza del ministero costituzionale, in una resurrezione del Regno di Napoli, confederato col Piemonte. Ma, al punto in cui erano giunte le cose, non se ne nascondeva le difficoltà.

Il conte d’Aquila, che si dette un gran da fare per mettere insieme quel ministero, andò a chiamarlo da parte del Re. Lo Spinelli era alla sua villa di Barra.

E pur sentendo la gravità del sacrificio, accettò con la coscienza di sacrificarsi per il bene del paese. Liberale e costituzionale convinto, disse, agli amici che gli facevano premura di accettare, costargli poco l’annullamento della sua persona, perché, ove mai la rivoluzione trionfasse, egli non sarebbe venuto mai meno agli obblighi morali che lo legavano alla dinastia pericolante. E così fu” [36].

93. Il 6 settembre 1860, alla vigilia dell’entrata di Garibaldi a Napoli, Antonio Spinelli convocò nella sua casa di Barra gli amici Nicola Caracciolo di Torella e Giacomo de Martino, per concordare i provvedimenti necessari per salvare la città ed evitare un inutile spargimento di sangue.

Francesco II di Borbone, prima di lasciare Napoli, lo decorò con la croce di Cavaliere dell’Ordine di S.Gennaro.

94. “Coi tempi nuovi, non accettò alcun ufficio ma fu largo di consigli a quanti gliene chiesero … Dal giorno che Francesco II partì, rientrò nella vita privata, ricusò onorificenze e la nomina a senatore. Morì a 89 anni, il 9 aprile del 1884, assistito amorevolmente dai suoi figliuoli e rimpianto dai molti amici” [37].

Lasciò una “Lettera ai figli” nella quale si contenevano le sue riflessioni circa la fine del Regno borbonico e l’esperienza politica da lui vissuta.

Cenni descrittivi della villa e del “bosco” Spinelli

95. La facciata principale, sul Corso Sirena, è a tre piani; vi si apre il bel portale con stemma della famiglia Spinelli.

Stemma Spinelli di Scalea

La planimetria (ancora del tutto identica a quella riportata nella mappa del duca di Noja) è rettangolare, con due cortili interni, comunicanti fra loro per mezzo di arconi e prospicienti il giardino retrostante.

96. “Dei due cortili, il primo, a forma quadrata e aperto su due lati, serviva da accesso e da cortile d’onore della villa; il secondo, a forma rettangolare allungata, fuori dell’asse prospettico del giardino, era invece destinato alle funzioni di servizio.

Il primo cortile, quello cui si accede dal vestibolo d’ingresso, presenta tre arcate (di cui, oggi, le due laterali tompagnate) che collegavano il palazzo col giardino. Interessante è la scala aperta, alla quale si accede dal vestibolo d’ingresso, esempio tipico di scale settecentesche napoletane.

97. La parte meglio conservata è il bosco ovvero il giardino di pertinenza retrostante, al quale oggi si accede dal cancello su Via Gian Battista Vela o attraverso il Centro Ester.

Vi sono splendidi esempi di piante secolari e di altissimo fusto (lecci, palme, pini marittimi…), sebbene la regolare disposizione settecentesca del verde sia stata complicata da un assetto più mosso e tortuoso dei vialetti, e vi si può ancora ammirare una bella vasca in piperno.

E’ presente in esso una palazzina di gusto neoclassico, alla quale è collegata una moderna cappella” [38].

Le “monache francesi”

98. Il palazzetto a pianta quadrata, di fronte alla villa, visibile nella mappa del Noja e tuttora presente, è invece l’ ex-convento delle cosiddette “monache francesi”, ovvero le Suore della Carità, fondate dalla francese S.Giovanna Antida Thouret (1765-1826), che giunsero in Napoli (ed in Barra) durante il regno di Gioacchino Murat (1808-1815), su richiesta addirittura di Letizia Bonaparte, madre di Napoleone.

99. Le “monache francesi” furono il primo Istituto religioso femminile insediato a Barra ed educarono varie generazioni di fanciulle Barresi, finché abbandonarono il territorio dopo il terremoto del 1980; il loro ex-convento, pur notevole per antichità e fattura, versa attualmente in grave decadenza, ridotto alla impropria funzione di malgestito condominio popolare.

Villa Pignatelli di Monteleone

100. E’ la più grande fra quelle esistenti sul territorio di Barra, ma anche fra quelle che versano in condizioni di più grave decadenza. Del suo antico, magnifico splendore (“Villa e delizie dei Pignatelli di Monteleone”), ben evidente nella mappa topografica del duca di Noja (1775), ben poco oggi rimane.

Quasi nulla è stato risparmiato dal tempo trascorso nell’incuria degli uomini: i locali del piano nobile e dei cortili sono impropriamente occupati da un numero pressoché indefinibile di inquilini e piccoli proprietari, che hanno pesantemente manomesso la struttura, sia all’esterno che all’interno; l’ampio e magnifico parco retrostante è stato parzialmente occupato da costruzioni abusive (poi, inspiegabilmente, “condonate”) e parzialmente (ancora per poco) adibito a destinazione agricola; lo splendido portale esterno, opera di Ferdinando Sanfelice, è stato sostituito, in seguito al terremoto del 1980, da uno squallido sostegno in cemento armato (ma rimane tuttora visibile quello che da’ sul cortile interno).

101. Si è salvata solo la cappella gentilizia, aperta ufficialmente al pubblico nel 1774, ed attualmente parrocchia con il titolo di “Maria SS. di Caravaggio”.

Sarebbe quanto mai necessario ed urgente un intervento unitario di recupero e di restauro della villa e del suo parco di pertinenza, ma nessuno spiraglio di luce sembra, ad oggi, intravedersi in questa direzione. Nessuno degli scempi perpetrati in tanta bellezza è riuscito finora a smuovere l’inerzia delle istituzioni preposte.

La famiglia Pignatelli di Monteleone e la costruzione della villa

102. Ricordiamo anzitutto, a titolo informativo, che Monteleone Càlabro era un tempo il nome dell’attuale città di Vibo Valentia. Il relativo titolo feudale di Duca di Monteleone era, con tanti altri, nella famiglia Pignatelli, antica casata nobiliare di origine longobarda. Il primo Duca di Monteleone, creato ufficialmente dall’Imperatore Carlo V nel 1527, fu Ettore Pignatelli (circa 1465-1536).

103. La costruzione della villa in Barra nel Settecento [39] impegnò tre generazioni di Duchi di Monteleone: fu iniziata nel 1728 (nel periodo del vice-regno austriaco) da Diego I Pignatelli Tagliavia d’Aragona Cortès (Madrid, 1687 - Palermo, 1750), IX duca di Monteleone; continuata da suo figlio, Fabrizio III (Napoli, 1718-1763), X duca di Monteleone; e portata a termine nel 1766 (sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone) da Ettore V (nato a Monteleone Càlabro il 28 settembre 1741 e morto a Barra il 27 febbraio 1800), XI duca di Monteleone.

104. Si trattò dunque di una edificazione assai graduale (circa quaranta anni), con numerose interruzioni dovute a vari motivi, e che vide l’intervento di due architetti, entrambi di grande prestigio: prima, del napoletano Ferdinando Sanfelice (1675-1748) e poi, dopo la morte di questi (avvenuta il 1° aprile 1748), del fiorentino Ferdinando Fuga (1699-1781) che diede alla villa e al parco il loro impianto definitivo, visibile nella mappa del duca di Noja del 1775. L’intervento del Fuga si situa nel periodo 1761-66; nell’intermezzo, e precisamente nel 1754, il napoletano Tagliacozzi Canale (1691-1764) effettuò dei lavori in alcuni appartamenti e per la fontana del parco.

105. La famiglia Pignatelli era fra le più antiche e prestigiose della nobiltà napoletana e, dopo secolari vicende, si era ben “acclimatata” anche sotto il vice-regno austriaco (1707-1734).

Marianna Pignatelli contessa di Althann

Basterà ricordare, emblematicamente, che una nobildonna della famiglia, Maria Anna Pignatelli, andò sposa il 12 febbraio 1709 al conte Michele Giovanni di Althann (1679-1722), fratello di quel cardinale Michele Federico di Althann (1682-1734) che svolse le funzioni di viceré austriaco di Napoli dal 1722 al 1728.

106. Marianna Pignatelli, contessa di Althann (nata a Alcudia il 26 luglio 1689 e morta a Vienna il 1°marzo 1755), è ben nota anche nella storia della letteratura per essere stata, per 25 anni, amica e fedele protettrice di Pietro Trapassi, detto il Metastasio (1698-1782): fu grazie a lei che il Metastasio, nel 1730, venne chiamato a Vienna, quale “poeta cesàreo” alla corte dell’imperatore austriaco Carlo VI (1711-1740).

Pietro Trapassi (Metastasio)

107. A sua volta, il sopra citato Diego I Pignatelli, IX duca di Monteleone, fu uno degli aristocratici più in vista e più potenti nel periodo del vice-regno austriaco: secondo, forse, solo al viceré, in quanto a potere; ma primo, quasi certamente, in quanto a ricchezza.

Diego I Pignatelli di Monteleone

108. Un suo zio (= fratello di suo padre, Nicola Pignatelli, VIII duca di Monteleone) Francesco Pignatelli (Senise, 1652 – Napoli, 1734) fu cardinale arcivescovo di Napoli per tutto il periodo del vice-regno austriaco, dal 1703 al 1734.

Card. Francesco Pignatelli

109. Da notare che, dal 1691 al 1700, anche il papa fu un Pignatelli, anche se di altro ramo della famiglia: Antonio Pignatelli, dei marchesi di Spinazzola, nato nel 1615 e papa con il nome di Innocenzo XII.

110. Fu dunque in un periodo di grande prestigio per la famiglia che il duca Diego decise di costruire, a complemento del palazzo grande dei Pignatelli in Napoli, una residenza “di delizie” per i mesi più caldi.

La scelta cadde sul sito Barrese, posto in luogo ameno ed elevato, dal quale si poteva godere ampia veduta sia del Vesuvio che del mare; probabilmente, fu suggerita anche dalla vicinanza dell’altra grande villa di Barra, quella costruita da Gaspare Roomer all’inizio del Seicento e che, in quel periodo, apparteneva ad un altro ramo della famiglia Pignatelli, quello dei prìncipi di Marsiconuovo (vedi sopra, nn°33-35).

La scelta del sito di Barra è invece chiaramente indipendente, perché anteriore, dalla decisione del re Carlo Borbone di costruire la reggia a Portici (1738): decisione che sarà poi cruciale per la nascita del “miglio d’oro” delle ville vesuviane.

111. Il duca Diego comprò i primi “quattro moggia di terreno, posto nel luogo detto li Sfazioni già appartenute a Giovanna Santoriello” il 21 marzo 1728 ed affidò il progetto della villa a Ferdinando Sanfelice, che aveva da poco (1726) terminato di lavorare per il palazzo grande in piazza Gesù Nuovo.

Si susseguirono poi, da parte dei Pignatelli, gli acquisti di terreni confinanti, allo scopo di ingrandire il sito: fino al 1747, ad opera dello stesso duca Diego e poi, dopo la sua morte, a partire dal 1751, ad opera di suo figlio Fabrizio.

112. L’ultimo acquisto venne fatto nel 1760 e riguardò la masseria Volpe, “nel luogo detto lo Catavone seu la Sciùlia”, confinante proprio con quei terreni del principe di San Nicandro, Domenico Cattaneo, sui quali l’anno seguente (1761) Luigi Vanvitelli avrebbe ultimato la edificazione di un’altra magnifica villa Barrese: la villa, appunto, del principe di San Nicandro, detta poi anche villa Giulia.

Questa masseria Volpe si trovava là dove attualmente si vede la piazzetta Monteleone: l’edificio dei Volpe venne abbattuto e lo spazio destinato a “serraglio dei cinghiali del duca di Monteleone”.

113. Questo conferma la presenza, sui terreni di pertinenza della villa, di una specie di “riserva di caccia” privata, che fu una di quelle alle quali si attinse per rifornire il bosco della reggia di Caserta di “caccia di pelo”, per assecondare il desiderio del re Carlo Borbone.

114. Dal 1761 al 1766, si colloca l’intervento di Ferdinando Fuga, richiesto sia dalle precarie condizioni statiche nelle quali si era venuta nel frattempo a trovare la primitiva realizzazione del Sanfelice, sia dall’esigenza dei Pignatelli di adeguare la loro villa alle nuove concezioni della residenza estiva aristocratica, scaturite dalla presenza della reggia di Portici.

115. Nel gennaio 1767, il già citato duca Ettore V, figlio di Fabrizio III, ottenne dal papa Clemente XIII (Carlo Rezzonico, di Venezia, papa dal 16 luglio 1758 al 2 febbraio 1769), con apposito decreto, la concessione del beneficio dell’indulgenza in suffragio delle anime di tutti i defunti della sua famiglia, ogni qual volta si fosse celebrata la Messa nella cappella gentilizia annessa alla villa; e nel 1774 la cappella venne ufficialmente aperta al pubblico.

Carlo III di Borbone alla Barra

116. Già nella prima fase di costruzione della villa, quella dal 1728 al 1748 ad opera del Sanfelice, vivente il IX duca di Monteleone Diego I, lo stesso Re Carlo vi si recava spesso.

Leggiamo così nella Gazzetta degli Avvisi n°41 del 27 settembre 1735: “Sabbato Sua Maestà s’andò a divertirsi nel Casino della Barra del Duca di Monteleone, ad ore 22, restando molto appagato, nell’entrare al giardino del medesimo, della sua vaghezza, essendo fatto all’uso francese con diversi lavori di bassi agrumi e di statue”.

“Nella villa del Signor Duca di Monteleone alla Barra il re si recava spesso, per divertirsi di vedere la lotta del toro contro l’orso, posti insieme in un gran spettacolo, e dopo copiosi rinfreschi, passando per il delizioso giardino nel boschincello di detta villa, tirava più colpi a conigli e dàini. Una sorella del Duca di Monteleone, che aveva sposato il Principe Spinelli della Scalèa, faceva gli onori di casa” [40].

Il duca Ettore V e Barra

117. Tuttavia, fra i duchi di Monteleone, quello che più amò il sito di Barra fu Ettore V. Già suo padre Fabrizio III vi aveva dedicato, come abbiamo visto, molte cure, e due figlie di questi (e dunque sorelle di Ettore) erano nate a Barra: la primogenita Margherita (1740-1810), che poi andò sposa nel 1767 a Riccardo Carafa duca di Andria, e la quintogenita Caterina (1747-1829) che nel 1768 entrò nel monastero di clausura di S.Gregorio Armeno in Napoli.

118. Fu però il duca Ettore quello che più abitò a Barra: qui visse alcuni dei momenti più belli dei suoi primi anni di matrimonio, e non a caso fu lui a voler impreziosire ulteriormente il già magnifico giardino della villa introducendovi, dopo il 1775, le tre famose coffee-houses (vedi oltre, nn°136-138) come piacevoli luoghi di sosta e di conversazione all’aperto.

Ettore V Pignatelli di Monteleone

119. A Barra, però, egli visse anche i suoi momenti di maggior dolore. E qui occorre dire che il duca Ettore V si sposò il 15 dicembre 1767 con Anna Maria Piccolomini d’Aragona e ne ebbe ben 12 figli, 4 dei quali però morirono in tenera età (Fabrizio, Costanza, Pompeo e Gerardo): a Barra, diversi suoi figli nacquero e qualcuno, purtroppo, vi morì ancora infante.

120. Si comprende, dunque, quale particolare affezione e cura egli avesse per la sua cappella di famiglia alla Barra nella quale, proprio al di sopra del quadro della Vergine di Caravaggio sull’altar maggiore, aveva predisposto “il loculo per le piccole ossa” già dei suoi zii Nicola e Elisabetta, morti anch’essi in tenera età.

E sarà questo stesso loculo che accoglierà anche le sue ossa, quando anch’egli si spegnerà, nella notte fra il 26 ed il 27 febbraio 1800, travagliato dalla preoccupazione per il processo al quale era in quel momento sottoposto il suo giovane figlio ed erede Diego II (1774-1818), coinvolto negli avvenimenti della Repubblica napoletana del 1799, come a suo luogo si dirà.

Cenni descrittivi della villa: l’opera del Sanfelice

121. L’architetto che progettò l’impianto originario fu, come detto, Ferdinando Sanfelice: tale è la conclusione cui arrivano il Pane ed il Venditti, “esaminando la fabbrica così come essa ci è pervenuta, alcuni elementi, quali il portale (che è un’esatta replica di quello del palazzo Sanfelice alla Sanità) e lo stesso impianto scenografico nel suo insieme” .

123. E’ da notare che il Sanfelice era stato uno degli allievi del grande Francesco Solimena, che risiedeva abitualmente nella bella villa che aveva in Barra (lungo la via attualmente denominata “pini di Solimena”): conosceva già, quindi, il Casale della Barra ed il fascino ispiratore che esso sapeva esercitare sugli spiriti creativi.

124. L’edificio realizzato dal Sanfelice “non era a contatto della strada, ma arretrato rispetto a questa (come lo era, appunto, la villa del Solimena), secondo un giusto concetto abitativo che ben di rado è presente nelle ville vesuviane; esso godeva infatti di un certo isolamento dalla via, per l’interposizione di un corpo basso a C, ad un piano, con funzioni di servizio, che lo circondava da tre lati: in questo, in asse con la villa, si apriva il portale, attraverso il quale, dopo un piccolo androne a pianta rettangolare, si accedeva in un vasto cortile”.

125. L’edificio vero e proprio “doveva essere costituito da un piano seminterrato destinato ai servizi … da un piano rialzato o nobile con gli ambienti di rappresentanza e forse da un piano ammezzato … destinato all’alloggio della servitù, con un collegamento fra i tre livelli ottenuto mediante scale a chiocciola”.

Cenni descrittivi della villa: l’opera del Fuga

126. Nella mappa topografica del duca di Noja (1775) si vedono invece i cambiamenti apportati dall’intervento dell’altro Ferdinando, il Fuga, a partire dal 1761.

Villa Pignatelli di Monteleone nella pianta del duca di Noia

127. Ferdinando Fuga, pur lasciandola incompleta, portò la facciata principale dell’edificio a contatto con la strada, come si vede adesso. Per fare ciò, “la bassa costruzione pre-esistente a confine di strada venne ampliata dalla parte del cortile ed innalzata di tre piani; ma poiché questi gravavano sul vecchio muro, se ne aumentò lo spessore: può così spiegarsi la attuale posizione del portale, incassato invece che sporgente rispetto al fronte esterno”.

128. Si crearono, di conseguenza, altri due problemi: quello di prolungare l’androne e quello di realizzare le scale.

“Il primo problema venne risolto innestando all’ambiente rettangolare dell’antico ingresso un vano a pianta ellittica, coperta con una volta lunettata, il cui fòrnice prospettante sul cortile è dilatato per mezzo di un ampio arco a sesto ribassato, sostenuto da colonne su alto zoccolo staccate dalla muratura”.

Il secondo problema fu risolto invece con “due scale simmetriche a pianta rettangolare, a loro volta innestate al vano ellittico, svolgentisi su archi rampanti sostenuti da quattro pilastri negli angoli interni”.

129. Il Fuga realizzò inoltre due corpi bassi rettilinei, per collegare la nuova facciata con il pre-esistente corpo posteriore: in tal modo, si venne a creare la pianta a tre cortili che si vede nella mappa del Noja.

Il giardino della villa: la croce copta

130. Filippo Barbera, nell’opera già citata, osserva: “A ridosso del corpo più basso del palazzo, si diparte il viale principale del parco che taglia in due un ampio parterre disposto in posizione centrale. Il parterre appare decorato all’interno con siepi di bosso ed arabeschi in modo da formare una grande croce. Il rondò centrale non fu però ubicato nel punto di incontro degli assi della croce ma fu disposto in modo che restituisse in pianta la sagoma di una croce egizia ovvero copta. Inoltre, questo parterre centrale a forma di croce egizia era posto ad una quota più elevata rispetto agli altri giardini circostanti, come si evince dalla presenza di due piccole scale”.

131. Ma come mai questo segno, e così in evidenza? Diciamo anzitutto che si tratta di un simbolo in uso nell’antico Egitto, dove veniva chiamato ankh ed era semplicemente il geroglifico che significa “vita”: gli dèi egizi sono spesso raffigurati con un ankh in mano o portato al gomito o sul petto. Successivamente, con il diffondersi del cristianesimo, la chiesa egiziana (= copta) lo fece proprio, opportunamente reinterpretato e adattato nel senso che la vera “vita” è quella che scaturisce dalla croce di Cristo: in latino, venne anche chiamata crux ansàta.

Ankh

132. Osserviamo poi che il monumento funebre del papa Pignatelli, Innocenzo XII, che si trova all’interno della Basilica Vaticana, è opera proprio di Ferdinando Fuga ovvero lo stesso architetto che successivamente progettò il giardino della villa Pignatelli in Barra.

Ora, dalla biografia di Innocenzo XII apprendiamo che questo pontefice, fra le meritorie opere sue, cercò anche di riconciliare con la Chiesa cattolica romana la Chiesa copta, ovvero la gloriosa comunità dei cristiani egiziani che fa capo al Patriarcato autonomo di Alessandria d’Egitto ed il cui fondatore è lo stesso S. Marco evangelista.

Innocenzo XII inviò, a tale scopo, una delegazione dei Padri minori riformati di S. Pietro in Montorio a Roma in udienza presso il Patriarca di Alessandria d’Egitto. Il Patriarca si manifestò disponibile ad aprire un dialogo, senza peraltro sottacere le ben radicate divergenze esistenti fra le due Chiese, e comunque consentì che un gruppo di missionari cattolici provenienti dall’Italia si stabilisse al Cairo.

133. E’ plausibile quindi che sia la famiglia Pignatelli sia l’architetto progettista abbiano esplicitamente voluto inserire nel grande parco un segno per onorare il defunto pontefice ricordando questo suo tentativo “ecumenico” veramente all’avanguardia per l’epoca e che comunque dovette impressionare parecchio i contemporanei.

Il giardino della villa: l’albero sefiròtico

134. Ai due lati del grande parterre centrale erano ubicate due scacchiere verdi, costituite da una aggregazione di 15 settori per lato, destinate ad aranciere.

Albero sefirotico

Le restanti parti del parco erano invece destinate a boschetti, separati anch’essi da una orditura geometrica di viali, e i rondò circolari che delimitavano gli incroci dei viali richiamano, evidentemente anche se non perfettamente, l’albero delle dieci sefirot ovvero “l’albero della vita” nella mistica ebraica, la cosiddetta Kabbalàh.

135. Vediamo quindi che, nel suo insieme, il parco è come strutturato in due grandi parti, richiamanti l’antico ed il nuovo testamento, disegnate l’una con il grande simbolo ebraico dell’albero sefirotico e l’altra con il grande segno cristiano della croce, ed entrambe con riferimento alla “vita”, la vita eterna che sconfigge la morte.

Cenni descrittivi della villa: le tre coffee-houses

136. Dopo il 1775, per desiderio del duca Ettore, nel giardino vennero introdotte due coffee-houses simmetriche, collegate, da una parte, alle costruzioni centrali medianti due mossi corpi di fabbrica, e, dall’altra, direttamente innestate su bracci protesi verso la villa, con andamento ad L.

137. Infine, al termine dell’asse principale del giardino, venne posta una terza coffee-house: “un padiglioncino a pianta quadrata, a due piani, coperto da una piccola cupola su tamburo ottagonale, che domina per la sua altezza il paesaggio circostante”.

138. Queste tre coffee-houses costituivano piacevoli luoghi di sosta e di conversazione all’aperto.

139. Da notare, infine, che le decorazioni murarie delle costruzioni del giardino sono (erano?) uno degli esempi napoletani ancora superstiti di applicazione della tecnica rocaille.

Cenni descrittivi della villa: la piazza Monteleone

140. Lo spazio semicircolare davanti alla villa, l’attuale piazza Monteleone, non poteva naturalmente, dopo lo spostamento della facciata principale operato dal Fuga, rimanere ancora un “serraglio dei cinghiali” (vedi sopra, n°112-113) e diventò pertanto uno spazio per la sosta e la manovra delle carrozze.

Le persone più anziane sono tuttora in grado di ricordare le famose dodici statue a mezzo busto, raffiguranti i dodici mesi dell’anno, che cingevano l’emiciclo alternandosi a cancellate e che oggi sono del tutto scomparse.

La cappella dei Pignatelli di Monteleone (Maria SS. di Caravaggio)

141. Entrati nella chiesetta dedicata a “Maria SS. di Caravaggio” in Barra, una iscrizione posta sul muro ci avverte:

DEO VOLENTE

ANNO MCMXLV DECEMBRIS DIE XXIII

AB ALEXIO CARD. ASCALESI

IN PAROECIAM ERECTUM EST

TEMPLUM HOC

AB ARCHIEPISCOPO AUTEM NEAPOLITANO

CARD. MARCELLO MIMMI

DIE SECUNDA JULIIS MCMLIII

CONSECRATUM

Traduzione:

DIO VOLENTE,

IL GIORNO 23 DICEMBRE DELL’ANNO 1945

DAL CARD. ALESSIO ASCALESI

QUESTA CHIESA

FU ELEVATA A PARROCCHIA.

IN SEGUITO, DALL’ARCIVESCOVO NAPOLETANO

CARD. MARCELLO MIMMI

IL GIORNO 2 LUGLIO 1953

FU CONSACRATA.

142. In effetti, la cappella dei Pignatelli di Monteleone fu restaurata ed eretta a parrocchia, il 23 dicembre 1945, dal card. arcivescovo di Napoli Alessio Ascalesi (1924-1952), che la affidò alle amorevoli cure del parroco Mons. Michele Barbato, una delle figure più rappresentative del clero Barrese nel Novecento, il quale la resse per oltre 40 anni, fino al 31 agosto del 1986. La chiesetta fu poi di nuovo magnificamente restaurata nel 1994, a cura del successivo parroco Don Enrico Aleotti.

143. Un’altra iscrizione, però, ci porta molto più indietro nel tempo:

D. O. M.

HOSPES ATTENDE

TEMPLUM

QUOD RURALE VIDES

PONTIFICIA MUNIFICENTIA

DITISSIMUM ESSE

SCITO

ANIMABUS ENIM EORUM EX FAMILIA

QUI VEL FATO FUNCTI SUNT

VEL QUI ADHUC LUCEM HANC ASPICIUNT

MISSAE SACRIFICIUM

IDEO MISERICORDITER CONCEDENTE

SUFFRAGATUR ADEO

AC SI PRIVILEGIATO ALTARI

CELEBRETUR

M DCC LXX IIII

Traduzione:

A DIO OTTIMO MASSIMO.

O FORESTIERO, FERMATI.

QUESTA CHIESA

DI CAMPAGNA CHE VEDI,

SAPPI CHE E’ RICCHISSIMA

PER GENEROSITA’ PONTIFICIA.

IL SACRIFICIO DELLA MESSA

E’ IN SUFFRAGIO

DELLE ANIME DI COLORO CHE,

O SIANO GIA’ MORTI

O ANCORA VEDANO QUESTA LUCE,

APPARTENGONO ALLA FAMIGLIA

COSI’ MISERICORDIOSAMENTE CONCEDENTE,

COME CELEBRATA

SU UN ALTARE PRIVILEGIATO.

1774

L’iscrizione fu posta in occasione della apertura della chiesa al pubblico, avvenuta appunto nel 1774, e la famiglia a cui si fa riferimento è ovviamente quella dei Pignatelli di Monteleone.

Stemma famiglia Pignatelli

144. Proseguendo oltre, ed entrando nella sacrestia dal lato destro dell’altare, si può vedere sul muro una lapide contenente un’ altra iscrizione, che spiega più estesamente la vicenda legata alla costruzione della chiesa:

NEAPOLITAN.

DECRETUM

Cum sicut humillime exponebatur Hector dux Pignatelli

ecclesiam seu publicum oratorium sub titulo B. Mariae

Virginis de Caravaggio nuncupatur in villa La Barra nuncupatur

Neapolitanae dioecesis de sui suaeque familiae jurepatronatus

Possideat, SS. mus D. nus NR CLEMENS PP. XIII oratoris precibus

benigne inclinatus dummodo de asserto jurepatronatus

coram E. mo et R. mo Archiepiscopo constiterit clementer

indulsit, ut quandocumq(ue) sacerdos aliquis saecularis vel regularis

missam pro anima ipsius Hectoris quando viam universae carnis

ingressus fuerit cuiuscumque consanguineorum et

affinium defunctorum vel aliorum quorumcumque

Christifidelium decedentium de supradicta familia

quae Deo in charitate conjuncta ab hac luce migraverint

ad altare dictae B.M.V. in praefata ecclesia celebrabit

animae huioi (= huiusmodi) de thesauro ecclesiae per modum suffragii

indulgentiam consequantur non obstantibus in contrarium

facientibus quibuscumque praesenti (Brevi) in perpetuum valituro

voluitque Sanctitas Sua hanc gratiam suffragari absque

huius brevi expeditione lapideoque monumento inscribi.

Datum Romae ex secreteria Sacrae Congregationis

Indulgentiarum die XX januarii MDCCLXVII.

Adest Sigillum N. Card. Antonellus Praef.

Gratis S. Borgia S. Cong.nis Indulg.m Sec.rius

Traduzione:

DECRETO

NAPOLETANO

Come in tutta umiltà si faceva presente,

possedendo il duca Ettore Pignatelli il diritto di patronato, suo e della sua famiglia,

sulla chiesa ovvero oratorio pubblico sotto il titolo della Beata Maria Vergine di Caravaggio, nella villa chiamata La Barra della diocesi di Napoli,

il Santissimo Signor Nostro PAPA CLEMENTE XIII,

indotto dalle preghiere dell’oratore, per quanto riguarda l’asserzione del patronato

alla presenza dell’ Eminentissimo e Reverendissimo Arcivescovo,

concesse benevolmente che

ogni qual volta un sacerdote, secolare o regolare, avesse celebrato,

all’altare della detta Beata Maria Vergine nella suddetta chiesa,

una messa per l’anima dello stesso Ettore, quando costui avesse intrapresa la via (dell’aldilà) destinata ad ogni mortale,

o per quella di qualsivoglia defunto consanguineo ed affine,

ovvero di qualsiasi altro fedele di Cristo che morisse della suddetta famiglia,

e che, congiunta a Dio nella carità, si fosse allontanata da questa vita,

le anime in tal modo (legate alla religione e per parentela al duca)

conseguissero dal tesoro della Chiesa, a modo di suffragio, un’indulgenza

senza che nessuno, chiunque fosse, potesse opporsi al presente Breve,

valido in perpetuo;

e volle Sua Santità che questa indulgenza fosse suffragata

da questa lapide di marmo, su cui vi fosse un’iscrizione stilata

in conformità di questo Breve.

Dato a Roma, dalla segreteria della Sacra Congregazione

per le Indulgenze, il giorno 20 gennaio 1767.

Cardinale Antonello Borgia

Prefetto della Santa Fabbrica (di S.Pietro)

Segretario della Sacra Congregazione per le Indulgenze

VI E’ SIGILLO

GRATIS

145. Quindi, come si evince, fu il duca Ettore V Pignatelli di Monteleone (1741-1800) a far costruire (o semplicemente a far ultimare) la chiesetta, come cappella annessa alla grande villa che i Monteleone stavano costruendo e progressivamente ampliando in Barra, a partire dal 1728.

Si trattava di una cappella di famiglia, destinata alle sepolture, come allora si usava nella aristocrazia, ma aperta anche a tutto il popolo per il culto (infatti, nell’iscrizione, viene definita anche “oratorio pubblico”), edificata dai Pignatelli in virtù dell’antico diritto di patronato sulle chiese che avevano i nobili nei loro feudi.

Ultimata la costruzione, il duca Ettore V si rivolse al papa Clemente XIII (1758-1769) per ottenere il “privilegio” dell’indulgenza di cui parla l’iscrizione e lo ottenne, appunto, con il “Breve” del 20 gennaio 1767; la consacrazione ufficiale, ed apertura al popolo, seguì nel 1774.

Perché Maria SS. “di Caravaggio”?

146. La chiesa è intitolata alla “Beata Maria Vergine di Caravaggio”. Caravaggio è il nome di un paesino in provincia di Bergamo (ma in diocesi di Cremona). A Caravaggio nacque, nel 1573, il celebre pittore Michelangelo Merisi (1573-1610) che, proprio dal suo luogo di origine, venne detto “il Caravaggio”.

147. Più di 100 anni prima della nascita del pittore, però, nello stesso paese si era verificato uno straordinario evento: l’apparizione della Beata Vergine Maria ad una povera contadina di nome Giovannetta de’ Vacchi.

La donna, in età poco oltre i 30 anni, era moglie di Francesco Varoli, contadino (o, secondo altre fonti, soldato): erano sposati già da qualche anno ma non avevano figli ed il marito, dèdito al bere e alle cattive compagnie, la maltrattava continuamente.

148. Al tramonto del lunedì 26 maggio 1432, mentre stava raccogliendo erba per i suoi conigli sul prato Mazzolengo (o Massalengo), lontano dal borgo, e si era inginocchiata per recitare l’Angelus, si vide innanzi “una matrona bellissima e ammirabile” la quale, dopo averle assicurato che il marito avrebbe cambiato vita, la invitò a farsi ambasciatrice di pace presso i potenti ed a richiamare tutto il popolo alla conversione ed alla pratica delle virtù cristiane.

Ella avrebbe dovuto, niente di meno, convincere i governanti a far cessare la guerra, allora in corso, fra Veneti e Milanesi; ed inoltre esortare le autorità ecclesiastiche a far cessare la divisione fra le Chiese d’Occidente e d’Oriente, ovvero fra cattolici e ortodossi.

149. Sul luogo della visione, la Vergine lasciò l’impronta dei suoi piedi e da lì sgorgò all’improvviso una sorgente d’acqua: in essa, poco dopo, fiorì un ramo secco gettatovi, in atto di sfida, da un miscredente.

150. Giovannetta, per compiere la missione affidatale, non esitò a mettersi in viaggio, presentandosi a Filippo Maria Visconti, Signore di Milano, ed a Francesco Fòscari, doge della Repubblica Veneta: un anno dopo, nel 1433, i due nemici firmarono un trattato di pace.

151. Successivamente, la povera contadina venne accompagnata dai Veneziani fino a Bisanzio, dove si presentò, con una brocca dell’acqua miracolosa, all’imperatore Giovanni Paleologo: pochi anni dopo, nel 1439, si svolse il Concilio di Firenze che sancì la ri-unificazione tra la Chiesa cattolica e quella bizantina.

152. Anche se, purtroppo, né la pace fra Veneti e Milanesi, né la riunificazione delle Chiese d’Oriente e d’Occidente, durarono a lungo, rimane più che mai attuale il significato di quella apparizione: la Beata Vergine, nel consolare una povera donna afflitta dalle sue familiari disgrazie, la invitava nel contempo ad allargare lo sguardo, ad attingere una visione più ampia, addirittura ad intervenire nelle grandi dispute politiche e religiose allora in corso, portando un messaggio di pace e di riconciliazione.

Ritroviamo qui, dunque, un grande tema biblico: il Signore sceglie proprio i poveri, proprio coloro che nel mondo sono considerati “nulla”, come il popolo di Israele schiavo in Egitto, per annunciare, attraverso di loro, la liberazione e la salvezza per tutti.

153. Il santuario della Madonna di Caravaggio, costruito più di un secolo dopo sul luogo delle apparizioni dall’architetto Pellegrino Tibaldi de’ Pellegrini (1527-1596) per volontà dell’arcivescovo di Milano S.Carlo Borromeo (1538-1584), è tuttora fiorente e molto popolare, soprattutto in Lombardia e Veneto.

La Madonna “di Caravaggio” a Napoli

154. La devozione alla “Madonna di Caravaggio” si diffuse, comunque, abbastanza rapidamente anche nel napoletano.

In particolare, nel 1627, i Padri Scolòpi di S. Giuseppe Calasanzio [41] furono invitati da un giudice della Règia Camera, di nome Felice Pignella, ad instituire una delle loro “Scuole per i poveri” nell’allora Largo Mercatello (attuale piazza Dante), in un edificio, con annessa chiesetta, da lui donato.

In occasione dell’inaugurazione, avvenuta nel 1628, gli Scolòpi esposero per la prima volta nella chiesa un quadro della Madonna di Caravaggio, dal quale la chiesa stessa prese il nome, che tuttora conserva.

155. Nella prima metà del Settecento, convento e chiesa degli Scolòpi furono completamente riedificati su progetto di Gian Battista Nauclerio ed in quella circostanza anche a Francesco Solimena venne commissionata una tela, raffigurante la “Morte di S. Giuseppe”, che tuttora si trova in una delle cappelle laterali della chiesa.

La Madonna “di Caravaggio” a Barra

156. I lavori di riedificazione durarono a lungo (terminarono nel 1758-59) e, in quel lasso di tempo, anche i Pignatelli di Monteleone ebbero certo modo di vedere il fervore che circondava l’immagine della Madonna di Caravaggio in Napoli e pensarono evidentemente di introdurre quella devozione anche nella loro cappella in costruzione a Barra.

157. Commissionarono pertanto al grande Solimena una tela che raffigurasse l’apparizione di Maria Vergine a Giovannetta e l’artista la eseguì, certo aiutato dai suoi discepoli, nell’ultimo anno della sua lunga vita, datandola 31 dicembre 1746, e raffigurando sullo sfondo sia una torre con mura (che rappresenta il paese di Caravaggio) sia una torre quadrata senza cinta murale (che rappresenta invece il paese di Barra).

158. Alcuni anni dopo la morte del Solimena, quando la cappella venne ultimata, arricchita di pontificia indulgenza (1767) e definitivamente aperta al pubblico (1774) a cura del duca Ettore, la tela venne finalmente posta sull’altar maggiore della cappella stessa, sovrastata da una lapide che reca la seguente scritta, attualmente poco visibile ma decifrata con grande attenzione dal prof. Enrico Paoletta [42]:

SI FANATICIUS TUM NUMINIS ADSTITIT ERROR,

EFFECIT STUDIO FUTILEM ET IPSE PARI.

IS SACRA IUSSA OPERATUR ET AEDEM VOTAQUE MATRI

IMPLET ET OSSICULO DAT LOCULUM IPSE SUO.

ILLUM SERVA ET LUX FULGAT SECURA PER AEVUM

HECTORIS ARTICULIS, O DOMUS ALMA, TUIS.

Traduzione:

SE NEL PASSATO ALLA DIVINITA’ RIMASE ATTACCATO UN ERRORE SUPERSTIZIOSO,

(IL PATRONO) LO RESE VANO CON PARI ZELO.

EGLI ESEGUE LE SACRE DISPOSIZIONI E PORTA A COMPIMENTO LA CAPPELLA E LE PROMESSE FATTE ALLA MADRE,

E DA’ ALLE PICCOLE OSSA IL SUO STESSO LOCULO.

TU CUSTODISCILO, E LA LUCE DI ETTORE RISPLENDA SICURA PER SEMPRE, SULLA BASE, O SACRA DIMORA, DEI TUOI ARTICOLI.

L’interpretazione dell’epigrafe

159. L’interpretazione di questa epigrafe è certamente più complessa di quella delle altre tre, riportate in precedenza. Si può ritenere che essa contenga diversi significati, peraltro fra loro complementari.

160. Osservando l’albero genealogico della famiglia Pignatelli, possiamo notare che la data di concessione del Breve pontificio (20 gennaio 1767) ci conduce allo stesso anno del matrimonio del duca Ettore con Anna Maria Piccolomini d’Aragona (che avvenne il 15 dicembre 1767).

161. Suo padre, il duca Fabrizio III, era morto pochi anni prima (28 settembre 1763) dopo che due fratelli dello stesso Fabrizio erano morti, entrambi nel 1724 ed entrambi in tenera età: Nicola (morto a 10 anni) ed Elisabetta (morta a 2 anni). Era dunque anzitutto a loro tre che il duca Ettore pensava, quando richiedeva al Pontefice l’indulgenza in suffragio delle anime dei defunti della famiglia Pignatelli.

162. Ma non solo: il 1774, quando la cappella venne definitivamente ultimata ed aperta al pubblico e venne posta l’iscrizione, è anche l’anno in cui venne a morte, il 23 di ottobre, Margherita Pignatelli, V Duchessa di Bellosguardo, che era proprio la madre sia di Fabrizio III sia dei due morti infanti (Nicola ed Elisabetta; per la precisione, Nicola era figlio della prima moglie del duca Diego I, ma era comunque morto fra le sue braccia, a 10 anni di età).

163. Si può dunque interpretare l’iscrizione nel senso che il duca Ettore esegue le sacre disposizioni (del Breve pontificio) portando a compimento la cappella e sciogliendo nel contempo una promessa (“voto”) fatta alla “madre”, cioè a Margherita Pignatelli morta proprio in quell’anno, di dare adeguata e solenne sepoltura ai figli di lei nella nuova tomba di famiglia alla Barra.

164. Molto probabilmente, del resto, era stata proprio Margherita Pignatelli, in precedenza (1746), a commissionare a Francesco Solimena il quadro della Madonna di Caravaggio, perché in esso sono raffigurati come angioletti i piccoli defunti della famiglia Pignatelli: SEMEN FAMILIAE PIGNATELLIAE (seme della famiglia Pignatelli) è scritto infatti sulla tela, in alto, sotto gli angeli, che sono caratteristicamente raffigurati con volto da adulti, come se la morte non avesse mai troncato la loro crescita umana.

165. Ciò detto, come si possono però interpretare le prime due righe dell’iscrizione:

SE NEL PASSATO ALLA DIVINITA’ RIMASE ATTACCATO UN ERRORE SUPERSTIZIOSO,

(IL PATRONO) LO RESE VANO CON PARI ZELO ?

Si può, a tal proposito, seguire l’interpretazione proposta dal prof. Erminio Paoletta.

L’interpretazione del prof. Erminio Paoletta

166. La tela e la lapide con l’iscrizione sono disposte in modo che non è possibile guardare l’una senza l’altra, evidentemente perchè il duca volle che esse formassero come un tutt’uno, recante un preciso messaggio che egli intendeva trasmettere ai suoi contemporanei ed ai posteri, sia pure in forma simbolica ed allusiva.

167. Secondo la suggestiva interpretazione di Paoletta, il dotto e pio duca si sentiva un predestinato, e perciò investito di una sacra missione da compiere, proprio a causa del nome che portava: Ettore Pignatelli di Monteleone, della cui valenza misterica egli si mostra pienamente consapevole.

Infatti, Ettore, come noto, è il nome di un personaggio dell’Iliade di Omero, figlio della regina Ecuba; ma il duca appare consapevole del fatto che entrambi avevano, nella fase pre-omerica, una dimensione divina: Ettore come ipostasi del dio Attis e Ecuba come ipòstasi della magna mater Cibele.

168. Il cognome Pignatelli, a sua volta, può farsi derivare da pinea tele = “riti misterici della pigna”, in onore del dio Attis che aveva appunto la pigna come emblema.

169. Monteleone, invece, può farsi derivare da Amonthe (o anche Amenthe), che è un’antica divinità egiziana “doppia”, risultante dalla fusione del dio Ammon con il dio Theuth: Ammon era un dio di amore, patrono delle ierogamie (cioè delle unioni sessuali sacre) mentre Teuth (che è l’Ermes egizio, accompagnatore delle anime dei defunti nell’aldilà) era un dio di morte-resurrezione.

170. La sacra missione, alla quale si accennava sopra e di cui il duca si sentiva investito nel suo secolo, era dunque quella di “recuperare e riproporre, ma compiutamente trasfigurato, purificato e sublimato in chiave cristiana, un culto classico (quello di Attis/Ettore e Cibele/Ecuba) a cui la sua famiglia era, anche onomasticamente, rimasta legata”.

171. Alla luce di questo, il significato della lapide è dunque che il culto verso la grande madre era legittimo e che soltanto vi era stato un abbaglio (error) sul nome (Cibèle in luogo di Maria SS.): error che adesso lo zelante patrono della cappella (cioè appunto il duca Ettore) intende definitivamente fugare.

172. La tesi del prof. Paoletta risulta ancora più suggestiva se collegata all’ipotesi che, nel Casale della Barra, proprio alla fine del Seicento e nel Settecento (cioè sotto gli occhi del nostro duca) si svolgessero (nella forma di trasporto di un palo ornato e poi di un obelisco) delle feste agrarie, “antenate” della moderna “Festa dei gigli”, il cui significato fàllico ed orgiastico, sebbene non più esplicitamente avvertito dal popolo dei contadini, era però pur sempre evidente agli occhi del dotto duca, e le cui radici affondano proprio nell’antico culto pagano di Attis e Cibele [43].

Un’altra interpretazione complementare

173. Infine, un altro elemento storicamente interessante da tener presente è che, nel corso del Settecento, si combatteva in Napoli, come negli altri Regni d’Europa, un’accanita battaglia ideologica, che vedeva contrapposti, da una parte, la Chiesa ufficiale (e soprattutto l’Ordine dei gesuiti) e, dall’altra parte, la nuova istituzione della Massoneria che veicolava, sia pure in forme ancora di tipo mitologico e misterico, la nuova religione illuminista della “Ragione” e della “Umanità”, che di lì a poco sarebbe poi sfociata nella Rivoluzione francese e nelle altre rivoluzioni borghesi dell’Ottocento.

174. La posta in gioco in tale battaglia era, allora, lo svolgimento del ruolo di “consiglieri del Principe”, svolto tradizionalmente dai Gesuiti, ed ora ad essi conteso dai nuovi pensatori più o meno “illuminati” e massoni (vedi oltre, nn°223-226).

175. In questo contesto conflittuale, che spaccava sovente al loro interno le stesse principali famiglie nobili del Regno, il capo della Massoneria napoletana, il famoso Raimondo di Sangro principe di Sansevero, stava facendo sorgere, proprio in quegli anni, il “Tempio della Virtù” ovvero la cappella gentilizia della sua famiglia, che egli andava decorando con illustrazioni monumentali che, sotto le apparenze cristiane, celavano in realtà una vera e propria “apologia illustrata” delle idee massoniche.

176. Non si può pertanto escludere, anche se è difficile dimostrarlo su base documentale, che il duca Ettore V Pignatelli di Monteleone, fedele cattolico, abbia volutamente utilizzato nella sua cappella di Barra (in una sorta di “parallelismo alternativo”) lo stesso tipo di linguaggio simbolico e “misterico”, per sostenere però le tesi opposte ovvero la religione e le idee tradizionali delle quali si sentiva erede.

A ulteriore conferma di ciò, abbiamo visto che anche il giardino della villa venne progettato con un simbolismo esplicitamente biblico e cattolico (vedi sopra, n°130-135), forse proprio per contrapporlo al simbolismo invece bruniano e massonico del vicino giardino dei Sanseverino di Bisignano (vedi sopra, nn°66-71).

Villa San Nicandro (Villa Giulia)

177. I Cattàneo Della Volta erano una famiglia di banchieri e arrendatori genovesi (vedi n°24 in “La Varra di Serino nel Cinquecento”), con cospicui interessi nel viceregno napoletano.

178. Nel 1643, il trentenne Baldassarre Cattaneo Della Volta (1613-1649), figlio di GiovanBattista e di Maria Maddalena Grimaldi, si trasferì a Napoli onde curare l'appalto delle imposte di alcune province del meridione ed acquistò il feudo di San Nicandro (attualmente, San Nicandro Gargànico, in provincia di Foggia).

179. Sei anni dopo morì, a 36 anni di età, lasciando come erede il suo fratello maggiore e primogenito Domenico, senatore e governatore di Genova, che si trasferì stabilmente a Napoli solo nel 1660 ma che già dal 1650 venne, per primo, ufficialmente insignito del titolo di “prìncipe di San Nicandro”.

Domenico fu anche il primo che comprò 50 moggia di terreno “alla Barra”: si trattava semplicemente di terreni agricoli, dei quali si limitava pertanto a riscuotere la rendita [44].

180. Successivamente, un altro Baldassarre Cattaneo Della Volta ( ? – 1739), figlio di Domenico e pertanto II prìncipe di San Nicandro, acquistò in aggiunta un “casino di campagna” alla Barra, a complemento del palazzo grande dei San Nicandro in Napoli, alla salita Stella, da lui acquisito nel 1715.

Questo II principe di San Nicandro fu in buoni rapporti di committenza e di amicizia con Francesco Solimena, che molto lavorò al suo palazzo napoletano e probabilmente ispirò la scelta di quel “casino di campagna” proprio alla Barra.

La cappella in villa San Nicandro

181. Dagli Atti di Santa Visita del Card. Giacomo Cantelmo (1691-1702) e da quelli del Card. Giuseppe Spinelli (1734-1754), apprendiamo della esistenza di una cappella posta al pianterreno di questo “casino di campagna”, intitolata alla Annunciazione della Beata Vergine Maria, costruita “dalle fondamenta” dal II prìncipe di San Nicandro, Baldassarre Cattaneo della Volta ( ? – 1739) e da lui “dotata per la celebrazione di una Messa ogni giorno festivo”.

182. “L’ampiezza di detta cappella è di palmi 38 in lunghezza e palmi 18 in larghezza ... il tetto è concamerato e le pareti imbiancate … vi sono due finestre munite di cancelli di ferro e di specchi di vetro per ricevere la luce … due fondi per l’acqua lustrale, di marmo … la sede confessionale … un solo altare sopra il quale spicca una tela dipinta, ornata di cornice dorata, la cui immagine riporta il mistero dell’Annunciazione della Beata Vergine Maria … dietro l’altare è posta la sacristia, della lunghezza di palmi 16 e larghezza di palmi 12, con due finestre anche munite di cancelli di ferro e di specchi di vetro per ricevere la luce … con armadio, genuflettorio e tabella della preghiera ... Vi è una porta che guarda verso occidente … e sopra la porta la torre campanaria con due piccole campane ...”

183. La cappella risulta visitata la prima volta il 4 dicembre 1704, poco tempo dopo la sua fondazione, dal Vicario Generale Don Giacomo Maria Rossi, vescovo di Massalubrense, evidentemente nell’àmbito della Santa Visita Cantelmo anche se portata a termine dopo la morte di questi nel 1702, e quindi sotto il nuovo Card. Francesco Pignatelli (1703-1734).

“L’illustrissimo Signor Visitatore trovò la cappella bene ornata e abbondantemente provvista di tutte le sacre suppellettili e preziosi. Circa l’unico altare comandò che la mensola di esso sia fatta di marmo … rimossa la tavola, e sopra l’ara sacra sia posta una tela cerata.

Circa il coro, posto sopra la porta della cappella di dentro, dal quale si ha accesso alle case dei secolari, comandò che esso non venisse usato senza prima aver ottenuto il Breve Apostolico ed inoltre comandò che il signor compatrono curi di esibire l’inventario di tutti i mobili della cappella predetta”.

184. In seguito, il quadro della Annunziata sopra l’altare fu sostituito da quello della “Vergine dei 7 dolori”, visto evidentemente che la cappella aveva anche iniziato a svolgere il consueto ruolo di tomba di famiglia. Nella cappella furono anche apposte delle lapidi con epigrafi, come a suo luogo si vedrà.

Domenico Cattaneo, III principe di San Nicandro

185. Infine, Domenico Cattaneo Della Volta, III prìncipe di San Nicandro (1696-1782), decise di trasformare il “casino di campagna” in una villa, e l’opera fu realizzata dal grande Luigi Vanvitelli, come si evince da una incisione sul portone: “1761 L.V.F.” (che sta per: “1761 Luigi Vanvitelli fecit”).

186. Il principe era, come allora si diceva, l’ “ajo” di Ferdinando IV di Borbone, ossia il precettore, l’educatore, il responsabile della formazione del giovane re ed è pertanto comprensibile che, per stare vicino al suo pupillo, si facesse costruire una abitazione “di campagna” che presentava il vantaggio di essere poco distante sia dalla città sia dalla reggia di Portici.

187. Occorre qui dire che, allorquando nel 1759 Carlo di Borbone lasciò il trono di Napoli per quello di Spagna, suo figlio Ferdinando, erede designato, aveva solo 8 anni. Stette pertanto sotto la tutela di un “consiglio di reggenza”, fino al compimento del 16° anno di età, nel 1767, quando divenne re a tutti gli effetti.

Stemma Cattaneo

Fra i componenti il “consiglio di reggenza”, le personalità più spiccate erano quelle del potentissimo primo ministro (vedi sopra, n°6) Bernardo Tanucci, che aveva la sua villa in S.Giorgio a Cremano, e del nostro Domenico Cattaneo, III principe di San Nicandro, che nel 1761 inaugurò la sua villa alla Barra.

188. Quest’ultimo viene descritto dal Colletta come “onesto di costume, ma ignorante delle scienze o lettere ed unicamente voglioso di piacere all’allievo”.

Un suo immortale anche se non proprio lusinghiero ritratto, lo ha tracciato Benedetto Croce, nella “Storia del regno di Napoli”:

“La nobiltà si venne sceverando in due elementi, che si possono vedere spiccatamente dividersi e aggrupparsi negli anni della reggenza (1759-1767): l’uno, quello illuminato e operoso, intorno al ministro Tanucci; e l’altro, non veramente reazionario ma indifferente e inerte, intorno al principe di San Nicandro, ajo del giovinetto re Ferdinando, ed ajo famoso per la sua ignoranza e più ancora per l’amicizia che professava all’ignoranza, persuaso com’era che ai gentiluomini, e al sovrano dei gentiluomini, convenisse coltivare unicamente le arti cavalleresche, cioè gli esercizi del corpo, l’equitazione, la guida dei cocchi, la caccia e i festini e le partite di campagna, nelle quali dell’abilità acquistata in tali arti si poteva dar prova.

A quel tempo è più propriamente da riportare l’origine di un certo tipo di nobile napoletano, che non so se esista ancora, ma certo sopravviveva alcuni decenni addietro, e fin dopo il 1860: il nobile plebeo, con favella e modi e gesti plebei, animale di genere affatto diverso rispetto ad un uomo di pensiero e di lavoro, ma di specie assai affine a quella del suo cocchiere, e bravo cocchiere esso stesso: bonario, del resto, verso la plebe, e da questa amato come “buon signore”, amato per la sua spensieratezza e ammirato per il suo lusso e fasto, facile a gareggiare con essa in scherzi e lazzi, proprio come quel re che quei nobili avevano educato e foggiato a loro guisa e che, quantunque fosse un Borbone, pronipote di Luigi XIV, figlio del dignitosissimo Carlo, portava certamente da natura singolare disposizione a riuscire quel che riuscì: il re che essi avrebbero dovuto considerare fondatore della lor gente e lor nume tutelare, Ferdinando IV, dai contemporanei denominato, senza punto mancargli di riguardo, il re lazzarone ”.

continua


Note

[1] Pietro Colletta, op. cit.

[2] Davide Palomba, op. cit.

[3] Antonio Genovesi (Castiglione di Salerno, 1713 - Napoli, 1769), ordinato prete nel 1737, fu ritenuto un maestro da tutti gli illuministi napoletani. Ebbe, nell’Università di Napoli, la cattedra di economia politica e di commercio (la prima in Europa, istituita da Bartolomeo Intieri), dove fra l’altro (gran novità anche questa) teneva le sue “Lezioni di economia civile” in lingua italiana e non in latino.

[4] I Gesuiti furono espulsi dal Regno di Napoli con Règio editto del 31 ottobre 1767.

[5] Francesco Mario Pagano (Brienza di Basilicata, 1748 - Napoli, 1799), avvocato e studioso di diritto, scrisse le “Considerazioni sul processo criminale” (1787), i “Saggi politici”, nonchè il progetto di Costituzione della Repubblica napoletana del 1799. Dopo la caduta della Repubblica, fu impiccato in piazza Mercato. “Il suo nome vale un elogio. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano, voi non rinvenite che l’orme di Pagano che vi possano servire di guida per raggiungere i voli di Vico” (V. Cuoco).

[6] Giuseppe Maria Galanti scrisse la “Nuova descrizione storica e geografica delle due Sicilie” (1786-1790).

[7] Gaetano Filangieri (Napoli, 1753 - Vico Equense, 1788). “Visse la sua breve vita tutto ardente nella brama di redimere gli uomini dai mali che li bruttavano e avvilivano, cagionati dalle viziose legislazioni; e quel candore, che spira dalle pagine del suo libro, era nell’anima sua, pura, mite, benefica, fervida di patria carità, devota all’inflessibile dovere. Il Goethe, che lo conobbe di persona e conversò con lui, lo ritrae quale gli apparve col suo contegno tra di militare, cavaliere e gentiluomo, raddolcito da un tenero sentimento morale che, sparso sopra tutta la sua persona, traluceva amabilmente dalle sue parole e dal suo aspetto. La sua Scienza della legislazione dié forma limpida, armonica e sistematica ad un’esigenza del tempo: apparve (scrisse un contemporaneo) come un astro luminoso e benefico che, innalzandosi sul nostro orizzonte, dovea ben tosto illuminare le altre nazioni” (B. Croce).

[8] Benedetto Croce, op. cit.

[9] L’elenco delle ville ufficialmente censite nel 1977 dall’Ente Ville vesuviane come “suscettibili di restauro” è di 121; ma il numero complessivo è naturalmente superiore.

[10] Pietro Colletta, op. cit.

[11] Pietro Colletta, op. cit.

[12] D. Palomba, op. cit.

[13] Onofri, citato da D. Palomba, op. cit.

[14] D. Palomba, op. cit.

[15] D. Palomba, op. cit. , anche per i due episodi riportati.

[16] Pietro Gargano - “Le miglia d’oro” - Napoli, 1996.

[17] Si ricordi, anche, la celebre villa aragonese del Poggio Reale (vedi nn°28-32 in “Il periodo Aragonese”). I giardini con terrazze e peschiere di questa villa furono realizzati dal famoso frate-giardiniere Pacello da Mercogliano che, proprio in virtù di questa realizzazione, venne da Carlo VIII condotto alla corte di Francia, ove diffuse il gusto del giardino “all’italiana”, influenzando intere generazioni di artisti e giardinieri francesi. “Dunque, la tradizione del giardino alla francese ha le sue origini nel giardino rinascimentale all’italiana e specie in quelli napoletani” (Barbera).

[18] Vedi nn°54-58 in “La Varra di Serino nel Cinquecento”.

[19] Filippo Barbera-“Cultura e scienza nei giardini delle ville vesuviane”, Portici, 2007.

[20] I “mannési” erano gli artigiani che costruivano e riparavano i carri da tràino e le carrozze.

[21] Vedi nn°7-12; 16-20; 77-81 in “La Barra nel Seicento”.

[22] Successivamente, il Roomer cedette anche questo palazzo (al duca di Maddaloni), in cambio di due dimore, una alla Stella (oggi palazzo San Nicandro) e l’altra a Posillipo (detta “l’Auletta”).

[23] Celano - “Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli” - Napoli, 1692.

[24] La moglie di Girolamo Pignatelli, Donna Giulia di Capua, X duchessa di Termoli, a quanto pare, aveva un credito con la famiglia dei d’Avalos del Vasto; in soddisfazione di tale credito, ricevette da questi la villa di Barra.

[25] Bisignano è un piccolo centro abitato della Sila greca, vicino ad Acri (provincia di Cosenza), in Calabria.

[26] Il testo della lapide è riportato anche nell’importante articolo di Teresa Colletta, op. cit., ma citato evidentemente di seconda mano e con alcune inesattezze.

[27] Teresa Colletta, op. cit., nota 82.

[28] Gian Battista Chiarini, “Aggiunte” al testo del Celano, op. cit.

[29] L’orto botanico di Napoli fu iniziato dal re Giuseppe Bonaparte nel 1807, dietro le insistenti richieste dell’insigne studioso Michele Tenore, e fu portato a termine nel 1817, dopo il ritorno sul trono di Ferdinando di Borbone. Primo direttore fu lo stesso Michele Tenore (fino al 1860) e suoi immediati successori furono: Vincenzo Tenore (solo per il 1860) e Guglielmo Gasparrini (dal 1861 al 1866).

[30] Vedi la bella pubblicazione “Orti botanici delle Università italiane”, edita dall’Orto botanico di Napoli nel 1965.

[31] Vedi la pubblicazione sopra cit.

[32] Sezione “Archivio privato Sanseverino di Bisignano” - inc. n. 4, fasc. n. 4.

[33] Iacopo Cestaro (1716-1778), nativo di Bagnoli Irpino, aveva già dipinto a Napoli la volta del transetto di S. Paolo Maggiore. Vedi: Nicola Spinosa – “Pittori napoletani del secondo Settecento: Iacopo Cestaro” in “Napoli nobilissima”, vol. IX, fasc. III, maggio-agosto 1971.

[34] Giovanni Lanfranco (Parma,1582 – Roma,1647), pittore barocco sublime e raffinato, considerato “l’anti-Caravaggio”, operò a Parma, a Roma e a Napoli, nella quale visse dal 1634 al 1646.

[35] Raffaele Ajello, in Storia di Napoli, Vol.VIII.

[36] Raffaele De Cesare - “La fine di un Regno” (Vol.III), Città di Castello, 1909.

[37] idem

[38] Anna Giannetti e Benedetto Gravagnuolo in “I Casali di Napoli”, Ed. Laterza, 1984, 1989.

[39] Vedi lo studio, costantemente citato in seguito: Elena Trombetta – “La villa Pignatelli di Monteleone a Barra” in “Napoli nobilissima”, Vol. IX, fasc. I -II, 1970. Vedi anche Filippo Barbera, op.cit.

[40] Raffaele Ajello, op.cit.

[41] S. Giuseppe Calasanzio (1557-1648) era di origini aragonesi (Spagna). Ordinato prete, esercitò il suo ministero prima in patria e poi a Roma. Si dedicò in particolare all’educazione dei fanciulli del popolo, allora del tutto trascurata, e fondò una Congregazione (“Scuole pie”) i cui componenti (detti appunto “Scolòpi”) si dedicassero completamente a questa missione educativa. Morì a Roma.

[42] Vedi: Erminio Paoletta -“La venerata tela della parrocchia di S. Maria di Caravaggio, a Barra, fra matrice pre-cristiana, simbolismo baronale e confessione del morituro Solimena” nell’opuscolo “L’antica chiesa parrocchiale di Maria SS. di Caravaggio (in occasione del restauro)”, Napoli, 11 giugno 1994, stampato a cura della stessa parrocchia.

[43] Per maggiori approfondimenti sulla questione, vedi: Renzi-Nappo - “Origini ed evoluzione storica della Festa dei Gigli in Barra”, Ed Magna Graecia, Napoli, 2000.

[44] Pompeo Centanni – “Il nobile Casale della Barra”, Ed. Fausto Fiorentino, Napoli, 1997.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, ottobre 2016

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