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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.2a Il Periodo Liberale (1876-1887)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

La Sinistra liberale: Agostino Depretis

1. Il 25 marzo 1876, caduto l’ultimo governo della Destra (Marco Minghetti: 1873-1876), il re Vittorio Emanuele II conferì l’incarico di formare il nuovo governo alla personalità emergente della Sinistra liberale, Agostino Depretis (Mezzana Corti Bottarone di Pavia, 1813 – Stradella di Pavia, 1887) il quale, con brevi interruzioni, rimase poi al potere fino alla sua morte, avvenuta il 29 luglio 1887.

Anche Depretis, comunque, come gran parte dei suoi predecessori [1], era massone: si ascrisse alla massoneria nel 1864, e nel 1877 era “33° grado” del “Rito scozzese antico ed accettato”.

Agostino Depretis (1813-1887)

2. La Sinistra liberale arrivava al potere con un programma di riforme abbastanza dettagliato ed audace, che prevedeva: istruzione elementare gratuita ed obbligatoria per tutti; maggiore decentramento amministrativo ed allargamento del diritto di voto; abolizione della tassa sul macinato e una riforma fiscale che facesse pagare ai ricchi un po’ di più.

3. Questo programma fu sostanzialmente realizzato negli anni successivi, nonostante le tenaci opposizioni che esso incontrava nei settori più conservatori della borghesia e della vecchia aristocrazia.

Tali settori, perduto il governo, trovarono però un valido appoggio nel nuovo Re, Umberto I di Savoia (1844-1900), salito al trono nel gennaio del 1878, affiancato dalla giovane moglie-cugina, figlia di un fratello minore di Vittorio Emanuele II: la famosa regina Margherita (1851-1926), quella in onore della quale un pizzaiolo di Napoli fu indotto dai cortigiani a ribattezzare la pre-esistente pizza “tricolore” (bianco della mozzarella, rosso del pomodoro, verde delle foglie di basilico), che viene detta tuttora “pizza Margherita”.

Umberto I e Margherita di Savoia

Margherita: la “primattrice” della nuova Italia

4. Alcuni storici usano parlare dell’Italia umbertina; ma forse, non ostante la scarsa eleganza di questa espressione, sarebbe più esatto parlare di Italia margheritina.

5. In effetti, Margherita di Savoia, “la regina d’Italia” per antonomasia, è probabilmente il personaggio pubblico più rappresentativo, nel bene e nel male, della “italietta” post-risorgimentale, nel periodo compreso fra l’unificazione (1860) e l’avvento al potere del fascismo (1922).

Ed altrettanto probabilmente, il suo principale talento fu quello di attrice anzi di “primattrice”, da “professionista del trono” (Montanelli) che recitò magnificamente, e con convinzione, la parte, assegnatale dalle circostanze storiche, di celare un’assai brutta sostanza sotto un’assai bella apparenza.

Margherita di Savoia

6. Nella sostanza, le sue opinioni e scelte politiche, che influenzarono in maniera determinante le decisioni del marito, furono sempre nettamente anti-democratiche, sul piano politico, ed anti-popolari, sul piano sociale.

Osteggiò le pur timide riforme della Sinistra liberale di Depretis ed appoggiò invece il successivo governo autoritario di Francesco Crispi ed il tentativo di svolta ancor più autoritaria sul finire del secolo; sostenne convintamente le guerre coloniali di conquista; volle fermamente la repressione armata dei movimenti di piazza contro l’aumento del prezzo del pane, e la decorazione del generale massacratore Bava-Beccaris; appoggiò infine, con  fervida simpatia anche personale nei confronti di Mussolini, il nascente movimento fascista, favorendone esplicitamente l’avvento al potere.     

7. Contro siffatta donna politica, avrebbero dovuto sollevarsi anche le pietre della strada, ed invece fu amatissima da larghi strati del buon popolo, grazie ad una ben studiata apparenza ovvero costruzione della propria immagine pubblica, che riuscì ad alimentare un vero e proprio “culto della personalità” della “italica Margherita … la sabàuda Margherita … figlia e regina del sacro rinnovato popolo latino” (Carducci, Odi barbare, “Il liuto e la lira”).

Onde venisti? Quali a noi secoli

sí mite e bella ti tramandarono?

fra i canti de’ sacri poeti

dove un giorno, o regina, ti vidi? 

(Giosuè Carducci, “Alla Regina d’Italia”)

L’inizio della recita

8. Al momento del matrimonio, il 22 aprile 1868, lei aveva 17 anni. Suo marito Umberto ne aveva 24 ed era, già da alcuni anni, legato sentimentalmente alla duchessa Eugenia Attendolo Bolognini coniugata Litta Visconti Arese, “regina” dei salotti milanesi, di sette anni più grande di lui.

Questo legame durò poi per tutta la vita del Re, senza peraltro impedirgli di coltivare fiammeggianti ma più brevi passioni, fra le quali solo quella degli anni Novanta con la “fatale contessa” di Santa Fiora, Vincenza Publicola Santacroce coniugata Sforza Cesarini, giunse a contendere il primato alla duchessa Litta anche in termini di influenza politica.

9. Comunque, già poco dopo il matrimonio e sicuramente dopo la nascita dell’unico figlio Vittorio Emanuele III nel 1869, i due coniugi non vissero più come marito e moglie, conducendo ognuno vita indipendente dall’altro, tranne che per la gestione in comune dei passaggi politici più decisivi.

Ciò non ostante, lei recitò per tutta la vita, in pubblico e nelle cerimonie ufficiali, la parte della moglie felice e premurosa. La consorte di Vittorio Emanuele II, Maria Adelaide, era morta nel 1855 e da quel momento lui non aveva più avuto una consorte ufficiale [2] fino alla sua morte nel 1878. Margherita fu dunque la prima vera “regina d’Italia” e la “prima-donna” indiscussa già dal momento del suo matrimonio con il giovane erede al trono.

10. Nata a Torino, di sangue sabàudo, battezzata nientemeno che alla presenza di Cavour, d’Azeglio e La Marmora, con quel matrimonio ritenne di aver ricevuto, dalla Provvidenza e dalla Storia, il ruolo di “icona” del nascente Regno d’Italia e di dover contribuire, coltivando accortamente la propria immagine pubblica di regina bella, buona, colta, affabile e generosa, al consolidamento del nuovo Stato ed al prestigio “indissolubile” della Patria e della famiglia Savoia.

La regina bella (?)

11. Come la bianca stella di Venere …

fulgida e bionda ne l’adamàntina

luce del serto tu passi, e il popolo

superbo di te si compiace

qual di figlia che vada a l’altare.

Salve, dice cantando, o inclita

a cui le Grazie corona cinsero,

a cui sí soave favella

la pietà ne la voce gentile! (Giosuè Carducci)

In realtà non proprio bellissima, con le gambe vistosamente corte rispetto al busto (che poi lasciò in eredità al figlio Vittorio Emanuele III, il “Re sciaboletta”), ritenne di supplire a queste lacune estetiche ostentando le vistose scollature e le nude braccia grassocce, e soprattutto con un abbigliamento fastoso ed un crescente sovraccarico di gioielli, che la facevano sembrare a volte una statua votiva: ai nostri barresi, poteva sembrare una specie di S. Anna in processione ricoperta di ex-voto, una “S. Anna incannaccàta”.

Margherita di Savoia

12. Il suo vezzo particolare, suggerito dal suo nome Margherita (in latino, come si sa, margarita significa “perla”), erano le perle, di cui amava vistosamente ornarsi, tanto da essere chiamata “la regina delle perle”.    

Dopo averle doverosamente ceduto la collana di perle e smeraldi appartenuta a sua madre Maria Adelaide, “in 32 anni di matrimonio, Umberto le regalò complessivamente 16 fili di perle, di cui ella adornava le sue più splendide toilette, anche se sapeva che ogni filo equivaleva a un tradimento, e forse anche più, di Umberto” [3].

Sembra superfluo evidenziare che “ogni filo” di perle “equivaleva” anche a sangue succhiato al popolo, ma questo lei, e non solo lei, preferiva non saperlo …

Margherita di Savoia

La regina buona (?)

13. Con un sorriso misto di lacrime

la verginetta ti guarda, e trepida

le braccia porgendo ti dice,

come a suora maggior, “Margherita!”

Salve, o tu buona, sin che i fantasimi

di Raffaello ne’ puri vesperi

trasvolin d’Italia, e tra’ lauri

la canzon del Petrarca sospiri!

Fin da prima del matrimonio, le furono organizzati dei continui “giri d’Italia” insieme ad Umberto, per ostentare ai popoli della penisola il nuovo potere unitario, che mentre massacrava ferocemente i contadini del Sud, si impadroniva truffaldina-mente della pingue Cassa del Banco di Napoli, rubava sfacciatamente le terre demaniali, imponeva la tassa sul macinato, etc. etc. … voleva poi presentarsi come benefico, rispettoso dei costumi e delle tradizioni locali e, nello stesso tempo, animato dal desiderio di progresso e di modernità.

Margherita di Savoia

14. La sua bontà personale, in particolare nel ruolo di “regina madre” dopo essere rimasta vedova nel 1900, si estrinsecò soprattutto nel patrocinare e promuovere, ovviamente con denaro pubblico, vari tipi di opere filantropiche, assistenziali e di beneficenza, con ostentate visite e làsciti ad ospedali, orfanotrofi, ospizi per bambini e per ciechi, istituti educativi, etc. nonché nel trasformare in ospedale militare la sua residenza romana, durante la Prima guerra mondiale.

Margherita di Savoia

15. In realtà, se fosse stata veramente buona e caritatevole come voleva apparire, avrebbe almeno intuito che “più di chiunque altro, colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente” [4].

Il “suo amatissimo popolo”, più che di beneficenza, aveva bisogno anzitutto di una politica economica fatta di maggiore equità sociale, redistribuzione delle terre a favore delle famiglie contadine, miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro allora durissime, incremento di scuola, sanità e trasporti, pubblici e non più privati, ed insomma di una politica sociale. 

Ma questo lei, e non solo lei, preferiva non comprenderlo …

La regina colta (?)

16. In effetti, aveva cognizioni alquanto superficiali, nei vari ambiti che allora si ritenevano indispensabili a tutte le signorine di buona famiglia, anche borghesi. 

Sapeva graziosamente disegnare e colorare, ballare e suonare il pianoforte, apprezzare la poesia, l’arte e le corse dei cavalli. Lei però, di suo, era anche appassionata ed esperta alpinista.

Aveva ricevuto nozioni di cultura generale ed infarinature di storia e letteratura italiana. Marco Minghetti, l’esponente della Destra liberale, fu per molto tempo il suo “lettore di latino” ma ciò non impedì “i numerosi errori di ortografia e di sintassi che costelleranno la sua corrispondenza” [5].  

17. La sua ambizione era quella di essere, o almeno di sembrare, la Mecenate della nuova Italia, promuovendo l’arte, la musica, la letteratura. 

18. I suoi balli di corte ed i suoi “giovedì della regina” a Palazzo diventarono il salotto della nuova Italia, dove la vecchia aristocrazia, riciclatasi come liberale, si lasciava graziosamente “contaminare” dalla frequentazione con i nuovi borghesi, arricchitisi con la speculazione finanziaria e con il furto delle terre ecclesiastiche e demaniali, amalgamando così la classe dirigente “italiana” sulla base di un fruttuoso reciproco scambio di favori e di una mentalità ancorata alle concezioni della Destra liberale.  

19. Lusingati nella loro vanità dall’accoglienza nel salotto regale, per lei diedero fiato ai tromboni della retorica i maggiori letterati di allora, dal massone repubblicano (?) Giosuè Carducci, all’ineffabile “superuomo all’amatriciana” Gabriele D’Annunzio, all’angelico e patriottico chierico vicentino Giacomo Zanella, e tanti altri.

20. Nella sostanza, la sua strategia, lucidamente concepita e perfettamente messa in atto, fu quella di promuovere una cultura cortigiana che doveva servire anzitutto ad esaltare la dinastia regnante e non invece volgersi allo studio ed alla comprensione delle cause della povertà che affliggeva la stragrande maggioranza del popolo ed ai possibili rimedi.

21. Finita la guerra, e consegnata l’Italia in mano a Mussolini, si rifugiò a Bordighera, dove si era fatta costruire una grande Villa che da lei prese il nome e laddove morì il 4 gennaio del 1926.

I suoi funerali, con il feretro portato a spasso in treno per quasi tutta l’Italia fra ali di popolo piangente, fu il più grande spettacolo che diede nella sua vita: l’ultimo dell’Italia liberale ed il primo dell’era fascista.

Il primo attentato a Umberto I (1878): Giovanni Passannante

22. Non ostante la popolarità della moglie, Umberto I era talmente amato dal suo popolo che subì 3 attentati: il primo, nel 1878, ad opera del cuoco lucano Giovanni Passannante; il secondo, nel 1897, ad opera di Pietro Acciarito; il terzo, nel 1900, ad opera di Gaetano Bresci, che sortì l’effetto. 

23. Quando Agesilao Milano, l’8 dicembre 1856, attentò alla vita di Ferdinando II di Borbone, venne “soltanto”, in base alle leggi che erano allora in vigore in tutti gli Stati europei, fustigato e poi impiccato in Piazza Mercato pochi giorni dopo, il 13 dicembre.

“Circa quattro anni dopo, durante la degenza che lo condusse alla morte, il Re Ferdinando chiese al chirurgo Capone di controllare se la ferita al petto infertagli dal Milano si fosse infiammata, temendo che la baionetta dell’attentatore fosse avvelenata. Il chirurgo lo rassicurò che la cicatrice era intatta e senza segni di infiammazione e suppurazione, e concluse qualificando Milano come un infame. Il Re rimproverò il chirurgo: - Non si deve dir male del prossimo; io ti ho chiamato per osservare la ferita e non per giudicare il misfatto; Iddio lo ha giudicato, io l'ho perdonato. E basta così” [6].

24. Giovanni Passannante (Salvia di Lucania, 1849 – Montelupo Fiorentino, 1910), colui che attentò alla vita di Umberto I di Savoia, venne invece sadicamente seviziato e torturato per tutto il resto dei suoi giorni e perfino post mortem, e vi furono rivalse finanche sugli incolpevoli parenti e con-paesani.

Giovanni Passannante

25. Ma procediamo con ordine. Umberto I di Savoia era salito al trono nel gennaio del 1878, dopo la morte del padre. Il 17 novembre di quello stesso anno, Umberto e la sua moglie-cugina Margherita erano in visita a Napoli, accompagnati dall’allora capo del governo Benedetto Cairoli.

Quando il corteo giunse all'altezza di "Largo della Carriera Grande", un uomo, che si seppe poi chiamarsi Giovanni Passannante, sbucò improvvisamente dalla folla, salì sul predellino della carrozza, scoprì un coltello che teneva avvolto in un fazzoletto rosso e si lanciò sul re gridando: “Viva Orsini! Viva la Repubblica Universale!”

La regina scagliò in faccia all'aggressore il mazzo di fiori che aveva in grembo e così il re rimase solo leggermente ferito al braccio sinistro. Cairoli afferrò l'attentatore per i capelli, venendo a sua volta ferito da un taglio alla coscia destra, una ferita non grave nonostante l'abbondante sangue versato.

Accorsero subito i corazzieri e il loro capitano Stefano De Giovannini colpì il Passannante con un fendente alla testa e lo trasse subito in arresto.

Il tutto si compì in un tempo così breve che le altre carrozze vicine a quella reale non dovettero mai fermare la loro marcia ed anche la maggior parte della folla circostante, vedendo un uomo ferito condotto via, non si accorse immediatamente del mancato assassinio e pensò che Passannante fosse stato investito dalla carrozza reale.

L'attentato in un murales a Salvia di Lucania

26. L’attentatore, pur sanguinante per la ferita alla testa, non venne accompagnato in ospedale per essere medicato e subì anzi ulteriori percosse. Affermò di aver agito da solo e di non appartenere ad alcuna organizzazione politica. Si era procurato il coltello barattandolo con la sua giacca. Anche su un foglio, attaccato al fazzoletto rosso, aveva scritto: “Viva Orsini! Viva la Repubblica Universale! Morte al re!” Addosso gli venne trovato uno scritto, indirizzato ad un certo Don Giovannino, che incaricava di distribuire i suoi pochissimi averi ad alcune persone.

Cosa fece Umberto

27. Il giorno dopo, il re ricevette la visita di alcuni aristocratici e politici lucani, che manifestarono rincrescimento per il fatto che Passannante fosse un loro co-regionale.

Successivamente, anche Giovanni Parrella, allora Sindaco di Salvia di Lucania, il paese nativo di Passannante, dopo aver preso in fitto con i soldi del Comune un abito adeguato per l’occasione, si recò a Napoli per porgere le scuse dei suoi concittadini ad Umberto I, il quale maestosamente le accettò.

Ma subito dopo il Sindaco venne convocato da consiglieri del re, i quali gli spiegarono che, per ottenere il perdono, in una sorta di risarcimento penitenziale, bisognava cambiare il nome del suo paese e così, con Règio Decreto del 3 luglio 1879, Salvia di Lucania diventò Savoia di Lucania.

Ed oggi ancora, non si è riusciti a rimediare a tale sconcio e a ridare al paese il suo bel nome originale!

Cosa fece il Comune di Barra

28. Meglio se la cavò il Comune di Barra. In data 27 novembre 1878, dieci giorni dopo l’attentato, Sindaco Giuseppe Verolino (1876-1879), troviamo semplicemente agli Atti la “Approvazione di somma per solennizzare una Messa con il Te Deum in ringraziamento di essere rimasta illesa Sua Maestà nell’attentato”.

Cosa fece Margherita

29. La regina riuscì a mantenersi calma e sorridente per la restante parte della sfilata; tornata alla reggia, fu colta però da malore, che peraltro non le impedì di esclamare assai lucidamente: “Oggi, si è rotto l'incantesimo di Casa Savoia!”

Evidentemente, aveva ben capito che, nel gran teatro in cui lei recitava come primattrice, una parte crescente del pubblico iniziava a rumoreggiare e sul palcoscenico cominciavano a sopraggiungere verdure avariate ed altri oggetti …

Chi era Passannante

30. Gli psichiatri Biffi e Tamburini, incaricati della perizia al processo, scrissero testualmente:

“Noi abbiamo esaminato attentamente le qualità psichiche del prevenuto e non vi abbiamo trovato nulla di anormale. L’attività produttiva della mente è in lui regolare; le espressioni di cui si serve non sono come comporterebbe la sua condizione sociale; le sue idee sono elevate e rivelano una cultura superiore.

31. Le sue risposte denotano in lui una finezza ed una forza di pensiero non comune.

Interrogato se egli approvava che per la sua difesa lo si facesse passare per pazzo, rispose: Io non temo punto la morte; non voglio passare per pazzo; sacrifico volentieri la mia vita ai miei princìpi.

Interrogato s’egli si credeva in diritto di fare violenza ai sentimenti della maggioranza, e di turbarne la tranquillità, ha risposto: La maggioranza che si rassegna è colpevole, e la minoranza ha il diritto di resisterle.

Alla nostra domanda come mai lui, povero cuoco, aveva la presunzione di voler scrivere degli opuscoli, rispose: Sovente gli ignoranti riescono là dove i sapienti inciampano.

32. I sentimenti affettivi, quello del dovere soprattutto, sono in Giovanni Passannante pronunciatissimi. Lo studio della sua vita anteriore non ci ha rivelato neppure un atto di disonestà. Infine egli ha volontà ferma, parola sicura, tagliente, che riflette fedelmente il suo pensiero. Ha una fisionomia dolce, sorridente qualche volta, ed ha un comportamento energico”.

33. Al processo venne condannato a morte, ma Umberto I la commutò, misericordiosamente, in ergastolo: e la grazia fu più raffinata crudeltà.

Passannante sull’isola d’Elba

34. Per 10 anni (1879-1889) rimase prigioniero nella Torre detta “della Linguella”, a Portoferraio sull’isola d’Elba: 

“Per due anni e mezzo, Passannante restò sepolto in una completa oscurità, in una cella situata al di sotto del livello dell’acqua, e là, sotto l’azione combinata dell’umidità e delle tenebre, il suo corpo spogliò di ogni pelo, si scolorì e si gonfiò in una guisa pietosa.

Più tardi lo si fece montare per scale segrete e oscure, senza ch’egli vedesse un lembo di cielo, a una cella superiore. Là egli restò rinchiuso giorno e notte senza interruzione.

Il guardiano, che lo guardava a vista, aveva l’ordine espresso di non mai rispondere alle sue domande, fossero anche le più urgenti e le più indispensabili. Ed è inutile dire ch’egli non riceveva mai né lettere, né visite” [7].

35. Il deputato Agostino Bertani (1812-1886) fu il solo che riuscì a vederlo, nel 1885. Dopo otto giorni d’insistenza, di minacce e di dispacci col ministero, ottenne un permesso, che era stato sempre rifiutato a tutti, anche all’arcivescovo di Portoferraio. Ma egli doveva guardare il prigioniero da un buco della porta e alla condizione assoluta di non parlare, perché il prigioniero non doveva accorgersi della presenza d’un visitatore.

“Dopo un certo tempo, necessario ad abituare l’occhio alle tenebre, Bertani poté discernere alla debolissima luce di una lanterna situata nell’interno della cella la figura di Passannante ridotto in una condizione raccapricciante. Le sue membra erano gonfie, il suo viso cereo, egli giaceva su un tavolaccio ed emetteva dei rantoli tenendo sollevata con una mano una grossa catena di 18 chili ch’egli non poteva sopportare in altro modo data l’estrema sua debolezza.

Il disgraziato mandava delle grida strazianti, che i marinai dell’isola sentivano sempre con grande emozione; come i detenuti della prigione S. Francesco di Napoli avevano sentito le sue grida d’angoscia, quando lo si torturava, prima, durante e dopo il processo, per fargli confessare il nome dei presunti complici, ch’egli non aveva avuto.

Simile orrendo trattamento spezzò la sua fibra robusta; egli impazzì, si ridusse a tal punto da mangiare i propri escrementi!

Solo allora il governatore dell’isola si commosse e temendo peggio (come se potesse darsi una cosa peggiore di quella rovina!) si decise a trasferire la povera vittima al manicomio provinciale di Montelupo” [8].

Passannante nel manicomio di Montelupo

36. Nel 1889, il Passannante venne dunque dichiarato ufficialmente pazzo e trasferito al manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove però ebbe il permesso di poter scrivere. Nel 1908, divenne cieco. Morì il 14 febbraio del 1910.

Giovanni Passannante

Dopo la morte

37. Il suo cadavere fu sottoposto ad autopsia e decapitato, in base alle teorie scientifiche dell’epoca.

Il celebre Prof. Cesare Lombroso (1835 – 1909), e tutti i suoi pari, grandi docenti universitari seguaci della Scuola di antropologia criminale positivistica allora dominante, sostenevano infatti pregiudizialmente il carattere innato della criminalità (= “delinquenti si nasce”) e dunque miravano ad accertare (!?) quali fossero precisamente le ipotizzate cause fisiologiche ed anatomiche della tendenza a delinquere, che venivano ricercate nelle caratteristiche del volto, nella conformazione del cranio, etc.

38. In seguito, del suo corpo non si ebbe più notizia. Il cranio ed il cervello, invece, furono immersi in una soluzione di cloruro di zinco (ZnCl2), e conservati prima nello stesso manicomio di Montelupo Fiorentino e poi nella Scuola Superiore di Polizia associata al Carcere di “Regina Coeli” a Roma.

Nel 1936, il cervello, immerso in formalina e conservato in una teca di vetro sigillato, venne trasferito presso il Museo Criminologico dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia a Roma, insieme a resti del cranio e ad alcuni blocchetti di appunti scritti dal Passannante nel periodo della sua “follia”.   

Ancora nel 1982, il cervello fu oggetto di studi del prof. Alvaro Marchiori dell'Istituto di Medicina Legale dell'università romana “La Sapienza”.

Cervello e cranio di Giovanni Passannante

39. Solo nel 2007 i resti mortali di Giovanni Passannante vennero infine tumulati nel cimitero del suo paese natale. Ma il 7 gennaio 2012 la lapide fu presa a martellate e la tomba gravemente danneggiata da ignoti …

L’istruzione nell’Italia unita

40. Al momento della unificazione italiana, la quasi totalità della popolazione non sapeva né leggere né scrivere e parlava solo il proprio dialetto locale [9]. Su una popolazione di circa 25 milioni di persone, coloro che sapevano leggere e scrivere in italiano erano poco più di 600 mila ed erano più o meno quelle stesse persone che avevano il reddito sufficiente per poter votare e per essere eletti: la classe dominante.

In generale, la cultura era patrimonio “privato” delle sole classi privilegiate: la vecchia aristocrazia aveva i suoi “precettori”, cioè i maestri che, opportunamente retribuiti, facevano lezione ai giovani rampolli nelle stanze del palazzo di famiglia e spesso vi erano anche alloggiati in permanenza; e la nuova borghesia era ormai abbastanza ricca per potersi permettere lo stesso costume.

La scuola “pubblica” era praticamente inesistente e quel poco che ne esisteva era più che carente.

Nel Regno delle due Sicilie

41. Il Regno delle due Sicilie vantava Università ed Istituzioni di alta cultura più che qualsiasi altra parte d’Italia. 

Nel 1860, vi erano al Sud 4 Università: Napoli, Messina, Catania e Palermo, mentre a Milano la prima Università (il Politecnico) fu fondata solo nel 1863; il numero degli studenti nelle Università meridionali (dati ufficiali del censimento 1861) era superiore a quello di tutte le altre Università italiane messe insieme (9 mila su 16 mila); le case editrici napoletane pubblicavano il 55% di tutti libri èditi in Italia.

42. Il punto dolente, anche qui, era l’istruzione elementare, cioè “l’istruzione popolare”.

Con una normativa risalente già al 1768, e poi confermata nel 1818, il re Ferdinando I di Borbone stabilì che dovesse esserci almeno una scuola gratuita, per entrambi i sessi, in ogni Comune del Regno; ed impose altresì che tutte le case religiose tenessero scuole gratuite per i bambini.

Ma Luigi Settembrini, con una sua indagine svolta nel 1861, osservava che: “Su 3.094 comuni e borgate, obbligate dalle leggi borboniche a provvedere all’istruzione popolare, 1.084 mancano di ogni insegnamento, 920 mancano di scuola femminile e 21 di scuola maschile”.

Quindi, solo 1.069 Comuni e borgate (circa un terzo del totale) erano in regola con la legge. Gli alunni complessivi (maschi e femmine) erano, in tutto, appena 67.431.

Peraltro, la legge autorizzava esplicitamente ad affidare le classi elementari, quando occorresse, a maestre ... analfabete, che quindi svolgevano solo un compito di intrattenimento e di avviamento ai lavori manuali.

43. Il Capomazza, che fu l’ultimo “presidente dell’istruzione pubblica” nel Napoletano, scriveva nel 1855, a proposito delle scuole elementari nel Regno borbonico: “Per ogni dove ... mancanza di oggetti scolastici: non un libro, non un foglio di carta, non un lapis, non un quaderno, si dà agli alunni, che quasi tutti sono sforniti di mezzi per provvedersene ... Non poche scuole, poi, mancano perfino degli scanni e delle tabelle per l’insegnamento del leggere e dello scrivere”.

E la prima inchiesta sulla scuola realizzata nel nuovo Regno d’Italia (inchiesta Matteucci, 1864-65) rilevava che “i maestri, in generale, sono poco studiosi e s’appigliano facilmente ad altri impieghi per lucrare; gli insegnanti vecchi usano il dialetto; quei pochi che parlano a scuola in italiano, parlano assai scorretto ...”. 

44. Il fatto è che, ovunque in Europa, gli Stati stanziavano assai poco per l’istruzione elementare: l’Austria, che era quella che spendeva più di tutti, retribuiva un insegnante elementare con uno stipendio che era pari ad un terzo di quello di qualsiasi altro impiegato pubblico, ed equivaleva in pratica alla mercede di un bracciante agricolo.  

In Italia, fu la Sinistra liberale che si accinse all’arduo e lodevole compito di iniziare a cambiare tale deplorevole situazione.

La legge Coppino sulla istruzione elementare (1877)

45. Al momento dell’unità d’Italia, anche nel campo dell’istruzione, non si fece altro che estendere a tutte le nuove Province italiane la legge già precedentemente in vigore nel Regno sabàudo: in questo caso, si trattava del Règio Decreto n°3725 del 13 novembre 1859 ovvero la cosiddetta “legge Casàti”, dal nome del Ministro dell’Istruzione, il conte milanese Gabrio Casati (1798-1873).

Essendo del 1859, la legge era dunque “nuova” anche per il Regno di Sardegna e regolamentava organicamente l’intero sistema dell’istruzione, dalle elementari all’università. Purtroppo, i suoi frutti nel campo dell’istruzione popolare non furono particolarmente abbondanti, visto che, al censimento generale del 1871, l’analfabetismo risultava addirittura aumentato rispetto al censimento del 1861.

46. La “legge Casati” venne perciò integrata dal parlamento italiano con una nuova legge riguardante solo l’istruzione elementare: la n°3961 del 15 luglio 1877 che, dal cognome di colui che la propose, il ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino (1822-1901), venne detta appunto “legge Coppino”.

Aristide Gabelli (1830-1891)

47. Al riguardo, occorrerebbe però menzionare soprattutto il nome del pedagogista bellunese Aristide Gabelli (1830-1891), che molto lavorò per la sua promulgazione ed attuazione, ispirando largamente anche i programmi di insegnamento.

Il Gabelli, un positivista molto pragmatico, nel 1880 scrisse anche Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d'Italia: “Il maestro deve tener presente che la scuola ha da servire a 3 fini: dar vigore al corpo, penetrazione all'intelligenza e rettitudine all'animo …  Le cognizioni, non poche volte, e forse il più delle volte, dopo un po' di tempo di desuetudine dagli studi, vengono in molta parte dimenticate; mentre invece il modo di pensare dura tutta la vita, entra in tutte le azioni umane”.

48. La legge Coppino istituiva 3 anni di scuola elementare, obbligatoria e gratuita, per tutti i fanciulli di ambo i sessi dai 6 ai 9 anni, ai quali bisognava insegnare “le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino, la lettura, la calligrafia, i rudimenti della lingua italiana, dell'aritmetica e del sistema metrico”; stabiliva le ammende per i genitori inadempienti; e sanciva gli obblighi dei Comuni nel provvedere alle classi e alle attrezzature per le scuole. Da buon massone, quale anche lui era, Coppino prevedeva poi l’insegnamento della religione solo su richiesta dei genitori e al di fuori dell’orario scolastico.

49. La legge del 1877 segnò naturalmente una svolta notevole nella vita della nazione ed in particolare delle grandi masse popolari: per la prima volta, veniva sancìto il principio che tutti i cittadini hanno diritto alla istruzione e che lo Stato ha, come uno dei suoi doveri primari, quello di provvedere alla scuola.

Naturalmente, la realizzazione pratica di quanto stabilito dalla legge fu cosa molto più lunga e complessa, dovendosi fare i conti con la cronica mancanza di fondi da parte dei Comuni e dello Stato, nonché con antichi e radicati pregiudizi (“è inutile che le donne vadano a scuola, perché devono stare in casa”; “è inutile istruire quelli che devono fare lavori manuali, operai e contadini ... anche perché potrebbero cominciare a ribellarsi”, etc.).

La scuola a Barra subito dopo l’unità

50. Negli Atti di Santa Visita del 1849, si riferisce che a Barra non vi sono scuole pubbliche (il Comune non era quindi in regola con la legge borbonica) e si accenna ad “una sola scuola”, evidentemente privata, “in cui vi sono fanciulli e fanciulle, perchè la scuola la fa il marito e la moglie”.

Anche poco dopo l’unità d’Italia, risulta a Barra una sola scuola, privata, tenuta da tale Giuseppe Padovano, con 20 ragazzi e 20 ragazze.

Queste scuole private erano evidentemente quelle necessarie e sufficienti per l’istruzione dei figli di quelle poche famiglie della borghesia barrese (proprietari terrieri, grossi negozianti, professionisti ...) che avevano fatto fortuna soprattutto nel periodo del decennio francese e potevano adesso permettersi di mandare a scuola, a pagamento, i propri figli.

51. Troviamo, tuttavia, che già prima del 1873 il Comune di Barra aveva istituito alcune classi di scuola elementare pubblica: “Barra aveva una scoletta di campagna con 2 classi, con una popolazione scolastica di 37 alunni” [10].

Si trattava evidentemente di una classe maschile ed una femminile, ed il corso di studi durava 2 anni.

A scuola

52. In seguito, nella sua relazione del 1873, il Règio Delegato Straordinario Vincenzo Lugarési attesta di aver provveduto ad istituire “la terza elementare maschile e femminile”, nonché per la prima volta 2 classi di “scuola serale” per gli adulti.

Dopo il 1873, vi furono quindi 2 classi, una maschile ed una femminile, ognuna delle quali faceva un corso di studi di 3 anni; più due classi per adulti che, presumibilmente, erano solo maschi e facevano anch’essi un corso della durata di 3 anni.  

La legge Coppino a Barra (1877-1904) 

53. Solo dopo l’emanazione della legge Coppino nel 1877, e dunque al tempo del Sindaco Giuseppe Verolino (1876-1879), la scuola pubblica barrese raggiunse la sua classica conformazione post-unitaria, così strutturata:

§     4 classi femminili (circa 80 ragazze in tutto);

§     3 classi maschili (circa 100 ragazzi in tutto);

§     2 classi serali per lavoratori studenti.

E ai primi di febbraio del 1879, venne istituito anche l’insegnamento della ginnastica, anche se solo per le tre classi maschili: il lunedì, il mercoledì e il sabato, dopo l’orario di scuola, a cura del maestro Alberto Cenere: “Per l’oggetto, si dispone ufficiarsi gli insegnanti delle altre scuole maschili, i Signori Minichino, Vitale e Scognamiglio, ad inculcare nei loro allievi tale insegnamento” (Delibera Giunta municipale del 5 febbraio 1879).

54. Vi era poi la cosiddetta “Scuola superiore” che era costituita semplicemente dal 4° e 5° anno di Scuola elementare, che non erano obbligatori in base alla legge Coppino, ma che i Comuni dovevano comunque istituire, compatibilmente con i loro problemi di bilancio, provvedendo ai locali scolastici, nonché scegliendo e retribuendo gli insegnanti.

A scuola

55. La situazione scolastica rimase grosso modo la stessa per alcuni decenni, sostanzialmente fino alla legge Orlando del 1904.

Scrivendo nel 1929, il Lapegna dice: “La più antica delle insegnanti, la signora Gemma Barraud, che da oltre 38 anni assolve il nobile apostolato di educatrice, ricorda che nel 1891 ella trovò in funzione 4 classi maschili e 4 femminili; la scuola non aveva direzione ed ella più volte ebbe l’incarico di fiduciaria” [11].

In effetti, agli Atti del Consiglio comunale di Barra risulta la “Nomina della Sig.ra Gemma Barraud a maestra della Seconda elementare” in data 28 ottobre 1891.

Invece, per quanto riguarda il numero preciso delle classi, la maestra Barraud non ricordava forse esattamente, perché ancora nell’anno 1900 troviamo che il Comune “autorizza le Scuole elementari municipali a provvedersi di acqua di Serino, in ragione di una secchia per ogni classe cioè numero sette secchie al giorno”. 

56. In ogni caso, non è poco, ove si consideri che la popolazione complessiva di Barra, secondo gli Atti di Santa Visita del 1877, era di 9.215 abitanti e che bisognò creare praticamente dal nulla un sistema scolastico pubblico e gratuito.

Grande onore va quindi dato a questi pionieristici maestri e maestre che, con stipendi certo non da nababbi ed affrontando difficoltà di ogni genere, combatterono la buona battaglia per estirpare l’analfabetismo ed iniziare i figli del popolo semplice ai primi rudimenti del sapere.

57. Va anche detto, ad onore della classe dirigente borghese dell’epoca, che erano anche previsti, sia pure in modo del tutto discrezionale, dei “sussidi” da parte del Comune per quei pochissimi “giovinetti volenterosi ma di famiglia povera” che intendevano continuare gli studi dopo la Terza elementare.

I maestri e le maestre elementari

58. I maestri e le maestre, come del resto anche i bidelli, erano a tutti gli effetti dipendenti comunali: il Comune li assumeva, con contratti di durata variabile, e poteva eventualmente licenziarli; gli pagava lo stipendio; e gli versava anche una pensioncina dopo il loro collocamento a riposo, beninteso previo una ritenuta del 2,5% sullo stipendio e compatibilmente con le magre finanze comunali.

A quanto risulta dagli Atti, erano altresì previsti “un aumento sessennale (cioè per ogni 6 anni di servizio) del decimo dello stipendio” nonché eventuali sussidi e gratifiche occasionali a discrezione della Giunta e del Consiglio comunale.

59. E proprio dagli Atti comunali relativi alle assunzioni, alle dimissioni ed ai pagamenti dei maestri, veniamo a conoscere i loro nominativi ed alcune delle loro vicende.

Il primo documento relativo alla scuola che risulta agli Atti è quello “Per una gratifica al maestro Domenico Scognamiglio” (Delibera Consiglio comunale N°55 del 12 novembre 1870) concessa dal Sindaco Tommaso Fasano (1869-1872).

Segue poi la delibera “Pel rilascio dei due mezzi (quindi, l’intero) del soldo del maestro Domenico Minichino” (N°86 del 7 novembre 1871).

E tre anni dopo (ahi loro!) la prima agli Atti “Domanda dei maestri municipali che chiedono l’aumento di soldo” (N°313 del 18 dicembre 1874).

Troviamo poi la “Omologazione della deliberazione, presa d’urgenza dalla Giunta, riguardante la nomina di maestri delle scuole serali” (N°93 del 13 gennaio 1877). I nomi che emergono dagli Atti, a proposito dei “maestri delle scuole serali” istituite nel 1873, sono quelli dello stesso Domenico Scognamiglio e di un certo “maestro sig. Nicola Tonti” assunto peraltro già dal 1872.

I tre patriarchi

60. Fra i maestri delle scuole maschili, troviamo quindi anzitutto i tre patriarchi della scuola pubblica barrese e cioè: Don Domenico Minichino, Don Luigi Vitale e Domenico Scognamiglio.

Il più anziano in servizio doveva essere il Minichino, perché Don Luigi Vitale e Domenico Scognamiglio risultano “messi a riposo” nello stesso giorno, il 16 giugno del 1890, che è poi lo stesso anno in cui morì Don Domenico Minichino, che era stato invece “messo a riposo” già dal 1°dicembre del 1884.

Don Domenico Minichino, Don Luigi Vitale e Domenico Scognamiglio sono perciò, per così dire, i tre maestri di prima generazione post-unitaria cioè che insegnarono nella scuola elementare di Barra, ininterrottamente, all’incirca nel trentennio 1860-1890.

Il maestro Alberto Cenere

61. Solo di poco più giovane, ma egualmente esemplare, è la figura del maestro Alberto Cenere che abbiamo già visto essere anche il primo “patentato nell’insegnamento della ginnastica” (vedi sopra, n°53).

In effetti, la “Nomina del sig. Cenere Umberto (?) e della sig.na Scognamiglio Maria a Maestri di queste scuole municipali” avviene con la Delibera del Consiglio comunale N°187 del 10 maggio 1878.

All’inizio, a quanto pare, non conoscevano bene neanche il suo nome: infatti, il segretario comunale lo denomina Umberto invece che Alberto.

62. A partire però da quel mese di maggio del 1878, il maestro Cenere inizia il suo lungo servizio nel Comune di Barra, nel corso del quale ebbe modo di farsi ben conoscere ed apprezzare.

Quasi 20 anni dopo, troviamo il “Certificato di lodevole servizio al maestro elementare Cenere Alberto” (Delibera N°180 del 28 maggio 1896).

Ed in quello stesso anno, la “Nomina a vita del maestro elementare sig. Cenere Alberto” (Delibera N°211 del 20 settembre 1896): fu dunque, per i suoi meriti, il primo maestro di Barra ad avere non più un contratto “a termine” ma un contratto “a tempo indeterminato”.

E nel nuovo secolo, dopo più di 30 anni di ininterrotto servizio a Barra, troviamo addirittura, e sembra essere l’unico caso in cui ciò avviene, la “Proposta dell’Assessore alla Pubblica Istruzione per un voto di plauso all’insegnante Cenere Alberto” (Delibera N°147 dell’11 settembre 1909). 

Il maestro Eugenio Venere

63. Del tutto opposta appare invece la figura, della generazione successiva, del maestro Eugenio Venere, assunto inizialmente come “maestro di 5^ elementare” (Delibera N°176 del 15 settembre 1890).

La sua persona ed il suo modo di agire non riuscirono evidentemente molto graditi, tanto che, solo quattro anni dopo, troviamo il “Licenziamento del maestro Venere Eugenio dalla 1^ elementare” (Delibera N°44 del 26 novembre 1894).

Il Venere protestò vivacemente per il suo licenziamento, presentando al Comune anche due “istanze”, che però furono respinte (Delibera N°70 del 5 aprile 1895).

Lui non si tenne la posta ed evidentemente continuò a reclamare con altre “istanze” presso i livelli superiori, tanto che ottenne addirittura il “Reintegro del maestro elementare Venere Eugenio per disposizione ministeriale” (Delibera N°155 del 22 marzo 1896).   

64. Vinse dunque la sua battaglia con il Comune e venne riassunto, ma i notabili Barresi, come si suol dire, “se la legarono al dito” e, da buoni borghesi, gli fecero pagare sul piano economico la sua vittoria: negli anni successivi, infatti, come si vede dalle Delibere, gli rifiutarono sistematicamente tutte le richieste di gratifica, gli pagarono in ritardo il previsto “aumento del decimo sessennale” e gli tennero in sospeso per un certo tempo anche il “Certificato di lodevole servizio”.   

Anche nel nuovo secolo, si segnalano “Provvedimenti a riguardo del sig. Venere Eugenio maestro elementare” (Delibere N° 283 del 25 ottobre 1902 e N°341 del 16 aprile 1903) e l’ultima cosa che rimane di lui agli Atti, dopo 20 anni dalla sua assunzione, è proprio l’ennesima (inutile?) “Istanza dell’insegnante Venere Eugenio” (Delibera N°220 del 25 aprile 1910) …

Il maestro Raffaele Conte

65. La seconda generazione di maestri (quella degli anni novanta, per intenderci) non era però composta solo di rompi-scatole come il maestro Eugenio Venere.

Troviamo così la lineare carriera del maestro Raffaele Conte:

Nomina di Conte Raffaele in sostituzione di Don Luigi Vitale come maestro della 3^elementare (Delibera N°120 del 13 ottobre 1891).

Voto favorevole pel certificato di lodevole servizio a favore dell’insegnante Conte Raffaele (N°16 del 21 gennaio 1906).

Ratifica dell’atto d’urgenza relativo alla nomina della sig.na Monaco Giuseppina a maestra elementare supplente in surroga dell’insegnante Conte Raffaele collocato in aspettativa (N°121 del 15 febbraio 1907).

Accettazione di dimissioni offerte dal sig. Conte Raffaele da insegnante elementare (N°147 del 7 giugno 1907).

Accettazione di istanza dell’insegnante pensionato sig. Conte Raffaele in prima lettura (N°192 del 22 novembre 1907).

Approvazione in seconda lettura del provvedimento relativo a sussidio all’insegnante sig. Conte Raffaele (N°210 del 28 dicembre 1907).

Le maestre

66. Se cerchiamo invece fra le maestre di prima generazione post-unitaria, troviamo i nominativi di:

Anna Mastrorocco, deceduta nel 1880 e sostituita dalla “giovanetta Maria Scognamiglio” a partire dal settembre 1879;

Concetta Napolitano, che insegnò fino all’anno scolastico 1890-91 incluso, dopo di che: “Collocamento a riposo della maestra elementare Napolitano Concetta” (N°130 del 17 ottobre 1891) e “Liquidazione di pensione alla maestra elementare Napolitano Concetta” (N°160 del 30 novembre 1891).

Giustina Parisi: “Restituzione alla maestra sig.ra Parise della tassa di R.M. indebitamente esatta nel 1877” (N° 233 del 17 gennaio 1879). “Compenso alla maestra elementare Parise Giustina” (N°193 del 30 dicembre 1886). “Rilascio dell’attestato di lodevole servizio agli insegnanti Parisi e Santilli (N°191 dell’11 maggio 1893). 

Erminia Cerrone: “Disposizioni per una inchiesta (!?) a carico della maestra elementare Cerrone Erminia” (N°309 del 28 settembre 1888). “Attestato di lodevole servizio alle maestre elementari sig.re Cerrone Erminia e Caniello Carmela” (N°83 del 12 maggio 1895).

Adelaide Sito: “Istanze delle maestre elementari signore Parisi, Cerrone e Sito per l’aumento sessennale” (N° 262 del 25 maggio 1894).

67. Alla seconda generazione, quella degli anni Novanta, appartiene invece la già citata Gemma Barraud (vedi sopra, n°55) che infatti venne assunta nell’ottobre del 1891, prendendo il posto della maestra Concetta Napolitano “messa a riposo”.

continua


Note

[1] Vedi n°1 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[2] Vedi n°2 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[3] Romano Bracalini – “La regina Margherita”, Ed. Rizzoli, 1982.

[4] Papa Paolo VI – “Populorum progressio”, 1967.

[5] Carlo Casalegno – “La Regina Margherita”, Ed. Einaudi, 1956.

[6] Michele Topa - “Così finirono i Borbone di Napoli”, Ed. Fausto Fiorentino, 1959.

[7] Francesco Saverio Merlino - L’Italie telle qu’elle est, Parigi, 1890.

[8] Anna Maria Mozzoni – “Ricordi e note dell’isola d’Elba” in “Critica sociale” del 10 maggio 1891.

[9] Sapevano parlare in italiano (ma non è detto che lo sapessero scrivere o leggere correntemente) solo ... i toscani, perché la lingua nazionale coincideva, più o meno, con il loro dialetto nativo.

[10] Nicola Lapegna – “Origini e storia di Barra”, Ed Novissima Antologia, 1929. 

[11] Nicola Lapegna, op. cit.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, maggio 2017

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