151. Il porporato spedì, a
favore de’ suoi, compagnie scelte, battaglioni regolari ed
alcune centinaia di Russi con parecchie bocche da fuoco. Fatta
allora un larga breccia, e ributtata dai repubblicani ogni
parola di resa, i sanfedisti vennero all’assalto e, respinti due
volte, alla terza entrarono.
152. Ma i difensori, benché
ridotti a 60, continuarono a combattere gagliardamente,
asserragliati in un angolo del forte. Ivi, il loro numero
scemando ad ogni istante, il Toscano, giovane prete di Cosenza,
capo del presidio, già gravemente ferito in testa, perch’egli e
i suoi compagni non rimanessero inutili, strascinandosi fino
alle polveri, vi appicca impavido il fuoco. All’orrendo scoppio
saltano in aria i cadaveri de’ vinti confusi con quelli de’
vincitori, in numero di parecchia centinaia.
153. Uno del presidio, per nome
Fabiani, accòrtosi del disegno del Toscano, mentre questi
approssimavasi stentatamente alle polveri, buttòssi in mare, e
nuotando andò a ricoverarsi entro Castel Nuovo, ove raccontò i
particolari di quel fiero ed ammirabil fatto”.
Lungo il fiume Sebéto
154. Caduto così eroicamente il
Vigliena, i repubblicani continuarono a resistere lungo il fiume
Sebéto al ponte della Maddalena, sotto la guida del generale
Wirtz
[1].
155. “Al dechinare del giorno,
ancora incerta era la fortuna su le sponde del piccolo fiume,
quando il generale Wirtz, colpito e stramazzato da mitraglia,
lasciò senza capo le schiere, senza animo i combattenti; ed al
partir di lui su la bara moribondo, vacillò il campo, trepidò,
fuggì confusamente in città.
156. Ed allora i borboniani ed
i làzzari, dispregiando il divieto di autorità cadente, uscirono
dalle case per andar armati contro la schiera del Bassetti; la
quale, saputo la morte del Wirtz, la perdita del ponte ed il
campo fugato, si ritirò, aprendosi il varco fra le torme plebee,
nel Castelnuovo”
[2].
157. Nella battaglia al ponte
della Maddalena, morì eroicamente, fra gli altri, anche il dotto
ed ormai anziano poeta Luigi Serio (1744-1799).
“Morì sulle sponde del Sebéto:
nome onorato da lui, quando visse, con le muse gentili
dell’ingegno, ed in morte col sangue. Il cadavere, non trovato
né cercato abbastanza, restò senza tomba; ma spero che, su
questa pagina, le anime pietose manderanno per lui alcun sospiro
di pietà e di maraviglia”
[3].
158. Questi furono, dunque, i
più notevoli fatti d’arme, narrati dagli storici, avvenuti in
Barra e nelle sue vicinanze in occasione della fine della
Repubblica napoletana del 1799.
Dai registri parrocchiali della
Barra
159. Una attenta ricognizione
dei nostri registri parrocchiali è stata fatta dal compianto
prof. Giorgio Mancini di Ponticelli, nell’àmbito di una indagine
su tutti i registri parrocchiali della diocesi di Napoli
nell’anno 1799, condotta con una èquipe di suoi studenti
[4].
160. E’ necessario qui
premettere che, subito dopo la fine della Repubblica, il
cardinale arcivescovo di Napoli, Giuseppe Maria Capece Zurlo
(1711-1801), per ordine del re, venne spogliato di tutti i suoi
poteri ed obbligato a delegarli.
Il 5 agosto 1799 il cardinale
partì per Montevergine, recluso “e come reo e come scimunito”
fino alla morte avvenuta il 31 dicembre del 1801, e non poté
nemmeno partecipare al Conclave, che si tenne a Venezia tra la
fine del ‘99 e l’inizio del 1800, dal quale uscì eletto il Papa
Pio VII.
161. Delegò i suoi poteri a
Mons. Vincenzo Torrusio, di Cannalonga, allora Vescovo di
Capaccio ed in seguito Vescovo di Nola dal 1804 fino alla morte
nel 1823.
162. Mons. Torrusio era un
sanfedista militante, giunto in città al seguito del card.
Fabrizio Ruffo nel cui esercito aveva combattuto, e si pose
subito all’opera: eseguendo la volontà del re, ordinò una
“Correzione generale” dei registri parrocchiali, allo scopo di
eliminare dai registri stessi “tutte le espressioni analoghe
alla passata detestabile rivoluzione contro il nostro
amabilissimo Sovrano”.
Si trattava, in pratica, di far
scomparire dai libri parrocchiali il titolo di “cittadino” che
era stato talvolta premesso al nome, la dicitura “anno primo
della repubblica napoletana” che accompagnava la menzione
dell’anno 1799, ed altre espressioni simili.
163. La “Correzione generale”
venne affidata all’Ufficio di Santa Visita, all’epoca composto
da: Gaetano Buonanno (segretario); Ferdinando Panico (avvocato
fiscale); A. Celentano (promotore fiscale); Salvatore Criscuoli
(cancelliere) e Gennaro Ciarlone (pro-cancelliere).
A volte ci si limitava a
cancellare il più possibile, con la penna d’oca, le espressioni
“incriminate”; il più delle volte, però, si provvedeva a
sottrarre le pagine ed a sostituirle con un identico numero di
pagine ri-scritte in modo “politicamente corretto”.
164. A Barra, le correzioni
risultano firmate direttamente dal Segretario di Santa Visita
Gaetano Buonanno.
Il Libro dei battezzati
165. Il Libro XII (1769-1801)
dei battezzati, fu da lui “Visto dal foglio 231 al foglio 246”
ma non riscontrò alcunché da correggere; anzi, l’unica
correzione che avrebbe potuto fare gli sfuggì. Al foglio 239,
troviamo infatti tuttora scritto:
“A 5 gennaio 1799, primo Anno
della Repubblica Napoletana,
Teresa Catarina, figlia di
Domenico Langella e di Maria Pagano, coniugi di questa
parrocchia, abitanti alle case del Marchese De Luca, è stata
battezzata da Don Gaetano Ascione; è tenuta al S. Fonte da Maria
Giuseppina Verde, mammana”.
166. Al 28 febbraio 1799,
troviamo registrato il battesimo di Maria Carmela Ascione, la
futura Suor Maria Luisa di Gesù, fondatrice delle Suore “della
Stella mattutina” (vedi Appendice a lei dedicata).
Il Libro dei matrimoni
167. Il Libro VI (1775-1801)
dei matrimoni, risulta “Visto dal foglio 59 al foglio 68” e vi è
un solo intervento: l’espressione “primo Anno della Repubblica
Napoletana” cancellata in un matrimonio “a diece gennaro mille
settecento novanta nove”.
168. La cosa più interessante
però è che il Libro registra appena 9 matrimoni tra il 21
gennaio ed il 24 marzo e presenta addirittura un vuoto totale
tra il 25 marzo ed il 1°agosto: forse, davvero nessuno pensò di
organizzare le proprie nozze in quel clima di disordine e di
scontri armati; o forse, aveva più effetto il matrimonio
celebrato civilmente ai piedi dell’albero della libertà!
Il Libro dei defunti
169. Il Libro VI (1766-1801)
dei defunti è quello più problematico. Anche qui, al Correttore
è sfuggito un “primo Anno della Repubblica Napoletana”, rimasto
tuttora nell’indicazione di un defunto il 16 gennaio 1799.
170. Più significativo è però
il fatto che, nei giorni 22-23-24 gennaio sono registrati ben 20
decessi in appena 72 ore, con una media di gran lunga superiore
a quella della mortalità normale, e tutti con la dicitura “morto
disgraziatamente e senza Sagramenti”.
Il giorno 22 gennaio (11
persone): Francesco VENERUSO di anni 60; Angelo NAPPO di anni
28; Gaetano LANGELLA di anni 20; Antonio NAPPO di anni 13;
Pasquale Aniello ZINNO di anni 40; Angelo e Vincenzo NAPPO
(padre e figlio) rispettivamente di anni 50 e di anni 21;
Giuseppe MAGNANO di anni 31; Salvatore CIERRO di anni 22;
Domenico CACCIOLA di anni 34; Luigi BORRELLI di anni 12.
Il giorno 23 gennaio (5
persone): Angelo VEROLINO di anni 9; Gennaro PERNA di anni 34;
Salvatore GARGIULO di anni 30; Evangelista VELOTTA di anni 26;
Giuseppe PUNZO di anni 46.
Il giorno 24 gennaio (4
persone): Saverio CURCIONE di anni 50 “trovatosi in mezzo alle
paludi”; Onofrio LIPPOLIS di anni 60; Domenico PUNZO di anni 18,
figlio di Giuseppe di anni 46 (morto il giorno prima); Giosuè
D’ELIA di anni 30.
Vi è inoltre, come 21°, Rocco
SORIA di anni 17, anch’egli “morto disgraziat.te e senza
Sagram.ti” il 28 gennaio.
171. Queste persone sono tutte
di sesso maschile; quasi tutte relativamente giovani, con solo
due sessantenni e due cinquantenni, ed il resto di età
inferiore, addirittura di 18, 17, 13, 12 e finanche 9 anni.
Risultano morte in luoghi diversi, e sepolti alcuni sotto la
chiesa parrocchiale ed altri sotto la chiesa di fronte alla
parrocchia (congregazione Ave Gratia Plena); altri ancora in
quella dei Francescani conventuali; ed altri infine in quella
“della Sanità” dei Domenicani.
172. I giorni tra il 22 ed il
24 sono proprio quelli nei quali l’esercito francese, occupando
la zona ad oriente di Napoli, strinse d’assedio la città, difesa
strenuamente dai làzzari (vedi sopra, nn°37-43).
E’ perciò molto probabile,
anche se impossibile da documentare con certezza, che almeno una
parte di queste persone furono uccise per aver cercato di
difendere le loro povere casùpole di campagna dalle “razzìe” di
generi alimentari che servivano a nutrire i soldati francesi
occupanti.
Una strana carta post-datata
173. Vi è poi una strana carta,
datata 14 ottobre 1802 ed aggiunta nel registro al mese di
gennaio 1799, a cura di mons. Gaetano Miceli, in quel tempo
vescovo ausiliare del nuovo cardinale arcivescovo Luigi Ruffo
Scilla
[5].
174. La carta dice: “A quanti
leggeranno, rendiamo noto e testimoniamo che Gaetano Giodice e
Maddalena Ascione, del Casale della Barra, contrassero
matrimonio, alla presenza del Coadiutore della Parrocchia di
detto Casale e come da licenza dello stesso Reverendo Parroco,
il giorno 9 gennaio 1790 … ”
175. Dopo di che:
… eundemque Cajetanum Giodice,
sub die vigesima mensis Ianuarii anni 1799 nonagesimi noni una,
cum pluribus eius concivibus, dum in una domu eiusdem Casalis
Barrae doliolum nitrati pulveris inter se dividebant, accenso
inopinato igne, eaque collapsa, mortem miserrima subjisse,
eorumque cadavera post aliquot dies effossa in praedicta ven.
Par.li Ecclesia sepulta fuisse …
Vale a dire:
… e lo stesso Gaetano Giodice,
il giorno 21 gennaio 1799, con alcuni suoi concittadini, mentre
in una casa del detto Casale della Barra dividevano fra di loro
un barilotto di polvere da sparo, acceso fuoco inopinàto, e
crollata la casa, subirono miserrima morte, ed i loro cadaveri
dopo qualche giorno furono sepolti nella predetta venerabile
Chiesa parrocchiale (della Barra) …
176. Per incuria e dimenticanza
dell’allora Reverendo Parroco (don Michele Ràiola, morto nel
settembre 1799), le circostanze della morte ed alcuni dei nomi
non furono annotati nel Libro dei defunti; ma con prove
documentali e giovandosi della testimonianza di due persone
degne di fede, abbiamo ora riportato negli atti la deposizione
dei testi.
177. Vogliamo pertanto che la
testimonianza della morte del suddetto Gaetano Giodice sia
comunicata al Reverendo Parroco (dal marzo 1801 al dicembre
1803: don Cosimo Barbato) e da questi annotata e conservata”.
178. Come si può interpretare
questa strana carta? La data del 21 gennaio deve far pensare ad
un gruppo di paesani, sicuramente filo-borbonici ma
evidentemente inesperti di polvere da sparo, che tentavano di
preparare qualche sorpresa contro l’esercito francese occupante?
Oppure, come ipotizza il prof. Centanni, stavano spartendo fra
di loro il bottino di un furto ai danni dei Francesi? O il
barilotto era semplicemente scivolato via da un carro di
munizioni dell’esercito francese e fu trovato per caso?
179. Comunque, appare poco
probabile che i 21 uomini segnati nel registro, più Gaetano
Giodice, siano morti tutti a causa di quella esplosione, tanto
più che essi risultano morti non “in una casa” ma in case
diverse, ed inoltre di essi solo alcuni furono “sepolti nella
chiesa parrocchiale” mentre altri furono sepolti in altre
chiese.
180. Si potrebbe pensare che
solo quelli registrati come “seppelliti nella chiesa
parrocchiale” siano stati vittime dell’esplosione e quindi, in
tal caso, 8 persone: Domenico Càcciola di anni 34; Angelo
Verolino di anni 9; Gennaro Perna di anni 34; Salvatore Gargiulo
di anni 30; Giuseppe Punzo di anni 46 e suo figlio Domenico, di
anni 18; Onofrio Lippolis di anni 60; e Giosuè d’Elia di anni
30.
In questa ipotesi, il luogo più
probabile dell’esplosione sarebbero “le case di Antonio
Gianniello” in cui risultavano abitare Giuseppe e Domenico Punzo,
padre e figlio.
181. Si tratta, in ogni caso,
di semplici congetture e probabilmente nessuno saprà mai come
sono andate realmente le cose.
182. Ma perché questa carta fu
aggiunta solo più di 3 anni dopo i fatti? Fu veramente solo “per
incuria e dimenticanza” del peraltro anziano don Michele Ràiola?
O fu invece la scelta consapevole di un saggio “pastore” che, in
quei momenti di mutevoli ed incerte circostanze, volle evitare
di “compromettere”, politicamente e/o penalmente, le famiglie di
quei poveri morti?
I morti di giugno
183. Nel mese di giugno, quando
erano le masse sanfediste ad assediare la città, difesa adesso
dai repubblicani, troviamo registrati, come “morti
disgraziatamente e senza Sagramenti”, soltanto: Filippo
ESPOSITO, marito di Marianna LAVOLLA, di anni 35 (morto il 6
giugno); Domenico ROMANO di anni 28 (morto l’11 giugno);
Raffaele Domenico SCOGNAMIGLIO di anni 23 (morto il giorno 16).
Più una giovinetta: Gesualda TESTA di anni 18, morta il 21
giugno, dopo aver “ricevuto il solo Sagramento dell’Estrema
unzione”.
La repressione repubblicana
184. Nel “Monitore napoletano”
N°19 di Sabato 13 aprile 1799, Eleonora Pimentel Fonseca
scriveva:
“Una nostra egregia Cittadina,
Luisa Molina Sanfelice, svelò venerdì sera (5 aprile 1799) al
Governo la cospirazione di pochi non più scellerati che
mentecatti, i quali fidando alla presenza della squadra Inglese,
o di concerto con essa … (il 2 aprile era apparsa nel golfo la
squadra composta di navi inglesi, portoghesi e napoletane,
comandata dal Troubridge, luogotenente di Nelson) … intendevano
nel sabato massacrare il Governo, i buoni patrioti, e tentare
indi un controrivoluzione.
Capo del folle iniquo progetto
era un tal Baccher tedesco di origine, addetto al commercio
presso il Mercante Abbenanti, e che fu quella stessa notte
arrestato, e condotto la mattina seguente, strascinando sotto il
braccio le bandiere règie, che furon trovate presso di lui.
Vi si trovaron similmente varie
carte di sicurezza, le quali dovevan dispensarsi, o simili alle
quali erano state dispensate, a chi si voleva salvare,
destinando i rivoltosi tutto il resto (in fantasia) all'eccidio.
Sono, a quel che dicesi, tali carte segnate dell'arme di
Ferdinando, e del leone inglese.
Varie carcerazioni son poscia
seguite, ed il monastero di S. Francesco delle Monache, attesa
l'opportunità del suo locale che forma come un’isola, è
destinato per custodirvi i detenuti, avendolo a tal oggetto
evacuato quelle religiose, col passar all'altro di Donna Alvina.
Fra gli arrestati si contano
finora oltre il nominato Baccher e suoi figli, il sotto-parroco
del Carmine, l'ex‑Principe di Canosa, i due fratelli Magistrato
e Vescovo Jorio, e l'altro Magistrato Gio. Battista Vecchione.
Un deposito di circa 150 fucili
si trovò subito, un altro di varie sorti di armi e munizioni si
è trovato nascosto nella dogana …
… la nostra Repubblica altresì
non deve trascurar di eternare il fatto e il nome di questa
illustre Cittadina. Essa, superiore alla sua gloria, ne invita
premurosamente di far pubblico che ugualmente con lei è
benemerito della Patria in questa scoperta il Cittadino Vincenzo
Cuoco”.
185. Che cosa stava dunque
accadendo? Semplicemente che, nei 6 mesi della Repubblica, alle
cospirazioni dei giacobini contro i Borbone (vedi sopra, nn°49-51)
subentrarono le cospirazioni dei borbonici contro i giacobini.
I fucilati durante la Repubblica
186. “Nel tempo stesso
cominciarono i castighi esemplari delle fucilazioni, come quella
eseguita il 10 aprile al Mercato, di undici cittadini della
Torre, che avevano promosso un'insurrezione.
187. La partenza dei francesi
accrebbe le agitazioni e portò nuovi arresti e nuove esecuzioni
capitali. Il 6 maggio vennero fucilati gli assassini dei due
Filomarino: un contemporaneo racconta lo spettacolo pauroso di
quell'esecuzione, per la quale si videro schierate qualche
centinaio di guardie nazionali in doppia fila, circondate e
quasi premute da un'immensa folla ruggente, che pareva volesse a
ogni istante soverchiarle.
188. Una decina di giorni dopo,
l'alta Commissione militare faceva fucilare un prete, Giovanni
de Napoli di Cassano, che aveva gridato:- Viva il Re!, e tre
paesani di Mugnano, anche rèi di provocata insurrezione”
[6].
189. Di altre fucilazioni
veniamo a sapere da un documento riportato da Benedetto Croce
solo a piè di pagina:
“Nell'agosto del 1799 il Re,
avendo determinato di usare generose sovrane beneficenze verso
le benemerite famiglie delle persone che per la loro fedeltà
furono fucilate in tempo dell'infame sedicente governo
repubblicano, ordinava al direttore di Polizia di formare
l'elenco delle dette famiglie.
Nel febbraio 1800, ottenuto
l'elenco, provvedeva col seguente dispaccio: Avendo il Re letta
la nota … delle diverse persone, che nella passata anarchia
furono fucilate, nel Real Sito di Capodimonte ed in questa
capitale, per la di loro fedeltà ed attaccamento massime alla
Real Corona, si è benignata in séguito Sua Maestà di assegnare
sopra li beni dei ribelli li seguenti mensuali sussidi alle
rispettive famiglie di dette persone fucilate:
Biase Liguoro, Aniello Seca,
Natale Avolio, Raffaello Romano, Gennaro di Petrillo, Nunzio
Raia, Santolo Schettino, Niccola Napoletano, Angelo Natale,
Saverio Grieco, Luigi Santagata, Antonio di Lieto, Francesco
Vigliotta, Carlantonio Genovese, Giovanni di Jase, Carmine
Ruggiero, Crescenzio Lucarelli, Aniello Vecchione, Filippo
Esposito, Raffaello Scognamiglio, Salvatore Acampa, coniugi
Gennaro di Mauro e Maddalena Seca, Michele Errico, Gaetano
Musella, Nunzio Ippolito, Carmine Graziano, Gennaro di Napoli,
Ignazio Fasulo, e Giuseppe Martucci detto “Sei Carlini”: in
tutto, 30 persone”.
190. E’ giusto richiamare
dall’oblio e rendere il dovuto onore a queste e a tutte le altre
vittime delle repressione repubblicana, che sono state sempre
pudicamente trascurate dagli storici di parte liberale, non
volendo essi che troppa ombra oscurasse il volto della gloriosa
Repubblica.
La cospirazione dei Baccher
191. Fra le varie cospirazioni
organizzate dai borbonici contro i repubblicani durante quei sei
mesi del 1799, “la cospirazione formata dalla famiglia Baccher
fu non solo la prima per tempo ma una delle più importanti, sia
per la qualità dei componenti e l’estensione che assunse e gli
appoggi che si procurò, sia perché stava per passare ai fatti in
un momento assai pericoloso”
[7].
192. “Vincenzo de Gasaro, ricco
negoziante, capo della famiglia, era figliuolo di un'Orsola
Romano, che aveva sposato in prime nozze un Girolamo Baccher
(oriundo tedesco o inglese, come appare dal cognome), e in
seconde, un Gerardo de Gasaro; e il figlio Vincenzo, per
gratitudine verso i suoi fratelli uterini dai quali era stato
allevato, aveva aggiunto al suo cognome quello di Baccher, che
poi prevalse.
Vincenzo, nato nel 1733 e
maritato nel 1762 con Cherubina Cinque, aveva parecchi
figliuoli: cinque maschi, che si chiamavano Gennaro, Gerardo,
Giovanni, Camillo e Placido, e due femmine, Orsola e Rosa”
[8].
I maschi erano tutti avviati
nella carriera militare, tranne l’ultimo, Placido di nome e di
fatto, allora impiegato nel commercio, e che divenne in seguito
popolarissimo sacerdote nonché Rettore della chiesa del Gesù
Vecchio in Napoli.
Invece, “le due figliuole erano
maritate con due fratelli Ghio, famiglia anche questa di
negozianti napoletani”
[9].
Gerardo Baccher, Luisa Sanfelice e … gli altri
193. “La sollevazione della
plebe contro i francesi e i patrioti portava con sé stragi,
rapine e incendi. Per riconoscersi scambievolmente e per salvare
dai danni le persone che si sapevano fedeli ai Borboni, i
congiurati avevano preparato biglietti di assicurazione (“carte
di sicurezza”), e li distribuivano segretamente.
194. Ora, uno di questi
biglietti, il giovane Gerardo Baccher, corteggiatore di Luisa
Sanfelice, non seppe trattenersi dal dare alla donna da lui
amata, dicendole che, in caso di tumulto e pericoli, l'avesse
mostrato e sarebbe stata salva.
195. Quali relazioni si fossero
stabilite tra Luisa e il giovane Baccher, non si può dire con
sicurezza … Quel che solo risulta chiaro, da molteplici
testimonianze e dai fatti che seguirono, è che uno dei figliuoli
di Vincenzo de Gasaro Baccher, Gerardo, aveva concepito per
Luisa Sanfelice un affetto cosi tenero, che poteva, forse,
essere anche amore.
196. Meno chiare sono le
circostanze per le quali il biglietto, che doveva restare nelle
mani di Luisa, servi a scoprire l'opera dei congiurati. Ma
sembra certo, per concordi attestazioni, che Luisa avesse un
altro amico, ch'era repubblicano, e che il biglietto passasse
nelle mani di costui.
197. In qual modo? Qualcuno
vuole che l'amante lo scoprisse casualmente: ma parecchi altri,
ed i più credibili, narrano la cosa con un particolare assai
pietoso. Luisa, timorosa più per la sorte del suo amico
repubblicano che per sé stessa, spinta dalla sua passione, gli
affidò il biglietto avuto dal Baccher, tacendone la provenienza
e solo accennando il pericolo.
198. Il giovane repubblicano si
affrettò a comunicare tutto al governo. Luisa, interrogata, non
volle dire donde avesse avuto il biglietto; ma quella carta
bastò da sola a mettere sulla traccia dei congiurati, e a farli
arrestare.
199. Il nome dell'amante
repubblicano ci è stato conservato dal Colletta. Era un giovane,
Ferri: Ferdinando Ferri, nato da una famiglia di magistrati,
aveva allora 32 anni, ed era entrato anch'egli in magistratura
come addetto all'udienza di Aquila. Venuto a Napoli sulla fine
del 1798, si converti di poi alla repubblica, seguendo forse
l'esempio e la persuasione del suo maestro, già poeta di corte e
allora fervido repubblicano, Luigi Serio.
I suoi primi passi di
repubblicano non furono privi di difficoltà, perché dovette
giustificarsi delle accuse mossegli di essere stato tra
gl'informatori del passato governo. Forse la sua prontezza a
scoprire la congiura provenne anche dal desiderio di purificarsi
da ogni sospetto e completamente rifarsi innanzi alla pubblica
opinione.
200. Ma un altro nome appare in
quel tempo accanto a quello della Sanfelice: il nome di Vincenzo
Cuoco; e alcuni dicono che proprio il Cuoco, e non già il Ferri
nominato dal Colletta, fosse l'amante repubblicano.
201. La cosa più probabile è
che al Ferri realmente si dovesse la rivelazione, ma ch'egli
restasse in disparte; e il Cuoco, o chiamato da lui o in qualche
modo conoscente della Sanfelice, servisse di consigliere e di
guida nelle relazioni che la povera donna dovette avere, in
quell'occasione, con la polizia e col governo repubblicano”
[10].
Come andò a finire: i Baccher
202. Ecco la nota del Registro
parrocchiale di Santa Barbara, edita da Ludovico de la Ville
sur-Yllon nel suo articolo “La chiesa di santa Barbara in
Castelnuovo”, in Napoli nobilissima, rivista di topogr. ed arte
napol., vol. II, 1893, p. 173:
“A 13 Giugno 1799.
Natale d'Angelo, di anni 46
circa, tintore del Serraglio, marito di Maria Reviello, munito
del Sacramento della Penitenza e SS. Viatico, morto fucilato e
sepolto in questa Real Chiesa alle ore 23 circa.
D. Gennaro de Gaserò Baccher,
Uffìziale della Real Gontatoria di Marina, figlio di D.
Vincenzo, d'anni 32 circa, munito dei SS. Sacramenti, morto
fucilato e sepolto in questa Real Chiesa alle ore 23 circa.
D. Gerardo de Gaserò Baccher,
Tenente del Reggimento Cavalleria Moliterni, e Quartier mastro,
figlio di D. Vincenzo, d'anni 30 circa, munito dei SS.
Sacramenti, morto fucilato e sepolto in questa Chiesa.
D. Ferdinando La Rossa, figlio
del fu D. Giuseppe, d'anni 30 circa, Uffiziale del Banco di S.
Eligio, munito dei SS. Sacramenti, morto fucilato e sepolto in
questa Chiesa.
D. Giovanni La Rossa, figlio
del fu D. Giuseppe, d'anni 26 circa, soprannumero del Banco di
S. Eligio, munito dei SS. Sacramenti, morto fucilato e
seppellito in questa Real Chiesa”.
203. “Il 13 giugno, supremo
giorno della repubblica, segnò anche la morte dei Baccher. Il
loro processo era stato istruito, ma la condanna non ancora
pronunciata. Ora si volle finirla.
204. Si fecero insistenze
perché il processo si affrettasse, e tra i patrioti che
firmarono un memoriale a questo fine fu Ferdinando Ferri, per la
qual cosa fu condannato poi all'esportazione.
La vendetta e la crudeltà
presero la maschera di una necessaria misura di rigore, che
avrebbe allontanato il pericolo di una sollevazione della plebe
alle spalle delle milizie repubblicane, uscenti dalla città per
tenere testa alle orde del Ruffo.
205. Ci fu un simulacro di
giudizio, e la regolare esecuzione di una condanna ... L’alta
Commissione militare pronunciò la sentenza di morte … In
Castenuovo, erano raccolti molti prigionieri politici,
personaggi d'importanza, che potevano anche essere utili come
ostaggi … ma, invece, solamente i due Baccher, i La Rossa e il
D'Angelo furono chiamati e condotti nel confortatorio.
Dopo qualche ora, quei cinque
sventurati furono menati nella piazzetta di Castelnuovo, dove si
doveva eseguire la sentenza. Ma giunsero contrordini; forse
prevalsero per un momento consigli più miti e più savi. I
condannati furono fatti rientrare. Sennonché, sopravvenne dopo
un po' la conferma dell'ordine ed essi vennero ricondotti sulla
piazza.
Si ebbe ancora qualche altra
incertezza; e finalmente si procedette all'esecuzione. Ed
essendo i soldati di linea tutti sui luoghi di combattimento, si
adibirono per la fucilazione i militi della guardia nazionale.
I cinque affrontarono intrepidi
la morte, tutti contenti e lieti di riceverla per una cosi degna
e santa causa.
206. Questa strage, che fu un
colpo di testa della Commissione esecutiva, macchiò gli ultimi
momenti della Repubblica. Gli stessi scrittori repubblicani la
riprovarono. Vincenzo Cuoco dice che il tribunale rivoluzionario
si tinse inutilmente del sangue degli scellerati Baccher. E
certo dovette servire in qualche modo a giustificare, negli
animi di Ferdinando e di Carolina, le stragi che avrebbero fatto
poi, essi, dei repubblicani”
[11].
Come andò a finire: la Sanfelice,
Ferri e Cuoco
207. La Sanfelice venne in quel
momento esaltata come eroina e salvatrice della patria
repubblicana; in seguito, col ritorno dei Borbone, condannata a
morte. La sua vicenda è ben nota, per essere stata molte
(troppe?) volte raccontata in seguito, trasfigurandola
ingiustificatamente in una sorta di “icona” o romantica o
proto-femminista.
208. “La sorte fu più benigna a
Vincenzo Cuoco e a Ferdinando Ferri. La loro causa fu in certo
modo separata da quella della Sanfelice. E che codesto riuscisse
pel Ferri, ch'era rimasto nell'ombra, s'intende; ma pel Cuoco,
nominato anch'esso dal Monitore … intenderlo è più difficile …
Quel ch'è certo, egli se la cavò con la semplice deportazione in
Francia, come pure Ferdinando Ferri, che fu imbarcato per
Marsiglia il 28 aprile 1800.
Gettati su terra straniera,
lasciavano a Napoli, in un carcere, colla condanna di morte
sospesa sul capo, quella donna che l'opera e il consiglio loro
avevano condotta fatalmente ai piedi del patibolo”
[12].
209. Ferdinando Ferri, il
personaggio forse più meschino ed ambiguo di questa storia,
ritornò poi a Napoli all’inizio del Decennio francese, senza far
troppo parlare di sé; dopo la seconda restaurazione (1815), si
condusse sempre da fedele suddito borbonico, facendo carriera
nell’alta amministrazione, e morì novantenne nel 1857.
210. “Vincenzo Cuoco … dopo
aver passato qualche tempo in Francia, in conseguenza della
vittoria di Marengo tornò in Italia, fermandosi in Lombardia.
Nel 1801 pubblicava la prima edizione del famoso “Saggio
storico” e nel 1805 il “Platone in Italia”.
Nel 1806 tornò in patria,
ricondottovi dalla conquista francese, e fu del Sacro Règio
Consiglio, poi passò nella Suprema Corte di Cassazione e divenne
Consigliere di Stato.
Nel 1815, al ritorno dei
Borboni, cominciò a dare segni di follia; e il male crebbe
sempre più, finché la sua ragione s'estinse del tutto … la
pazzia fu effetto, come so per tradizione, di eccessive fatiche
intellettuali. Pazzo, in un cattivo momento, bruciò molti suoi
manoscritti, dov'era inedita, tra l'altro, la seconda parte del
“Platone”. Una mia vecchia prozia, un po' sua parente, mi
raccontava di ricordarselo in quel misero stato, che montava in
furia, quando alcuno inconsideratamente chiamava ad alta voce,
lui presente, il suo servitore, di nome Ferdinando.
Morì il 13 dicembre 1823, di 53
anni, nella casa dei marchesi De Attellis alla salita Tarsia”
[13].
Gioacchino Toma,
Luigia Sanfelice trasportata da Palermo a Napoli il 2 settembre per essere
decapitata, 1884. Olio su tela, cm 114 x 177. Napoli, Museo Pignatelli |
La repressione borbonica
211. Il card. Fabrizio Ruffo
aveva concluso con i repubblicani un onorevole accordo di resa,
in base al quale questi si impegnavano a sgombrare senza
combattere i Castelli della città, ottenendo in cambio di
potersi imbarcare su navi francesi per andare in esilio in
quella Nazione, ma ... vedi sopra, nn°106-108.
212. Una Giunta di Stato (per i
civili) e una Giunta di generali (per i militari), appositamente
costituite, pronunciarono sentenze su circa 8.000 detenuti (solo
in città) per “i gravi disordini accaduti in codesta Città e
nelle provincie del Regno”.
213. Di questi 8.000 detenuti:
Condannati a morte: 105, di cui
99 eseguiti e 6 graziati dal Re.
Condannati al carcere vita
durante: 222.
Condannati a diverse pene
temporanee: 322.
Condannati all’esilio: 355.
Tutti gli altri (= poco meno di
7.000 persone su 8.000) furono rimessi in libertà in pochi mesi.
214. Fu davvero così barbara e
spietata questa repressione? E la pena di morte non era allora
prevista nella legislazione di tutti i paesi europei? Comunque,
i 99 giustiziati erano tutti quelli che avevano avuto compiti di
responsabilità nella Repubblica e/o avevano combattuto in armi
per essa: ed era, in pratica, quasi tutta quella che si riteneva
“l’avanguardia intellettuale” del Regno, proveniente dalla
borghesia in ascesa ma anche, in cospicua parte,
dall’aristocrazia e dal clero più “illuminati”.
215. Vincenzo Cuoco, in
appendice al suo celebre “Saggio storico sulla rivoluzione di
Napoli del 1799” pubblicò un “Elenco in ordine alfabetico dei
patrioti giustiziati, a Napoli e nelle isole, a seguito della
repressione borbonica dopo la caduta della Repubblica napoletana
del 1799”, che ammontano in tutto a 120.
 |
Il rientro a Napoli di Ferdinando
|
Per quanto riguarda la Barra
216. In particolare,
nell’elenco, troviamo fra gli altri:
“Magliano Nicola, nato a Napoli
il 1739, avvocato. Giustiziato a Napoli il 19 novembre 1799”.
La famiglia Magliano possedeva
in Barra un palazzo (palazzo Magliano, appunto), con corte
interna e terre agricole di pertinenza, ben visibile nella mappa
del duca di Noja, proprio di fronte alla parrocchia “di S.
Anna”. Il palazzo fu abbattuto nel 1975 ma il nome rimane a
tutt’oggi, nella tradizione orale, per indicare il rione di
Barra che è sorto sopra quelle che erano le terre dei Magliano.
Si dice ancora: ‘ncoppa ‘a terra ‘e Magliano ed anche: dint’ ‘o
palazzo ‘e Magliano.
217. “Roselli Clino, nato ad
Esperia (allora, in provincia di Caserta) il 14 marzo 1754;
professore di ingegneria nell’Accademia militare. Giustiziato a
Napoli il 28 novembre 1799”.
Lo storico Gabriele Monaco
[14], oltre ad aggiungere il
particolare che il Roselli venne afforcato quel giorno in Piazza
Mercato insieme ad altre 7 persone, tutti poi sepolti nella
chiesa di S. Eligio, riporta anche l’opinione di altri studiosi
secondo i quali Clino Roselli sarebbe in realtà nato proprio a
Barra o quantomeno da famiglia barrese.
Ciò è confermato dal fatto che
il cognome Roselli è ben attestato nella Barra del Settecento:
basti dire che un don Salvatore Roselli fu parroco di Barra dal
1743 al 1761.
Fu questo parroco a dare gli
ultimi conforti religiosi a Francesco Solimena, nella sua villa,
il 5 aprile del 1747, e a firmarne l’atto di morte, custodito
nell’archivio della parrocchia “Ave gratia plena” (AGP, detta
popolarmente “di S. Anna”) di Barra.
Fu lui, anche, che nel 1743
operò, in qualità di cappellano della confraternita parrocchiale
della SS. Annunziata (= “Ave gratia plena”, AGP) il
trasferimento della stessa nella vecchia chiesa di S. Atanasio,
che fu per l’occasione restaurata con una nuova facciata (che è
sostanzialmente quella che ancora oggi vi si vede) e, in
seguito, abbellita con tele del maggior allievo barrese del
Solimena, Gian Battista Vela
[15].
E’ molto probabile che Clino
Roselli fosse un nipote del parroco Salvatore Roselli.
Don Gaetano Morgèra alla Barra
218. Va poi senz’altro
menzionato Don Gaetano Morgèra (nato a Forio d’Ischia il 4
gennaio 1770 – morto il 22 ottobre 1799).
“Napoli, 23 ottobre 1799. La
Giunta di Stato da’ conto delle sentenze profferite contro i
seguenti individui …
Gaetano Morgera, indegno
Ministro dell’Altare: per essere stato il più accanito
Repubblicano; per essersi ascritto alla Sala Patriottica; per
aver vestiti abiti tricolori, e cinta sciabola; per aver usate
positive insolenze nel Monastero de’ Frati della Stella di S.
Giovanni a Teduccio, con introdursi in esso donne; per aver
sparlato ed insinuato agli altri a maledire il Governo delle
Sacre Persone; per aver fatta seguire la carcerazione di Donna
Rosa Escobar nella Chiesa di S. Giovanni a Teduccio mentre vi
era esposto il Venerabile; e per essersi finalmente armato con
altri per resistere all’ingresso delle armi di Sua Maestà verso
la Barra;
è stato condannato a pieni voti
a morir sulle forche, precedente dissacrazione, colla confisca
de’ beni, e si è disposta l’esecuzione della sentenza”.
Questa sentenza venne
pronunciata il 20 ottobre 1799 dalla Giunta di Stato di Napoli,
su relazione del giudice Angelo di Fiore ed eseguita in Piazza
Mercato a Napoli il 22 ottobre. I resti mortali furono inumati
nella vicina Congrega del Carmine a Napoli. L’originale della
sentenza è custodito presso l’Archivio di Stato di Palermo.
Minichino e Sannino
219. Domenico Ambrasi,
trattando de “Il clero di Napoli nel 1799 fra rivoluzione e
reazione” nella rivista “Campania Sacra” (vol. 22, anno 1991,
pag. 72), scrive:
“Ai liberali francesi inneggiò
pure il domenicano Domenico Minichino (“figlio di Gennaro, di
anni 38”), che nella nativa Barra celebrò l’innalzamento
dell’albero della libertà distribuendo coccarde tricolori e il
22 gennaio 1800 fu condannato, assieme ai complici Nicola
Minichino, Arcangelo Sannino (“figlio del fu Sabato, di anni
31”) e Santo Sannino (“sacerdote secolare, figlio del fu Sabato,
di anni 32”), all’asportazione fuori da’ Reali domìni…”
(Filiazioni de’ rei di Stato condannati dalla Suprema Giunta di
Stato … in vita e a tempo, ad essere asportati da’ Reali domìni,
Napoli, 1800, ad nomen).
220. Potrebbe allora essere
Domenico Minichino il “democratizzatore” (vedi sopra, n°76)
della Barra? Ciò non può dirsi con certezza.
Di sicuro, era un frate
domenicano, aveva 38 anni, e doveva essere un fraticello
abbastanza còlto ed entusiasta, perché si infiammò rapidamente
alle nuove idee liberali provenienti dalla Francia
rivoluzionaria, anche se (o forse proprio perché…) queste
prevedevano, fra l’altro, che i conventi dovessero essere chiusi
e i preti potessero sposarsi.
Altrettanto di sicuro, “nella
nativa Barra celebrò l’innalzamento dell’albero della libertà
distribuendo coccarde tricolori” e gli altri tre (suo fratello
Nicola, e poi Arcangelo e Santo Sannino) sono menzionati dopo di
lui e qualificati come “suoi complici”.
Questo non è però sufficiente
per concludere che fosse proprio lui il “democratizzatore”,
anche se al momento non si vede chi altri potesse esserlo.
Forse, lo stesso avvocato Nicola Magliano, che partecipò
attivamente alle vicende della Repubblica in Napoli, e che aveva
proprio alla Barra il suo palazzo?
221. E così pure, di queste due
coppie di fratelli Minichino e Sannino, null’altro si riesce a
sapere, successivamente alla condanna all’esilio: può darsi che
siano morti senza aver potuto rivedere il proprio paese di
origine o invece che siano rientrati, con discrezione, durante
il decennio francese.
Emmanuele Mastelloni (1750-1835)
222. Emmanuele Mastelloni
nacque a Napoli il 1°gennaio 1750, figlio di Michelangelo e di
Anna Brancaccio, come risulta dall’atto di battesimo nella
chiesa di S. Liborio alla Carità.
223. Nel 1785 entrò nella
Magistratura, ricoprendo vari incarichi, che lo portarono a
Salerno, a Chieti, a Lucera, fino a che, nel novembre 1797,
venne nominato “avvocato dei poveri” nella Gran Corte criminale
di Napoli.
Nel frattempo, già dal 1786
aveva aderito alla Massoneria: nel marzo di quell’anno, il
vescovo luterano Friedrich Münter, storico delle religioni e
orientalista, giunse dalla Danimarca a Napoli in visita a
Gaetano Filangieri; ufficialmente, lo scopo del suo viaggio era
solo quello di approfondire lo studio delle antichità italiane,
ma in realtà era soprattutto quello di fondare nuove logge
massoniche, quelle chiamate di tipo “latomistico”, i cui
componenti sceglievano nomi con particolari risonanze politiche
e filosofiche; il Mastellone aderì ad una di queste logge, con
il nome di Giovanni da Procida: era la stessa loggia di cui
faceva parte anche Mario Pagano.
224. Durante la Repubblica
napoletana del 1799, come risulta dalle pagine del “Monitore
napolitano” di Eleonora Pimentel Fonseca, fu nominato Ministro
della Giustizia il 16 febbraio (“Monitore” n°5); Ministro di
Giustizia e Polizia il 20 aprile (“Monitore” n°21); ed infine
giudice di Cassazione il 25 maggio (“Monitore” n°33).
Si può osservare altresì che
nel “Monitore” il suo cognome è riportato una volta come
Mastelloni e due volte come Mastellone.
225. Alla caduta della
Repubblica, la sua casa venne saccheggiata dalle masse
sanfediste, i suoi beni furono confiscati e lui condannato
all’esilio da parte della Giunta di Stato.
Fra l’altro, nel palazzo
Mastelloni a piazza Carità aveva abitato, insieme con il marito
Andrea Sanfelice, la famosa Luisa de Molina Sanfelice, che i
borbonici arrestarono trovandola nascosta in una soffitta del
palazzo.
226. L’anno successivo (1800),
da Marsiglia si rivolse al Ministro della Giustizia francese
Abrial, da lui conosciuto durante l’esperienza della Repubblica
(vedi sopra, n°66), chiedendo la concessione di una pensione di
100 franchi.
Grazie all’interessamento di
Abrial, riprese la sua carriera nella Magistratura: fu nominato,
il 9 ottobre 1801, Commissario del governo francese presso la
Corte criminale di Torino, di cui divenne in seguito procuratore
generale, e poi il 13 settembre 1804 procuratore generale presso
la Corte criminale di Parma con il delicato incarico di
organizzare i tribunali in quella città. Nel 1807 fu insignito
della Legion d’onore. Nel 1808 è a Genova e nel 1811 ad
Alessandria.
227. Rientrò a Napoli nel 1814
come Consigliere di Cassazione (con i Francesi) e nel 1817 (con
i Borboni) fu confermato come Consigliere della Suprema Corte di
giustizia, finché andò in pensione nel 1825. Morì a Napoli il 10
giugno del 1835.
228. A proposito del rapporto
esistente fra questo Emmanuele Mastellone e quei Mastellone che
possedevano fin dal 1678 una villa-masseria in Barra, vedi il
n°169 de “Il periodo del vice-regno spagnolo nel 1600”.
Diego Pignatelli di Monteleone
(1774-1818)
229. All’alta nobiltà
apparteneva, infine, Diego Pignatelli, figlio del duca Ettore V
Pignatelli di Monteleone
[16].
I Monteleone, come detto
[17], possedevano fra l’altro una
grandiosa villa con magnifico giardino in Barra,
progressivamente edificata ed ampliata nel corso del Settecento
e indicata nella mappa del duca di Noja come “Villa e delizie
dei Pignatelli di Monteleone”.
Una ventina d’anni dopo il
completamento della villa, si svolsero i drammatici avvenimenti
della Repubblica napoletana del 1799, nei quali anche i
Pignatelli di Monteleone furono attivamente coinvolti.
230. Il figlio ed erede
designato del duca Ettore V, che si chiamava Diego come il suo
grande bis-nonno, e portava nel frattempo il titolo di marchese
del Vaglio, fu tra coloro che si schierarono per la Repubblica e
fece parte del governo provvisorio repubblicano, dall’inizio
fino a quando non presentò le sue dimissioni il 24 marzo (furono
accolte il 4 aprile).
 |
Diego II Pignatelli di Monteleone |
231. Nel 1799, Diego Pignatelli
del Vaglio, essendo nato il 12 gennaio 1774, aveva 25 anni. Era
sposato dal 9 settembre 1793 con Maria Carmela Caracciolo e ne
aveva avuto già 3 figli: Fabrizio, nel 1794; Giuseppe, nel 1795;
Francesco, nel 1797.
Un’altra figlia, di nome Maria
Anna, fu concepita evidentemente proprio durante la “primavera
rivoluzionaria” del periodo repubblicano, perché nacque il 31
gennaio 1800.
232. Dopo la caduta della
Repubblica, nella repressione che ne seguì, anche il giovane
Diego Pignatelli venne condannato a morte, con sentenza del 28
marzo 1800.
233. Le vicende del processo,
ed un improvviso incendio divampato nella Villa di famiglia a
Barra con la conseguente perdita di molti dipinti della preziosa
quadreria, infersero un colpo mortale a suo padre, il duca
Ettore, che fu stroncato da un infarto nella notte fra il 26 ed
il 27 febbraio 1800, all’età di 59 anni: proprio nella sua Villa
di Barra, e proprio mentre era in corso il processo nel quale
suo figlio era il principale imputato.
234. In favore di Diego
intervenne, però, nientemeno che il neo-eletto papa Pio VII (Bàrnaba
Chiaramonti, di Cesena, papa dal 21 marzo 1800 al 20 agosto
1823), il quale scrisse di suo pugno una lettera al re
Ferdinando di Borbone, chiedendo per lui la grazia.
 |
Ferdinando IV |
Il papa, a sua volta, era stato
sollecitato ad intervenire dal cardinale
[18] Francesco Maria Pignatelli (Rosarno,
1744 - Roma, 1815), che era fratello minore del duca Ettore V e
quindi zio del condannato.
235. Grazie a “raccomandazioni”
così influenti, la pena di morte per Diego Pignatelli venne
commutata, il 21 aprile 1800, in quella di prigionìa a vita
nell’isola di Favignana.
Alla Favignana, comunque, il
nostro Diego non ci andò mai: fu tradotto, prima, nella fortezza
di Messina e in seguito a Porto Ercole ma fu liberato in seguito
alla pace di Firenze del marzo 1801 e già il 26 settembre di
quell’anno rientrò in possesso di tutti i suoi titoli e beni
ereditari.
 |
Maria Carolina, dipinto del Landini,
1787, Museo di Capodimonte |
Subito dopo, nell’autunno del
1801, si trasferì a Milano, dove strinse amicizia con il
marchese del Gallo, ambasciatore napoletano in Francia, che lo
presentò allo stesso Napoleone Bonaparte.
236. Quando i Borboni furono
nuovamente cacciati dai Francesi, nel 1806, rientrò a Napoli e
divenne Ciambellano alla corte di Giuseppe Bonaparte.
Questi, il 14 novembre 1806, lo
inviò con una delegazione di dignitari a Varsavia per porgere al
fratello imperatore le sue felicitazioni per le vittoriose
battaglie in Prussia.
Napoleone stesso ne propose la
candidatura ad ambasciatore del Regno delle due Sicilie a
Parigi, incarico che svolse dal 1806 al 1810, venendo alla fine
lautamente compensato con una somma complessiva di 180 mila
franchi a titolo di … (?!) “ristoro delle finanze familiari” che
aveva dovuto trascurare per svolgere il suo incarico di
ambasciatore.
Mentre era a Parigi, volle che
il suo figlio ed erede Giuseppe frequentasse il Politecnico,
istituito da Bonaparte nella capitale francese.
237. Nel 1814 si ritirò a
Palermo e, al secondo ritorno dei Borbone, Ferdinando lo nominò
“gentiluomo di camera con esercizio”; preferì comunque
allontanarsi dalla corte, e morì a Palermo il 14 gennaio 1818,
venendo poi sepolto nella chiesa di S. Francesco di Paola a
Napoli.
238. Indubbiamente, quindi,
Diego II Pignatelli non può essere considerato un esempio di
coerenza rivoluzionaria e repubblicana, diversamente da altri
del suo stesso nome, come i Pignatelli (di Stròngoli) Ferdinando
e Mario, che finirono invece giustiziati insieme il 30 settembre
1799.
Lui, dal canto suo, al pari di
altri suoi illustri avi
[19], pensò a conservare e ad
accrescere titoli e privilegi aristocratici della sua famiglia,
destreggiandosi abilmente nel passaggio da una dinastia regnante
all’altra, dopo il “giovanile errore” repubblicano.
Luoghi di Barra dedicati alla
memoria del 1799
239. Via Francesco Saverio
Granata: porta questo nome la breve strada che, da Via Raffaele
Testa (di fronte al Rione Baronessa) sale verso la Via Ferrante
Imperato.
Francesco Saverio Granata, per
nobiltà d’animo, coerenza in vita ed eroismo in morte,
meriterebbe certo ben maggiore memoria.
240. Nato a Rionero in Vùlture
(Potenza) il 25 novembre 1748, quinto dei sette figli di Ciriaco
Granata e Margherita Laurìa, ebbe nel battesimo il nome di
Michele, che cambiò in quello di Francesco Saverio quando vestì
l’abito monastico nell’Ordine del Carmelo.
Fu maestro e dottore in
teologia, nonché apprezzato poeta, ma predilesse le scienze
matematiche e la filosofia, e queste discipline insegnò nei vari
“Studi” dell’Ordine carmelitano e, prima nel periodo 1778-86 e
poi di nuovo a partire dal 1789, nella Reale Accademia Militare
di Napoli, dove fu quindi collega, nell’insegnamento, di Clino
Roselli.
241. Lasciata l’Accademia,
divenne Superiore Provinciale dei Carmelitani della Provincia di
Terra di Lavoro e Basilicata.
242. Nel periodo della
Repubblica, la città di Napoli venne suddivisa in 6 “cantòni”
(cioè circoscrizioni amministrative) che furono chiamate coi
nomi di Sannazaro, Monte Libero, Colle Giannone, Umanità, Sebéto
e Masaniello, ed il “padre maestro” Francesco Saverio Granata
venne nominato “commissario” responsabile del cantone Sannazaro.
243. Per aver svolto questo
ruolo durante la Repubblica, al ritorno dei Borboni fu arrestato
nel suo convento di Montesanto, rinchiuso in Castel nuovo e poi
impiccato in Piazza Mercato il 12 dicembre 1799, dopo aver
subìto la umiliante cerimonia della “spoliazione” dalle vesti
sacerdotali, per mano del vescovo di Ugento.
244. Rione Mario Pagano: il
rione di Barra al quale si accede dalla Via Giuseppe Mercalli è
intitolato al celebre Mario Pagano.
Alcuni Barresi continuano ad
indicare quel luogo come “palazzine di Mussolini”, ma si tratta
di una denominazione quanto meno impropria. In effetti, al tempo
del fascismo e precisamente durante la seconda guerra mondiale,
furono costruiti alcuni edifici a due piani, destinati
soprattutto ad ospitare famiglie provenienti dal Borgo Loreto,
che avevano perduto la casa in seguito ai bombardamenti.
Successivamente, negli anni 60 del Novecento, quegli edifici
furono però abbattuti e fu costruito l’attuale rione, al quale
venne dato appunto il nome di Mario Pagano.
245. Ma chi fu Mario Pagano?
Nel libro di Vincenzo Cuoco, troviamo: “Pagano Francesco Mario,
nato a Brienza (Basilicata) l’8 dicembre 1748; avvocato,
professore dell’università. Giustiziato a Napoli il 29 ottobre
1799. Il suo nome vale un elogio. Nella carriera sublime della
storia eterna del genere umano, voi non rinvenite che l’orme di
Pagano, che vi possano servir di guida per raggiungere i voli di
Vico”.
246. Filosofo, letterato,
avvocato, già nel periodo 1783-85 egli aveva pubblicato i “Saggi
politici dei princìpi, progressi e decadenze della società”, nei
quali si ispirava tanto all’illuminismo francese quanto alla
tradizione filosofica e storica della scuola napoletana
(soprattutto a Gian Vincenzo Gravina e Gian Battista Vico), ma
divenne famoso in tutta Europa soprattutto per le sue
“Considerazioni sul processo criminale” (1787) nelle quali
indicava la via di un profondo rinnovamento nella legislazione e
nelle procedure in materia di diritto penale.
247. Politicamente molto
attivo, fu costretto dal regime borbonico a lasciare sia
l’insegnamento universitario sia l’attività di avvocato e
successivamente imprigionato.
Dopo un periodo trascorso nel
1798 a Roma e a Milano, tornò a Napoli proprio con l’avvento
della Repubblica, nella quale svolse un ruolo di primo piano.
248. Fu, in particolare, il
principale estensore del “Progetto di Costituzione della
Repubblica napoletana”, redatto da un comitato del quale
facevano parte anche Giuseppe Albanese (1759-1799), il vescovo
di Canosa Domenico Forges Davanzati (1742-1810) e Giuseppe
Logoteta (1758-1799).
Il “Progetto” era già pronto
alla fine del marzo 1799, ma le tempestose ed incalzanti vicende
della Repubblica non permisero che si svolgesse la discussione
su di esso. Il documento rimase, pertanto, essenzialmente come
testimonianza del genio di Pagano e come fonte di ispirazione
per le lotte successive.
249. In seguito alla caduta
della Repubblica, Mario Pagano venne imprigionato “nella fossa
profonda di Castel nuovo” e da lì tratto alla forca in Piazza
Mercato il 29 ottobre 1799. Insieme a lui, nello stesso giorno,
furono giustiziati il medico Domenico Cirillo ed il poeta
Ignazio Ciaia.
Ferdinando di Borbone rientra in
Napoli passando per Barra
250. Una volta ultimata l’opera
di repressione, Ferdinando IV rientrò personalmente in Napoli
dalla Sicilia: fu accolto trionfalmente dai “fedelissimi
sudditi” ed entrò in città passando per il ponte della
Maddalena, teatro della battaglia finale, ed attraversando fra
l’altro anche Barra, come descritto dal gesuita Davide Palomba:
251. “Finalmente, il 26 giugno
1802, riavemmo in mezzo a noi lo stesso Re.
Invece di sbarcare nel porto di
Napoli, si diresse alla rada di Portici, e pigliò terra presso
la Favorita, ove fu ricevuto dal Principe ereditario, da tutti i
Corpi dello Stato, dal Senato e da un popolo immenso accòrsovi
da Napoli e da paesi convicini ...
S. Giorgio e la Barra si
conservarono alla fede antica. Ora Ferdinando, volendo mostrare
loro la sua riconoscenza, quando poi entrò in Napoli, volle
andarvi per S. Giorgio e per la Barra ...
Il luogo scelto per la riunione
di tutta la comitiva fu S. Giorgio: e così il corteggio reale,
in cui facevano principalissima mostra di sé le figure di
Ferdinando Borbone e di Fabrizio Ruffo, mosse da quella
parrocchia ...
Il Re, quando entrò a cavallo
nella capitale, fu sinceramente acclamato, e si fecero archi di
trionfo, illuminazioni e gale per tre giorni”
[20].
252. Ma questa (prima)
restaurazione borbonica non durò davvero a lungo, e solo 4 anni
dopo Ferdinando di Borbone dovette nuovamente lasciare il trono:
questa volta, non ad una repubblica, ma ad un altro re,
francese: Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone.
Qualche considerazione sulla
Repubblica del 1799
253. Quando i Francesi,
Napoleone imperante, invasero la Spagna (1808) e la Russia
(1812), il popolo russo e quello spagnolo, sotto le bandiere del
loro re e della loro religione, si mobilitarono in massa contro
gli invasori, fino a scacciarli dal loro paese: quella
mobilitazione venne e viene storicamente definita “patriottica”
e quei pochi Russi e Spagnoli, che allora si schierarono a
fianco dei Francesi, definiti per quello che erano cioè
“traditori”.
254. Nel nostro caso, invece,
vennero e vengono storicamente definiti “patrioti” quelli che
combattevano, a fianco dell’esercito straniero invasore, contro
le masse del proprio stesso popolo … il quale, per contro,
siccome combatteva sotto le bandiere del suo re, della sua
religione e della sua patria, viene etichettato come ignorante,
“superstizioso” e “arretrato”.
255. In effetti, la causa
fondamentale della sconfitta della Repubblica napoletana, ben
più che la forza dei suoi avversari, fu indubbiamente la
condizione di immaturità storica nella quale si trovava la
classe borghese meridionale, ancora in quel periodo.
256. E’ lo stesso Benedetto
Croce, che di quella classe si può ritenere espressione e
massimo interprete culturale, a riconoscerlo con lucida ed
insuperata analisi:
257. “La classe sociale che
meglio avrebbe dovuto rispondere al pensiero e all’azione della
classe intelligente (cioè, di quella avanguardia culturale e
politica che fu artefice della rivoluzione) era, com’è naturale,
il medio ceto di professionisti nella capitale e di nuovi
proprietari nelle provincie, dal quale in massima parte la
classe intellettuale proveniva e di cui continuamente si
alimentava e accresceva.
258. E i professionisti furono,
infatti, quelli che più alacremente ne accompagnarono gli
sforzi; ma la nuova borghesia delle provincie attendeva, come
ogni borghesia incipiente, a far denari, ad assorgere
economicamente, e perciò le mancava la necessaria elevazione
d’animo per appropriarsi un concetto politico, sentirne la
bellezza, assumerne i doveri, lavorare, soffrire e sacrificarsi
per esso.
259. Troppo era, d’altra parte,
impegnata, con tutta la passione ed energia che possedeva, in
una duplice lotta: l’una, municipale e intestina e spesso
feroce, tra famiglia e famiglia cospicua e ambiziosa dello
stesso Comune, del Comune che per secoli era stato l’unica forma
di vita pubblica di quelle popolazioni di provincia; l’altra, di
sospetto e di difesa contro il contadinàme, che, avverso ai
baroni, era anche più avverso ai nuovi proprietari locali,
usciti dal suo seno, impinguati delle sue fatiche, più duri
verso di esso, come accade ai nuovi arrivati.
260. Sicché questa borghesia...
forniva un aiuto assai scarso alla classe intellettuale,
disposta com’era più a ricevere che a dare, a prestar sussidio
di parole più che di fatti; e, dall’altro canto, coi suoi
comportamenti verso il contadinàme, lo rendeva diffidente e
ostile ai novatori...
261. Era comune la ritrosìa,
anche della gente perbene, ad assumere pubblici uffizi, per
paura di compromettersi, per pigrizia, per indifferenza;
lodevole e onorevole sembrava infatti la massima, che abbiamo
udito ripetere fino ai nostri giorni, che il galantuomo deve
farsi i fatti propri, ossia non impacciarsi della cosa pubblica”
[21].
262. Fu dunque anzitutto la
classe borghese a far mancare l’appoggio alla sua stessa
avanguardia politica e culturale; cioè, a Barra, ai vari
Minichino, Sannino, Roselli, Magliano, etc. che rimasero ben
presto del tutto isolati nel loro stesso ambiente di
provenienza.
263. Ma l’Ottocento fu il
secolo della borghesia in ascesa, e l’obiettivo del potere, che
essa aveva mancato nel 1799, riuscì comunque a raggiungerlo in
seguito, anche se mai per forza propria: prima con l’aiuto
dell’esercito napoleonico (nel decennio francese, 1805-1815) e
poi, attraverso le tappe del 1820-21 e del 1848, con
l’annessione del Regno meridionale al Regno sabàudo d’Italia nel
1860.
264. Diversa fu la vicenda
storica di quello che Croce chiama con sprezzo “il contadinàme”,
che era poi la stragrande maggioranza della popolazione del
Regno (e, nella fattispecie, di Barra).
265. I contadini, nelle vicende
del 1799, si orientarono, in modo irriflesso ma in definitiva
del tutto giusto, in senso anti-borghese: essi, in realtà,
avevano tutto da perdere e ben poco da guadagnare nel passare
dal dominio degli antichi “signori” aristocratici a quello dei
nuovi “padroni” borghesi, che li avrebbero sfruttati in modo
molto più intenso e, in più, privati dei tradizionali “usi
civici” sulle terre demaniali dei quali essi godevano.
266. Ma la mobilitazione in
massa dei contadini, sotto le bandiere del re Borbone e della
religione cattolica, riuscì in realtà solo a ritardare di
qualche anno l’instaurazione dei nuovi rapporti di proprietà
nelle campagne: a partire dal decennio francese, le terre degli
antichi feudi, laici ed ecclesiastici, passarono lentamente ma
inesorabilmente nelle mani dei nuovi padroni borghesi e le terre
demaniali cessarono in gran parte di essere “zona franca” per
essere a loro volta divise e privatizzate.
267. Il fenomeno del
“brigantaggio” post-unitario (1860-70) fu l’ultimo disperato
grido di rivolta dell’antico contadino meridionale. Soffocato
quel grido nel sangue dalle baionette dell’esercito piemontese,
ai contadini non rimase che prendere silenziosamente, ed in
massa, la via dell’emigrazione oltre Oceano.
268. Quelli che rimasero, però,
iniziarono a maturare una nuova coscienza dei propri diritti e
della propria autonomia come classe. Le loro lotte cominciarono
ad essere combattute “in proprio” e non più sotto le bandiere
del feudalesimo.
269. Dalle loro file,
cominciarono ad uscire gli operai della nascente industria, che
furono l’asse portante di una nuova stagione di lotte per il
miglioramento complessivo degli strati più poveri della
popolazione.
270. Nel 1892 nacque il Partito
Socialista dei Lavoratori italiani. Il nostro territorio, come
tutta l’area orientale della città, fu interessato alla “Legge
speciale per Napoli” n°351 del 1904, che istituì la “zona
industriale”… ma già nel 1899, proprio a 100 anni dalla vicenda
della repubblica napoletana, era sorta, anche nel Comune di
Barra, la “Società operaia di mutuo soccorso”, tuttora
esistente.
271. Mentre la classe borghese
si avviava ad abbracciare il fascismo, e comunque a venir meno
progressivamente a quegli ideali di “liberté, egalité,
fraternité” in nome dei quali avevano combattuto i suoi uomini
migliori, il movimento autonomo dei lavoratori diventava erede,
allo stesso tempo, degli ideali dei rivoluzionari del 1799 e del
desiderio di riscatto economico e sociale delle masse contadine
che allora li avversarono.
Il decennio francese (1806-1815)
272. Nel contesto della
egemonia che esercitava in quel periodo in tutta Europa,
Napoleone Bonaparte designò, a governare il regno di Napoli,
prima suo fratello Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e poi il
celebre Gioacchino Murat (1808-1815), marito di sua sorella
Carolina.
273. “Allora... finì veramente
il medioevo; allora la classe borghese salì veramente al governo
degli stati” (Croce). Venne introdotto anche a Napoli il nuovo
Codice di diritto civile (il cosiddetto “Codice napoleonico”)
che sanciva, dal punto di vista giuridico, le principali
conquiste della Rivoluzione francese, abolendo del tutto le
vecchie, intricate e molteplici normative feudali. Infatti, ed
in sostanza, il Codice napoleonico faceva della proprietà
privata “il cardine della nuova organizzazione economica e
sociale” (Lepre).
274. Si compì, cioè, la
codifica del potere economico e sociale raggiunto dalla
borghesia, anche se mancava ancora ad essa la piena
partecipazione politica, impedita dall’assolutismo monarchico:
di qui il fatto che le successive rivolte (quella del 1820-21 e
quella del 1848) ebbero come principale richiesta la
concessione, da parte del re, di una “Costituzione” che, in
pratica, doveva appunto garantire tale partecipazione.
275. Le trasformazioni che
avvennero in questo cruciale decennio furono, pertanto, numerose
e di grande portata, modificando le condizioni di fondo e la
vita quotidiana di tutte le classi sociali.
La trasformazione dei rapporti
sociali
276. Venne anzitutto
formalmente e completamente abolita, dopo più di mille anni di
esistenza, la feudalità e la terra divenne una semplice “merce”,
soggetta alla libera compra-vendita.
In pratica, ciò significava che
gli antichi signori feudali diventavano adesso “liberi
proprietari”, in senso borghese, di gran parte dei terreni che
già prima amministravano, mentre un’altra parte dovevano cederla
definitivamente alla nuova classe dei “galantuomini possidenti”,
cioè ai proprietari terrieri di origine non nobile.
277. Le terre che appartenevano
al demànio (quindi, ad esempio, anche gran parte di quelle di
Barra) e sulle quali i contadini esercitavano in comune, da
tempi antichissimi, i cosiddetti “usi civici”, vennero
frazionate e vendute a privati.
In teoria, ciò avrebbe dovuto
consentire la trasformazione di molti contadini in piccoli e
medi proprietari; in pratica, però, la maggior parte di essi non
aveva la possibilità economica di comprare le terre, né aveva
poi i mezzi per coltivarle e conservarle, per cui, di fatto, le
terre demaniali vennero, in gran parte, acquistate anch’esse dai
“galantuomini”.
278. Vennero soppressi numerosi
conventi e messe in vendita le terre ecclesiastiche. Lo Stato
realizzò, in tal modo, entrate cospicue ma le terre
ecclesiastiche vennero anch’esse comprate dal solito ceto dei
“possidenti”.
279. Come si vede, la
trasformazione dei rapporti sociali consistette, in sostanza,
nel fatto che una nuova classe sociale, la borghesia, si
appropriò della maggior parte delle terre, a danno dell’antica
aristocrazia e della Chiesa, ma anche a danno dei contadini
poveri.
280. Le splendide promesse
degli illuministi, di una società guidata dalla “ragione”, in
marcia verso un illimitato “progresso” ed ispirata alla ricerca
della “felicità” per l’intero genere umano, cominciavano bensì a
concretizzarsi ma, nel far ciò, rivelavano anche la loro precisa
e limitata natura di classe.
281. Gli ispirati e magnanimi
profeti pre-rivoluzionari, dei quali abbiamo sentito il Croce
tessere il commosso elogio
[22], erano certamente convinti “in
buona fede” di rappresentare gli interessi “dell’umanità” ma, in
effetti, le loro idee nascevano dalle aspirazioni di una classe
determinata (la borghesia) e, una volta realizzate, andavano a
vantaggio di questa sola classe.
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Piazza Murat, progetto di
sistemazione, Museo San Martino |
Trasformazioni conseguenti
282. Ulteriori modifiche,
organicamente connesse a questa trasformazione dei rapporti
sociali, furono le seguenti:
283. Vennero aboliti i
tribunali attraverso i quali i “signori” esercitavano la
giurisdizione civile e penale nei rispettivi feudi e furono, per
la prima volta, istituiti tribunali statali in tutte le province
del regno, per una amministrazione uniforme della giustizia, ma
… sulla base, naturalmente, del nuovo Codice borghese. Da adesso
in poi, “la giustizia è uguale per tutti” ma … rimane “più
uguale”, naturalmente, per quelli che possono permettersi di
pagare di più gli avvocati.
284. Vennero abolite le antiche
milizie feudali, cioè gli uomini armati al servizio del
“signore”, ed istituito un vero e proprio esercito nazionale;
ciò richiese, però, l’introduzione della leva obbligatoria per
tutti i giovani, fino a quel momento inesistente.
285. Nel 1809, venne introdotta
l’anagrafe civile; vale a dire, e si trattava di una novità
assoluta che modificava notevolmente il costume, che le nascite,
i matrimoni e le morti furono registrati non più solo dalla
Chiesa, nei registri parrocchiali, ma anche dallo Stato; ancor
più, il matrimonio civile venne separato da quello religioso e
fu consentito, dalla legge civile, il divorzio.
286. Venne rifatto
completamente e, in alcuni casi, creato ex-novo il catasto, allo
scopo evidente di sancire in modo definitivo i nuovi rapporti di
proprietà; corrispondentemente, cessò il vecchio sistema delle
imposte date in appalto ai privati, sostituito da un sistema di
tassazione unico, gestito dallo Stato e basato principalmente
sulla cosiddetta “fondiaria”, ossia l’imposta sulla proprietà
della terra.
287. Si introdussero, però,
anche nuove forme di tassazione, come la cosiddetta “personale”,
che gravava su tutti i capi-famiglia, e la cosiddetta “patente”,
che tutti gli artigiani dovevano pagare per poter esercitare la
loro attività.
288. Tutto questo provocò,
evidentemente, anche l’esplodere del problema della “burocrazia”
statale (fu, tra l’altro, proprio in quegli anni che venne
introdotta la quind’innanzi famosa “carta bollata”).
L’abolizione della “democrazia di
base”
289. Tuttavia, la novità forse
più immediatamente risentita dal popolo fu l’abolizione di
quella che si potrebbe chiamare la “democrazia di base”.
290. L’ amministrazione locale,
infatti, “per le costituzioni di Federico II di Svevia, perciò
sin da tempi antichissimi, affidàvasi ad un Sindaco e due
Eletti, scelti dal popolo in così largo parlamento che non altri
erano esclusi dal votare fuorché le donne, i fanciulli, i
debitori della comunità e gli infami per condanna o per mestiero.
Si adunava in certo giorno di estate nella piazza e si facevano
le scelte per gride, avvenendo di raro che bisognasse imborsar
più nomi per conoscere il preferito”
[23].
291. Al posto di questo
sistema, forse primitivo ma autenticamente popolare, i francesi
introdussero il cosiddetto “decurionato”, ossia una
amministrazione locale formata da 10 persone (ma si poteva
arrivare anche a 30, secondo il numero degli abitanti).
292. I “decurioni”, però, non
erano eletti dal popolo bensì estratti a sorte fra i soli
possidenti (di età superiore ai 21 anni), rinnovandone ogni anno
la quarta parte.
Il decurionato fissava i
bisogni, le entrate e le spese; sceglieva gli impiegati
comunali, durabili un anno, e li giudicava al termine del
mandato.
293. Il Sindaco, a sua volta,
non era né eletto né scelto a sorte, bensì direttamente di
nomina governativa, attraverso i Prefetti.
294. In tal modo, la classe borghese si appropriava in esclusiva
delle amministrazioni locali ed inoltre, con la nomina
governativa dei sindaci, si introduceva una centralizzazione
prima inesistente.
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Gioacchino Murat, statua di Palazzo
Reale Napoli |