Il signore feudale e il
proprietario borghese
295. Per ben comprendere il
senso della trasformazione (davvero cruciale!) che avvenne
nel decennio francese, può essere utile il seguente classico
confronto, dal punto di vista sociale e psicologico, tra le
due figure tipiche del vecchio “signore feudale” e del nuovo
“proprietario borghese”.
296. “L’idea del profitto, anzi
la possibilità stessa del profitto, sono incompatibili con
la condizione del signore feudale. Non avendo modo, in
assenza di sbocchi, di produrre per la vendita, egli non
deve perciò sforzarsi di ottenere dai suoi uomini e dalle
sue terre un’eccedenza che gli sarebbe solo d’ impaccio.
Costretto a consumare lui stesso le sue rendite, si limita a
commisurarle ai suoi bisogni. Vive un’esistenza assicurata
dal funzionamento tradizionale di un’organizzazione che non
pensa affatto a migliorare.
297. Sarebbe interessante
sapere, anche se bisogna purtroppo rinunciarvi, quale era
nei latifondi, che i loro signori non sfruttavano per il
profitto, il guadagno del contadino... dopo che si era
disobbligato, alle date consuete, fornendo le prestazioni in
natura che gravavano sulla sua terra. Ben poco, certo, se
non proprio niente. Ma questo poco bastava a gente che, più
o meno come il loro signore, non pensava a produrre al di là
dei propri bisogni. Certo di non essere cacciato, dal
momento che la sua concessione di terra era ereditaria, il
contadino godeva almeno del vantaggio della sicurezza.
298. L’idea che di solito ci si
fa dello sfruttamento feudale è probabilmente un po'
sommaria. Lo sfruttamento dell’uomo presuppone la volontà di
servirsene come di un utensile al fine di ottenere il
massimo rendimento. La schiavitù dell’antichità, quella dei
negri nelle colonie del Seicento e del Settecento, oppure la
condizione degli operai nella grande industria nella prima
metà dell’Ottocento ne forniscono esempi fin troppo noti.
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Francesco di Borbone, ritratto con la famiglia
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299. Ma quanta differenza con
la signoria medioevale, in cui l’onnipotente costume, che
determina i diritti e gli obblighi di ciascuno, si oppone
per ciò stesso al libero esercizio della supremazia
economica e impedisce a questa supremazia di esprimersi in
tutto il suo rigore, cui certo si abbandonerebbe sotto il
pungolo del profitto!”
[1].
300. Viceversa, la logica del
proprietario borghese, in regime di “mercato” e di “libera
concorrenza”, è proprio quella di produrre per la vendita,
sotto il pungolo del profitto e tale logica ha il suo
spietato rigore.
301. La borghesia rimproverava
all’aristocrazia di essere statica, di non introdurre
miglioramenti tecnologici nell’agricoltura e di lasciare,
anzi, incolte ed improduttive buona parte delle proprie
terre; in realtà, però, come dice il Pirenne, né
l’aristocrazia né i contadini avevano particolare bisogno di
fare questo.
302. La borghesia, invece, una
volta impadronitasi delle terre, ne migliorò indubbiamente
la produttività ma questo andò in realtà a vantaggio dei
soli borghesi e del loro profitto, perché richiedeva che i
contadini venissero sfruttati più intensamente ed inoltre
perdessero la stabilità del loro posto di lavoro.
303. I contadini, inoltre,
perdevano i loro tradizionali diritti di “usi civici” sulle
terre demaniali, che prima consentivano loro di procurarsi
gratuitamente parte del necessario e per di più, essendo
diventati dei “liberi cittadini” alla pari (teoricamente)
dei loro padroni, erano soggetti a nuove forme di
tassazione.
La trasformazione del rapporto con la natura
304. La terra stessa perdeva la
sua antica sacralità.
In regime feudale, la terra
faceva, per così dire, parte integrante della famiglia. Sia
per il signore sia per il contadino sia per i conventi, essa
era ereditaria ed inalienabile; veniva sostanzialmente
rispettata nei suoi ritmi, ai quali si adattavano i ritmi
degli uomini (e non viceversa), che le chiedevano peraltro
solo il necessario per vivere e nulla di più; le vaste zone
“inutilizzate” di boschi e di foreste, di prato e di
pascolo, costituivano inoltre una riserva naturale preziosa
per salvaguardare inalterate le risorse essenziali (l’acqua,
l’aria, etc.).
305. Viceversa, con l’avvento
della borghesia, la terra diventava un semplice oggetto, da
sfruttare il più possibile, ed una semplice merce, da
comprare e vendere, in vista di un profitto.
306. Si ponevano così le
premesse di quella “crisi ecologica” che esploderà poi
drammaticamente nella seconda metà del Novecento.
I contadini fra “signori” e
“padroni”
307. In definitiva, nel passare
dal dominio del signore feudale a quello del proprietario
borghese, il contadino aveva poco da guadagnare e molto da
perdere, e ciò spiega ampiamente il fatto che, fin quando
non si costituirono in movimento per difendere autonomamente
i propri interessi, i contadini (specialmente quelli
meridionali e quelli che vivevano su terre demaniali o
monastiche) furono molto più spesso a fianco degli antichi
signori feudali che dei nuovi padroni borghesi (vedi sopra,
nn°6-8).
308. Il contadino meridionale,
come del resto il làzzaro di città, non aveva certo gli
strumenti per fare raffinate analisi socio-culturali, ma
sapeva, per intuito di classe e per esperienza diretta, che:
‘O pezzènte sagliùto è peggio d’o signore nato.
Barra nel decennio francese
309. Anche a Barra furono
dunque introdotte tutte le novità sopra descritte.
In particolare furono, in quel
periodo, soppressi i due storici conventi (quello
francescano e quello domenicano) e sottoposte a controlli e
limitazioni tutte le attività ecclesiastiche.
310. “In esecuzione dell’ordine
ministeriale delli 8 giugno 1811, numero 1778, di cui ve ne
accludo copia, disponete, Signor Colonnello, che sia
effettuato il cambio della campana rotta della chiesa
parrocchiale della Barra, del peso di càntara 4 e ròtola 80,
con quella esistente nell’Arsenale, del peso di càntara 4 e
ròtola 30; vale a dire, 50 ròtola di differenza in vantaggio
del Governo”
[2].
311. Con questa lettera, il
Comandante in Capo dello Stato Maggiore dell’Artiglieria,
barone Gondallier de Tugny, ordina al colonnello Francesco
Giulietti, direttore dell’Arsenale di Napoli, di procedere
al poco onesto “cambio di campana” nella chiesa parrocchiale
di Barra.
312. Ma è già molto, perché in
altre circostanze ed altri luoghi i Francesi procedettero
direttamente alla spoliazione delle chiese ed al furto delle
campane, molto adatte per costruire cannoni!
Il primo Ordine religioso
femminile in Barra
313. Se è vero che, in quel
periodo, vennero cacciati Francescani e Domenicani, occorre
però anche dire che furono proprio i Francesi ad introdurre
in Barra, per la prima volta, un Ordine religioso femminile
[3].
Si trattava delle “Suore della
Carità” ma il popolo le disse subito “monache francesi”:
perché francese era la loro fondatrice, ma anche perché si
trattava di suore “illuminate”, di spirito “progressista”, e
perciò protette dai Francesi, e da Gioacchino Murat in
particolare, che diede loro, come sede principale in Napoli,
l’antico convento di S. Maria Regina Coeli, ove tuttora è
custodito il corpo della loro fondatrice, S. Giovanna Antida
Thouret (1765-1826).
Anche in Barra, nella quale
fino a quel momento non vi erano fondazioni religiose
femminili
[4],
il Murat volle insediare quelle giovani Suore, le quali
perseguivano un programma di “utilità sociale”, basato
sull’assistenza materiale ai poveri ma soprattutto sulla
diffusione dell’istruzione nei ceti popolari, in particolare
nelle fanciulle, per renderle atte ad adempiere i loro
compiti di “spose e madri” nella nuova società borghese che
andava emergendo.
314. Alle “monache francesi”
venne dato il palazzo con annesso giardino (già visibile
nella mappa del Noja) che ha il suo ingresso proprio laddove
la attuale Via G. B. Vela confluisce nel Corso Sirena, di
fronte alle Ville Spinelli e De Cristofaro; in quella sede,
le suore sono rimaste fino a poco dopo la metà del
Novecento, quando lasciarono Barra per S. Giorgio a Cremano.
La prima Sede municipale di
Barra
315. Nel periodo del decennio,
come si è detto, venne istituito il “decurionato” ed inoltre
i compiti dell’amministrazione locale si accrebbero
notevolmente, con l’istituzione, fra l’altro, dell’anagrafe
civile.
316. Divenne necessaria,
pertanto, una vera e propria Sede municipale, che fu
collocata nel palazzetto designato attualmente Corso Sirena
n°290. Sopra l’arco d’ingresso di esso, venne posta la
lapide, che tuttora si vede, raffigurante l’antico stemma
del Casale, la Sirena bicàuda con il motto UNIVERSITAS, sul
modello delle due lapidi apposte, sul finire del Seicento,
ai lati del battistero nella chiesa parrocchiale “Ave gratia
plena”.
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Stemma del Comune di Barra |
Il Vesuvio e il “terremoto di
S. Anna” nel 1805
317. Si deve segnalare, infine,
che il periodo del decennio francese fu accompagnato da una
continua attività del Vesuvio.
318. Già nel 1794, vi era stata
una eruzione che aveva completamente sommerso Torre del
Greco, inoltrandosi fin nel mare per oltre 100 metri. Vi
furono poi altre eruzioni nel 1804, 1805 e 1806 e di nuovo
nel 1810, 1812 e 1813 e tutta questa attività del vulcano,
non molto intensa ma ben “rumorosa” e continua, tenne
ognuno, comprensibilmente, in costante apprensione.
319. L’eruzione del 1805, in
particolare, fu accompagnata dal famoso terremoto detto “di
S. Anna”, perché avvenne il 26 luglio e le popolazioni di
Napoli e dei Casali attribuirono alla particolare
intercessione della Santa il fatto di non aver subìto danni
rilevanti in occasione di quell’evento. L’ondata di
crescente devozione verso S. Anna, che si ebbe in quella
circostanza, contribuì certamente a preparare da vicino il
terreno alla sua proclamazione ufficiale a “patrona di
Barra” nel 1822.
La seconda restaurazione
borbonica (1815)
320. Napoleone Bonaparte venne
infine sconfitto dalle potenze europee coalizzate ed il
Congresso di Vienna (1814-15) restituì, a ciascuno degli
antichi sovrani “legittimi”, il proprio regno.
321. Ferdinando di Borbone
riebbe dunque il suo e, dal dicembre del 1816, si chiamò
Ferdinando I delle due Sicilie.
322. In effetti, dal momento
della sua fondazione ad opera dei Normanni e poi per tutto
il periodo Svevo, il regno comprendente Italia meridionale e
Sicilia si chiamava “Regno di Sicilia” ed aveva Palermo come
capitale.
323. In base alla pace di
Caltabellotta del 1302, Roberto d’Angiò, che era allora
sovrano del “Regno di Sicilia”, dovette cedere l’isola a
Federico II d’Aragona; Roberto manteneva però il titolo di
“Re di Sicilia” mentre Federico assumeva quello di “Re di
Trinacria”.
324. Riaccesasi poco dopo la
guerra, anche il sovrano dell’isola prese il nome di “Re di
Sicilia”, di modo che vi furono due re che portavano lo
stesso titolo, uno a Napoli e l’altro a Palermo. Per
distinguerli, si parlò allora di “Regno di Sicilia di qua
dal faro (cioè dello stretto di Messina)” e “Regno di
Sicilia di là dal faro”.
325. Allorché nel 1442 Alfonso
V d’Aragona, che già regnava sull’isola, conquistò anche
Napoli, trovandosi ad essere sovrano di entrambi i regni che
si chiamavano “di Sicilia”, assunse il titolo di “Rex
utriusque Siciliae” (“Re di entrambe le Sicilie”), che venne
ereditato da tutti i suoi successori fino ai Borboni.
326. Si trattava però di una
unione limitata alla sola unità del Sovrano, nel senso che i
due regni rimanevano, di fatto, del tutto indipendenti l’uno
dall’altro (con diverse leggi, diversa moneta, diversi
ordinamenti, etc.): erano semplicemente due regni che
appartenevano ad uno stesso monarca.
327. Così, nel 1816, Ferdinando
di Borbone si trovava ad essere Ferdinando IV, come re di
Napoli, e Ferdinando III, come re di Sicilia.
In quella data, però, egli
intese sopprimere di fatto l’indipendenza della Sicilia,
unificando, anche negli ordinamenti, i due regni in uno
solo: per significare questo, si denominò da allora
Ferdinando I delle due Sicilie.
328. Fu allora che i suoi
nemici coniarono il gustoso epigramma:
Fosti quarto, fosti terzo,
or t’intitoli primiero.
Se continui questo scherzo,
finirà che resti zero.
Ciò che rimase e quello che
cambiò
329. Comunque si volesse
chiamare il re, quel Regno era ormai così strutturalmente
mutato che, anche volendo, sarebbe stato impossibile
riportarlo alla situazione precedente.
330. La proprietà delle terre
aveva subito un tale rimescolamento ed i rapporti sociali
erano così cambiati a vantaggio della nuova classe borghese,
che non si poteva nemmeno pensare di ri-modificarli per via
amministrativa, senza provocare disordini incontrollabili.
331. D’altra parte, la nuova
organizzazione dello Stato (tribunali, esercito, anagrafe,
catasto, nuovo sistema di tassazione, etc.), oltre ad essere
ormai consolidata, era comunque più unificata, più semplice
e meglio gestibile, rispetto alla precedente frammentazione
ed anarchia feudale.
332. Di conseguenza, Ferdinando
lasciò inalterate gran parte delle principali novità
introdotte dai Francesi, limitandosi a cambiarne il nome ed
a correggere solo quelli che sembrarono insopportabili
“eccessi”.
333. Così, ad esempio, dal
Codice civile, che rimase quello napoleonico anche se
ri-battezzato “ferdinandeo”, fu cancellato il divorzio.
334. In particolare, fu
stipulato con la Chiesa un nuovo Concordato (nel 1818) che
ripristinava la religione cattolica come unica religione
dello Stato, la censura ecclesiastica su tutti i libri e
giornali pubblicati, ed il controllo degli Ordini religiosi
sull’intero sistema dell’istruzione pubblica ...
335. Anche a Barra, Domenicani
e Francescani rientrarono nei loro conventi; ma alcune
famiglie di “galantuomini” rimasero proprietarie di una
parte delle terre demaniali ed ecclesiastiche, e
l’amministrazione locale, pur cambiando nome (si chiamò, da
quel momento, Comune di Barra), rimase quella del
decurionato di tipo francese.
Nascita ... dei cimiteri
(1817)
336. Di evidente ispirazione
francese, anche se emanata ufficialmente da Ferdinando nel
1817, fu anche la legge che modificava il sistema di
sepoltura dei defunti, incidendo notevolmente nel costume.
337. Fino ad allora, i morti
venivano seppelliti nelle chiese: sotto il pavimento, il
popolo semplice; nelle cappelle laterali (“di famiglia”), i
nobili e le persone più rappresentative della comunità.
338. Napoleone aveva invece
stabilito che i morti fossero sepolti in appositi cimiteri,
posti fuori dai centri abitati, così come già usavano fare
gli antichi romani con le loro “necròpoli”. Le motivazioni
dei Francesi erano in parte di tipo ideologico (si voleva
sottrarre alla Chiesa il “monopolio” sulla morte e sui
funerali; eliminare i privilegi dell’aristocrazia, etc.), in
parte di tipo “razionale” (il pericolo di epidemie).
339. Comunque fosse, anche ai
borbonici sembrò bene dare corso al nuovo sistema,
considerato anche il crescente aumento della popolazione e
la conseguente saturazione degli antichi luoghi di
sepoltura.
340. Sicché, come dice il
Palomba, in “quello stesso anno del 1817, venne fuori una
legge, la quale ingiungeva che i cadaveri non si
seppellissero più dentro il chiuso dell’abitato; e che
perciò i Comuni si affrettassero tutti a farsi ciascuno il
proprio Campo Santo nell’aperto della campagna”
[5].
341. Il Comune di Barra
provvide al suo cimitero grazie al terreno messo a
disposizione dalla famiglia Pironti, che possedeva una villa
e terreni al margine del Comune, subito dopo quelli dei
Mastellone.
Il Comune di Barra nel 1818
342. In definitiva, il nuovo
Comune di Barra, nel 1818, tre anni dopo la fine del
decennio francese, presentava il quadro anagrafico seguente
[6]:
Fanciulli: 543; Fanciulle: 524
Adulti celibi: 404; Adulte
nubili: 538
Coniugati: 1.696; Coniugate:
1.696
Vedovi: 116; Vedove: 264
Sacerdoti e chierici: 36
Totale della popolazione:
5.817
I moti carbonari del 1820-21
343. La nuova borghesia agraria
e delle professioni, aumentata di numero e di peso sociale
nel decennio francese, aspirava però ad un pieno
riconoscimento, anche politico, della sua crescente
influenza (vedi sopra, n°274).
344. Lo strumento di cui essa
si dotò a tale scopo fu, in particolare nell’Italia
meridionale, la sètta segreta detta carboneria, che
raccoglieva aderenze anche fra gli ex-murattiani e fra i
quadri intermedi del nuovo esercito napoletano.
345. Quando si seppe che, in
Spagna, una insurrezione era riuscita ad ottenere il
ripristino della Costituzione concessa agli spagnoli da
Giuseppe Bonaparte nel 1812 e poi abrogata dalla
restaurazione, la carboneria napoletana organizzò, il
1°luglio 1820, la sollevazione della guarnigione militare di
Nola.
346. Guidato dai due
sotto-tenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, un primo
gruppo di militari insorse, chiedendo che anche il Re delle
due Sicilie concedesse la “Costituzione del 1812”.
347. La rapida adesione al
movimento di buona parte dell’esercito (fra gli altri, del
generale Guglielmo Pepe) costrinse Ferdinando a cedere alla
richiesta e, a partire dal 1°ottobre, cominciò addirittura a
funzionare il primo parlamento elettivo (attenzione:
potevano votare solo quelli che avevano un reddito
medio-alto!).
348. Ma non durò a lungo.
Convocato a Lubiana dalle potenze europee firmatarie del
Congresso di Vienna, Ferdinando I non tardò a revocare del
tutto la sua concessione e l’esercito inviato dagli
Austriaci ripristinò rapidamente, nel marzo 1821, il
precedente ordinamento del Regno.
Barra nel 1820-21
349. Non sembra che Barra sia
stata particolarmente coinvolta in questi sommovimenti:
l’adesione alla carboneria riguardò solo poche persone (ed
erano, molto probabilmente, i nuovi proprietari terrieri,
qualche vecchio “giacobino”, qualche commerciante o
artigiano più agiati ed “evoluti”...) e si esaurì molto
rapidamente.
350. Comunque, parlando di S.
Giorgio a Cremano, il Palomba ci informa del fatto che:
“Prima nella casa che, stata sino a poco fa di Quarto,
adesso è di Di Lorenzo, e poi nell’altra di Punzo ... fu
aperta una baracca, come dicevasi allora, ed ivi i nostri
carbonari tenevano le loro tornate, alle quali prendevano
parte, oltre alle solite giardiniere, anche quelli di Barra
e di S. Giovanni a Teduccio. Ma questa commedia non durò a
lungo perché, come si seppe che venivano gli Austriaci, la
baracca si chiuse e gli emblemi settàri si interrarono tutti
nel podere di De Laurentiis, che in questi ultimi tempi è
stato comprato da Dentale”
[7].
351. Il fatto che vi fosse
un’unica “sede” carbonara per ben tre paesi (S. Giorgio a
Cremano, Barra e S. Giovanni a Teduccio) dice, già di per
sé, la esiguità del numero degli adepti.
Il memorabile 1822 e “l’anno
santo” del 1825
352. Il successivo anno 1822 fu
invece notevole per tutta intera la popolazione di Barra, a
causa di due eventi, diversi ma ugualmente memorabili, che
lo caratterizzarono.
353. Il primo fu che, il 9
luglio 1822, essendo papa Pio VII (1800-1823), arcivescovo
di Napoli il card. Luigi Ruffo Scilla (1802-1832) e parroco
don Gaetano Ascione (1806-1825), venne emessa la apposita
Bolla pontificia con la quale S. Anna veniva proclamata
ufficialmente quale “patrona” di tutto il Comune della
Barra.
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Sant'Anna di Barra |
354. Quella intensa e diffusa
devozione verso la madre di Maria, che aveva caratterizzato
il Casale per tutto il Seicento ed il Settecento, riceveva
finalmente, nell’universale giubilo della popolazione in
occasione della festa di S. Anna di quell’anno, anche un
riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa.
|
Sant'Anna di Barra |
355. Si può aggiungere che S.
Anna non mancò di “ricambiare”, in un certo qual modo, i
particolari festeggiamenti che i Barresi le fecero in
quell’anno.
Infatti, l’8 ottobre 1822, in
una povera dimora di “sopra Case Langella”, quasi come un
dono di S. Anna per il “suo” popolo, nasceva Raffaele
Verolino, “l’apostolo del paese di Barra”, la personalità
probabilmente più rappresentativa del clero barrese
nell’Ottocento, che tanto bene doveva poi operare a
vantaggio soprattutto della parte più umile e povera della
popolazione del Comune.
356. Si può altresì aggiungere
che il riconoscimento dato a S. Anna in quell’anno fu anche,
per i Barresi, una preparazione per l’imminente “Anno santo”
del 1825, che vide Barra al centro di tutta la zona ad
oriente di Napoli.
357. Narra infatti il Palomba:
“Poco dopo, avemmo il giubileo dell’anno santo. Questo, che
secondo la moderna disciplina della Chiesa ricade ogni 25
anni e non si era potuto fare nel 1800 a cagione delle
rivolture che allora commovevano il mondo, aspettavasi da
tutti con ansia grande; ed arrivato che fu, produsse
dovunque copiosissimo frutto ... Le chiese che si dovettero
visitare furono: la parrocchia di S. Giorgio, la parrocchia
della Barra, S. Domenico e S. Antonio parimenti della
Barra...”
[8].
358. In occasione del giubileo
del 1825, furono dunque stabilite, come meta dei
pellegrinaggi di tutta la zona ad oriente della città,
proprio le chiese di Barra: la parrocchiale, con la venerata
statua di S. Anna, da poco proclamata ufficialmente patrona
del Comune, e le chiese dei Francescani e dei Domenicani,
che si volle evidentemente “risarcire” dopo la soppressione
patita nel decennio francese.
359. Ma Raffaele Verolino non
aveva ancora compiuto un mese di vita, quando iniziò (e fu
questo il secondo evento memorabile dell’anno) quella che è
ritenuta dagli studiosi la più forte eruzione del Vesuvio di
tutto il secolo: durò dal 21 ottobre fino all’11 novembre
del 1822 e, anche se non procurò gravi danni materiali a
Barra, segnò con grande spavento quell’anno negli animi,
almeno fino a quando una nuova, e purtroppo più grande,
sciagura non sopravvenne a cancellare momentaneamente il
ricordo di tutte le altre.
Il colera del 1836-37
360. La malattia emblematica
del Seicento era stata la peste; quella dell’Ottocento fu il
cosiddetto “morbo indiano”, come allora si chiamava il
colera.
361. Nel periodo borbonico,
Napoli ne fu investita nel 1836-37 e poi ancora nel 1854, ma
nuove epidemie vi furono dopo l’unità d’Italia (nel 1865-67;
nel 1873; nel 1884; ed ancora negli anni novanta del
secolo...), delle quali si dirà a suo luogo.
362. La prima ondata del “morbo
indiano”, quella del 1836-37, fu comunque la più terribile;
il suo bilancio, in nude cifre, fu il seguente:
1° periodo (2 ottobre 1836 - 8
marzo 1837): più di 10.000 colpiti; più della metà, uccisi.
2° periodo (13 aprile 1837 -
ottobre 1837): 21.784 colpiti; 13.810 uccisi.
363. Questi dati riguardano
l’intera città di Napoli ed il suo circondario, e durante
l’epidemia morì, fra gli altri, il 14 giugno 1837, il grande
poeta Giacomo Leopardi, che era a Napoli ospite del suo
amico Antonio Ranieri.
364. Limitatamente a Barra, i
morti (quelli ufficialmente annotati nei registri
parrocchiali) furono in numero di 340 nell’anno 1837.
Si consideri, come termine di
confronto, che i morti nell’anno precedente (1836) erano
stati 119 e 108 nel seguente (1838). Nell’anno 1837, dunque,
il colera provocò una mortalità che era circa il triplo
della mortalità media del Comune!
365. Subito dopo l’epidemia
(Atti Santa Visita del febbraio 1838), la popolazione
barrese risultava ammontare a 6.989 “anime”, di cui 3.511
donne e 3.478 uomini.
Questo dato, purtroppo, può
essere confrontato solo con quello risalente a 20 anni prima
(Atti Santa Visita del 1818) che enumerava 5.817 “anime”
barresi.
I sintomi e le cure
366. La malattia si presentava
con sintomi particolarmente spaventevoli ed era, fino a quel
momento, del tutto sconosciuta da noi; non vi erano quindi
né cure specifiche già sperimentate, né misure certe di
prevenzione.
367. “Produceva prostrazione di
forze, dolore allo stomaco, tumefazione all’addome,
gorgogliamento nel ventre, vomiti enormi con alternanti o
simultanee evacuazioni strabocchevoli di un liquido acquoso,
nel quale vedevasi una sostanza argillosa. Cagionava inoltre
sete inestinguibile, granchi violenti prima alle estremità e
quindi alle braccia, alle gambe, alle cosce, all’addome ed
alle parti inferiori del torace. Spasmi atrocissimi che
facevano dibattere violentemente l’infermo, respirazione
affannosa, freddo e pallore nel corpo e quindi cambiamento
della cute in colore quasi turchino porporino. In tal guisa,
secondo la violenza del male e la costituzione degli
individui, l’uomo attaccato perdeva la vita in poche ore e
talvolta all’istante”
[9].
368. “Nei primi giorni, si
ebbero più morti di paura o per mancanza di assistenza che
per causa diretta del colera. Tra gli altri spaventi di cui
erano assaliti i colerici, il più terribile era quello di
vedersi presentare al capezzale un uomo avvolto dal capo ai
piedi in una veste di pece nera, avendo soltanto due
aperture a cerchio innanzi agli occhi per vedere, ed
annunziarsi al sofferente come il medico o l’infermiere.
Figuratevi se quel tremendo fantasma poteva far bene
all’affranto e spaventato colerico!”
[10].
369. Nonostante i limiti propri
dell’epoca, va però detto che le misure approntate, anche
grazie all’impegno del giovane re Ferdinando II (salito al
trono solo sette anni prima, nel 1830), furono tempestive ed
organiche.
370. In città, fu istituita una
commissione centrale, dalla quale dipendevano 12
sotto-commissioni, una per ogni quartiere.
371. Ognuna di queste, nel
proprio quartiere di competenza, doveva provvedere a tener
pulite le strade, a vigilare sui cibi in vendita, a far
imbiancare con calce i bassi più malsani, ad allontanare le
lavorazioni insalubri (come le concerie), ad accendere dei
falò per diffondere nell’aria certe sostanze che si
ritenevano purificatrici.
372. Inoltre, ogni
sotto-commissione doveva provvedere alla assistenza
domiciliare di tutti gli ammalati, avvalendosi ognuna di 5-6
medici fissi, che si alternavano nel servizio il giorno e la
notte, e di farmacie appositamente individuate, che
fornivano gratuitamente le medicine prescritte, con
successivo rimborso da parte della commissione centrale.
373. Si ebbe insomma un esempio
di buon funzionamento di ciò che oggi diremmo i “Consigli di
quartiere”...
374. Da notare anche il fatto
che, nonostante fossero stati approntati da subito ospedali
e luoghi di cura appositi, nessuna famiglia volle mandarci i
propri malati, preferendo curarli in casa, e perciò venne
istituito il “servizio medico domiciliare” di cui sopra.
Negli ospedali andò solo chi non aveva famiglia propria o
chi era già assistito in strutture caritative.
Il colera del 1836-37 a Barra
375. Analoghe misure furono
prese anche per i Comuni vicini, quindi anche per Barra.
376. L’unico medico (Ascione) e
l’unico farmacista (Viviani) fecero quello che poterono, e
la famiglia Mastellone mise a disposizione una parte della
sua villa-masseria per adibirla ad ospedale (“Don Ignazio
Mastellone, figlio di Don Domenico e di Isabella Carpennino,
abitante nella propria masseria a Santa Rosa, di anni 75”,
risultò poi fra i morti nell’epidemia) anche se, pure da
noi, la maggior parte delle famiglie preferì l’assistenza
domiciliare, ed accudì i propri malati nelle povere case dei
cortili del Corso Sirena o delle campagne.
377. La malattia accomunò la
condizione delle classi, e contadini, borghesi ed
aristocratici furono, in proporzione al numero, egualmente
colpiti.
378. Quasi come un simbolo
dell’unità del Comune nella sventura, anche don Alessandro
Russo, che era parroco di Barra dal 1825, morì
nell’epidemia, l’8 maggio 1837.
Il camposanto dei colerosi in
Cupa Sant’Aniello
379. Sorte eguale ebbero poi
anche le salme dei defunti, che furono sepolte tutte insieme
nel “camposanto dei colerosi”, allora appositamente
istituito, come narra il Palomba:
380. “Il Governo aveva
prescritto che ... i morti di colera si seppellissero in un
camposanto appartato”. Questo camposanto non doveva essere
quello usuale (realizzato in base alla legge del 1817)
perché, cessato il colera, “sarebbe rimasto come interdetto,
e negato a nuovo uso”.
381. “Ben si prevedeva che ogni
Comune se lo avrebbe apparecchiato il più lontano che
potesse dall’abitato, e sul confine stesso del proprio
territorio.
Ma allora il territorio nostro
(di S.Giorgio a Cremano) era stato già stretto in mezzo da
quelli di Resina, Portici, Barra e S. Giovanni a Teduccio.
Chi pertanto non avrebbe temuto
che S. Giorgio sarebbe rimasto come assediato da cinque
camposanti colerici, cioè quanti, compreso il suo, sarebbero
stati quelli dei detti circonvicini, se ognuno di essi
avesse voluto apparecchiare il suo separatamente da quello
degli altri?
I nostri dunque (quelli di S.
Giorgio) proposero loro di considerare se non fosse
preferibile un camposanto unico, comune a tutti e cinque,
dove ciascuno di essi potesse interrare i suoi.
E siccome la ragione, che aveva
mosso i nostri a fare quella proposta, valeva
proporzionatamente anche per essi, e tutti avrebbero sentito
molto meno il dolore della spesa, niuno fu il quale
rispondesse che no”
[11].
382. Il camposanto per i
colerosi fu quindi disposto insieme dai 5 Comuni di Barra,
S. Giorgio a Cremano, S. Giovanni a Teduccio, Portici e
Resina, che vi interrarono ciascuno i propri defunti. Il
terreno che fu adoperato a questo uso era di un certo Andrea
Ascione, figlio di Gennaro, e costò in tutto 698 ducati.
|
Tomba di Francesca Cataldo morta a 22 anni nel colera
del 1837 |
383. In quel camposanto è
sepolto, fra gli altri, anche il celebre fisico Macedonio
Melloni (Parma, 1798; Portici, 1854), scienziato di fama
internazionale, che nel 1847 completò la fondazione
dell’Osservatorio Meteorologico sulla falde del Vesuvio, del
quale era stato nominato direttore. Rimosso poi
dall’incarico, per il suo coinvolgimento nei moti liberali
del 1848, si trovava agli arresti domiciliari nella sua
Villa Moretta in Portici quando morì nell’epidemia di colera
… (attenzione!) non quella del 1836-37, di cui stiamo ora
parlando e nella quale perì anche Giacomo Leopardi, ma in
quella successiva, del 1854.
384. “Ancor oggi”, continua il
Palomba (che scriveva nel 1881, ma le sue considerazioni
restano tuttora valide), “nella Cupa Santaniello si osserva
un recinto religiosamente chiuso e custodito ... e questo
per l’appunto è il camposanto dei colerosi unico, che quei
Comuni di Resina, Portici, Sangiorgio, Barra e Sangiovanni
apparecchiarono allora, dove tutti coloro che morirono in
essi del morbo ferale riposano unitamente, aspettando il
giorno estremo nel quale anche a loro sarà retribuito
secondo il merito.
385. Da allora in poi, ogni
anno, il dì dei Morti, moveva colà da Portici una Compagnia
di con-frati, detti del Buon Consiglio, e vi faceva qualche
poco di bene spirituale in soddisfazione di quelle anime.
Ma, passato che fu all’altra vita Mgr. Fusco, Rettore che
era di quella Congrega, e mutato in altro il governo
politico del nostro Regno, quel poco bene non si poté più
fare”
[12].
386. Ed ancor oggi, aggiungiamo
noi, il camposanto dei colerosi alla Cupa Sant’Aniello,
attualmente in territorio del Comune di Napoli, versa in uno
stato di vergognoso e deplorevole abbandono.
Don Paolo Riccardi (1785? -
1858)
387. Analogamente, meriterebbe
di uscire dall’oblio il nome di un illustre Barrese, la cui
vicenda pure è legata agli avvenimenti del 1836-37; quello,
cioè, di don Paolo Riccardi (“prete della Barra, uomo
insigne, pieno di carità e di zelo per tutti”) del quale
così narra il Palomba:
388. “I preti di S. Giorgio a
Cremano sono stati sempre pochi ... a differenza di quei di
Barra che eran parecchi. Tra questi, primeggiava Don Paolo
Riccardi, sì per la operosità del suo zelo che per la
prosperevole sua fortuna.
389. Parve dunque ai nostri (di
S. Giorgio a Cremano), che sarebbe stato loro di gran
vantaggio se lo avessero potuto guadagnare per se stessi, e
può immaginarsi l’allegrezza che preser tutti, quando
seppero che egli acconsentiva.
390. Ed il fatto mostrò che non
si erano ingannati. Imperciocché egli, venuto in mezzo a
noi, vi durò a stare per lunghi anni e, sebbene non si
distaccasse mai dalla sua Barra interamente, pure, oltre
alle fatiche ordinarie del sacro ministero, ... fece più di
una volta da Economo della nostra parrocchia ... pigliò
sopra di sé la cura del Pittore e, meglio col molto denaro
della sua borsa che col poco che giunse a raccogliere dai
fedeli di colà intorno, fornì lo stesso Pittore di preziosi
oggetti di culto liturgico”
[13].
391. Si deve qui ricordare che
la chiesetta del Pittore, in S. Giorgio a Cremano, è così
detta in quanto fu fatta edificare dal famoso pittore Luca
Giordano (1632-1705), che la volle intitolare alla Vergine
del Carmelo.
392. Il Giordano “dotò quella
sua cappella di 50 ducati annui, su i frutti del podere di
moggia 23 e della taverna detta il Cantarone, l’uno e
l’altra di sua proprietà, e quasi toccantisi con la stessa
cappella, imponendovi però l’obbligo di una Messa
quotidiana, salvo alla sua famiglia il diritto di patronato”
[14].
393. Morto però Giuseppe
Giordano, ultimo erede di Luca, la chiesetta passò in
proprietà del Comune di S. Giorgio a Cremano e,
pastoralmente, fu affidata alla parrocchia del medesimo
paese, pervenendo in tal modo, nella prima metà
dell’Ottocento, alla “cura” del nostro don Paolo Riccardi.
394. Il quale, al tempo del
colera (1836-37), si dedicò generosamente all’assistenza
degli ammalati ed anzi “appunto perché non era di S. Giorgio
ma della Barra, per quantunque non avesse mai lasciato in
abbandono alcuno della contrada posta intorno alla sua
chiesetta il quale fosse stato tocco dal colera, pure il
tempo residuo, di che poteva disporre, lo spendeva, come era
ragionevole che facesse, in pro dei suoi Barresi parimenti
tocchi da quella malattia”
[15].
395. Inoltre, abbiamo visto
((vedi n°302 de “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”) che
don Paolo Riccardi fu anche, per un certo periodo,
“confessore abituale” nonché amministratore del Collegio di
S. Maria Maddalena de’ Pazzi in Barra.
396. Dopo aver così messo in
evidenza la abnegazione di don Riccardi in vantaggio del
popolo di entrambi i Casali, il Palomba ci racconta però
anche di una sua umana debolezza, e della sofferenza che ne
patì, fino alla morte:
397. “Ma don Paolo era uomo pur
egli, e l’amore che a poco a poco si era in lui acceso pel
nostro paese (S. Giorgio a Cremano) aveva preso un
grandissimo fuoco. Si aspettava dunque che, dopo tutto
quello che se ne è narrato, si sarebbero ricordati di lui,
ove si fosse dato il caso di rimanere senza possessore
l’ufficio proprio dei nostri parrochi.
398. Pure, morirono in quel
mezzo di tempo il De Somma e il Borrelli, ma niuno fu che
pensasse a lui. E questa spezie d’ingratitudine tanto più
crudamente lo ferì nel cuore, quanto che gli fu raccontato,
ed era sventuratamente vero, che alcuni dei nostri gli
facevano in questo una sorda guerra.
399. Allora egli si ritirò alla
Barra... ove morì, più che settuagenario, il dì 3 dicembre
1858.
400. Don Luigi Vitale, nipote
di lui e sacerdote anch’egli, nella chiesa parrocchiale
della Barra
[16]
fece che gli si rendessero solennemente i supremi uffici; ed
in mezzo ad essi don Domenico Minichino
[17] ... lesse l’elogio funebre”
[18].
Dopo il 1837: la rinascita dell’arte della seta
401. Il 1837 non fu, però, solo
l’anno del colera. Per Barra, esso fu anche l’anno che fece
da spartiacque per un altro e ben diverso fenomeno e cioè la
rinascita dell’arte della seta.
402. Nella biografia del
Verolino, scritta da don Raffaele Guida nel 1890, leggiamo
infatti, tra l’altro (e si tratta di un prezioso scorcio
descrittivo della vita di Barra in quegli anni):
403. “Essendosi piantata in
Barra la tessitura della seta fin dal 1837, fibra che veniva
usata per fare cappelli e che portava molto lucro, il
Verolino fu mandato da suo padre presso D. Leonardo Matera,
fabbricante di seta nel palazzo detto Cannone, per
apprendere il mestiere.
404. Ivi per quattro anni
rimase abile da poter da se stesso lavorare. Riflettendo che
l’ultimo suo fratello Ferdinando èrasi fatto grandetto,
pensò di impiantare per suo conto la tessitura della seta,
insieme a suo fratello Ferdinando.
405. Quindi, per i diversi
lavori di seta che lavorava esattamente, di rasa e seta per
gli ombrelli, di felpa, etc. (e per la sua giustizia nel
negozio) aveva per questo da lontani paesi, cioè dalla
provincia di Avellino, e fin dalla Sicilia, commissioni di
lavori, dando quel prezzo che il Verolino domandava”.
406. Il Guida si compiace anche
di sottolineare come il Verolino “... per ogni canna di seta
lavorata, ne conservava un soldo, per fare un regalo a S.
Anna nella sua festa di luglio...” e come “... non avendo
tempo molto per poter studiare, anche lavorando metteva i
libri legati al telaio e così imparava la lezione mentre
faticava”.
407. Le annotazioni di don
Raffaele Guida sull’arte della seta in Barra sono confortate
altresì dalla descrizione fatta dall’Alvino nel 1845, ove
leggiamo:
“Appresso S. Giovanni a
Teduccio, giace il Casale della Barra, anch’esso delizioso
per le campagne e di miglior aria che non è quello ... era
esso compreso nel territorio appellato un tempo Tresano o
Trasano ... In questa contrada è la villa Bisignano,
notevole per le molte e rare piante che ivi conservansi, e
che una volta formavano la delizia degli stessi botanici ...
Il suo tenimento è ricco di gelsi, e principal sua industria
è quella della seta”
[19].
408. E dal Chiarini: “Da maggio
a settembre, i contadini di tali luoghi non li vedi
altrimenti applicati che tutti all’industria della seta, a
cui pigliano grandissima parte le donne”
[20].
A proposito dell’arte della
seta
409. In effetti, l’arte della
seta, introdotta dai Normanni e sviluppata dagli Aragonesi,
fu riportata a grande splendore dai Borboni, con
l’introduzione di nuove piantagioni di gelsi e l’allevamento
del baco da seta.
410. L’industria tessile, nel
suo complesso, costituiva (dopo i prodotti agricoli, con
l’olio innanzi a tutti) la seconda fonte di esportazione per
il Regno delle due Sicilie, ed era articolata, per ordine di
importanza, nei tre settori del cotone, della lana e della
seta; particolare peso avevano anche la lavorazione del lino
e della cànapa.
411. Ferdinando IV di Borbone,
a partire dal 1776, iniziò a disporre a S. Lèucio di
Caserta, poco distante dalla reggia, la “manifattura delle
sete”, e poi strutture destinate ad accogliere moderni
macchinari e le “politissime” abitazioni per i residenti.
Nel 1789, dettò egli stesso le leggi che dovevano regolare
la vita ed il lavoro degli operai e dei nuclei familiari di
quella che venne detta la “colonia di S. Lèucio”: “una delle
cose più originali di quel secolo, la più bella espressione
del periodo di idillio dell’illuminismo napoletano con
quell’ingenua e bizzarra umanità capricciosa, che costituì
il fondo della coscienza di Ferdinando IV...”
[21], tanto che poté essere
addirittura definita, in seguito, “una colonia socialista
nel regno dei Borboni”
[22].
412. Anche a Portici, nacque
una celebre fabbrica di “fettucce”, ovvero nastri di seta, e
tutti i Comuni ad oriente della città e sulle falde del
Vesuvio furono particolarmente interessati a questa
rinascita dell’antica arte.
413. Purtroppo, osserva
lapidariamente il Palomba, “la malattia che incolse ai bachi
da seta, e le porte che furono aperte alle produzioni
estere, mutarono la faccia di queste cose”.
La prima rivoluzione
industriale
414. Un vero e proprio
mutamento epocale si andava però delineando. L’onda della
prima rivoluzione industriale, generatasi in Inghilterra
nella seconda metà del Settecento, giungeva, sia pure con
ritardo, anche nella penisola italiana: al Sud, in verità,
più che al Nord.
415. Infatti, dai dati
ufficiali del primo censimento nazionale italiano del 1861,
si vede che, prima dell’unificazione, il Regno delle due
Sicilie rappresentava il 36,7% della popolazione italiana,
ma aveva il 51% degli operai (circa 1.600.000 sul totale di
3.131.000), distribuiti in pratica in tutti i principali
settori dell’industria.
Nella sola parte continentale
dell’ex-Regno vi erano circa 5.000 fabbriche, e la Regione
più industrializzata d’Italia era … la Campania (con l’11%
di operai sul totale della popolazione occupata).
416. Nel Regno di Napoli, fin
dal 1830 nacquero le prime “Società per azioni” e cominciò a
sorgere una vera e propria industria, soprattutto nelle aree
intorno alla capitale ed in particolare nella zona
orientale.
417. Del 1839 è l’inaugurazione
della prima linea ferroviaria d’Italia, la celebre tratta
Napoli-Portici. Così che: “Tre cose belle furono in
quell’anno (1839): la ferrovia, l’illuminazione a gas e Te
voglio bene assaje”
[23].
418. La strada ferrata
raggiunse Torre del Greco nel 1840, Castellammare di Stabia
nel 1842, Nocera nel 1844, e contemporaneamente, verso Nord,
Caserta nel 1843 e Capua nel 1844. Le tariffe, a quanto
pare, erano assai basse, sia per il trasporto viaggiatori
(tre classi) sia per le merci; e nel 1844, sulla tratta
Napoli-Castellammare transitarono 1.117.713 viaggiatori, in
gran parte “pendolari” che si recavano a Napoli per lavoro.
419. Nel 1840 (ben prima dunque
della Ansaldo, della Breda o della Fiat) sulla costa fra S.
Giovanni a Teduccio e Portici, sorgeva l’opificio di
Pietrarsa, che era la più grande industria metalmeccanica
della penisola, estesa su una superficie di 34.000 metri
quadrati: l’unica in grado di costruire motrici navali,
l’unica a non aver bisogno di macchinisti inglesi perché
dotata anche di “Scuola per alunni macchinisti” nonché
l’unica a possedere la tecnologia per costruire binari
ferroviari.
|
420. A Pietrarsa si costruivano
locomotive e vagoni, ma anche apparecchiature telegrafiche,
materiale bellico (affusti di cannone, bombe, granate) e
attrezzi vari (torni, fucine, cesoie, gru, pompe, laminati e
trafilati, caldaie, cuscinetti, spinatrici, foratrici): il
tutto con 820 “artefici paesani” (disegnatori, modellatori,
cesellatori, tornieri, limatori, montatori, etc.) e 230
“operai militari” che alloggiavano in una caserma
all’interno dell’opificio, cioè con più lavoratori che in
qualsiasi altro simile stabilimento nell’Italia
pre-unitaria.
421. E’ noto che a Pietrarsa fu
costruita la prima locomotiva ferroviaria d’Italia, ma anche
la prima nave a vapore del Mediterraneo venne realizzata nel
cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena: era una
goletta, con due alberi e un fumaiolo centrale, si chiamava
“Ferdinando I” e fu varata il 24 giugno 1818, addirittura
prima che la più grande potenza navale dell’epoca
(l’Inghilterra) riuscisse a fare altrettanto. E nel 1836
nasceva anche la prima Compagnia di navigazione a vapore del
Mediterraneo, che svolgeva un regolare servizio di
trasporto, compreso il trasporto della corrispondenza.
422. Accanto a Pietrarsa, nella
zona orientale di Napoli, sorsero la Zino ed Henry (poi
Macry ed Henry) e la Guppy, entrambe con circa 600 addetti.
423. La prima era specializzata
nel produrre materiale destinato ai cantieri navali,
macchine cardatrici per l’industria tessile, materiale
rotabile per le ferrovie.
424. La seconda, oltre a essere
una delle maggiori fornitrici di prodotti per uso delle navi
(guarnizioni, chiodi, viti, vernice) e la seconda fabbrica
italiana di questo specifico settore, fornì tra l’altro il
supporto delle 350 lampade per la prima illuminazione a gas
di Napoli (che fu la terza città europea ad averla, dopo
Londra e Parigi).
425. Giovanni Pattison, entrato
in società con Guppy, progettò in seguito una locomotiva
tecnologicamente all’avanguardia, in grado di superare anche
pendenze del 2.5%, come nel tratto collinare Nocera-Cava.
426. Come si vede, quindi,
presso di noi cominciarono ad esservi dei nuclei abbastanza
consistenti di classe operaia, a fianco dei contadini e
degli artigiani tradizionali.
E ciò perché, è il caso di
ribadirlo ancora, intorno alla metà del secolo e al momento
della conquista da parte dei Savoia nel 1860, l’Italia
meridionale era più industrializzata di quella del
Centro-Nord, e si trattava di industrie sia pubbliche sia
private sia miste: rigorosi, e sempre più numerosi, studi
storici e scientifici non lasciano alcun dubbio in proposito
[24], nonostante una persistente
vulgàta semi-colta in contrario.
Barra alla metà
dell’Ottocento
427. Gli sviluppi positivi
della nuova economia industriale ed il permanere della
tradizionale ricchezza costituita dall’agricoltura e dalla
vocazione “turistica” del Casale come luogo di villeggiatura
(ora non più solo dell’aristocrazia, ma anche della nuova
borghesia degli “arricchìti”), sembrano dunque fondersi in
modo costruttivo intorno alla metà del secolo.
428. Così, nel 1845, il Bonucci
può descrivere: “La strada che dall’edificio della dogana
conduce per quattro miglia al palazzo reale di Portici, è
una delle più ridenti che adornino le vicinanze di Napoli.
Da un lato è costeggiata dal
mare, il quale poco si discosta da essa in alcuni luoghi;
dall’altro offre il vaghissimo aspetto di piccoli paesi
sparsi sulle falde delle circostanti montagne, ricchissime
di popolo e di rigogliosa vegetazione, come S. Jorio, Barra,
Pollena, S. Anastasia”
[25].
429. E nel 1849, la visita
pastorale del card. Sisto Riario-Sforza (1845-1877) rileva
il seguente quadro statistico della popolazione di Barra:
Fanciulli:
Fanciulle:
Celibi: 1.508; Nubili:
1.760
Coniugati: 1.754; Coniugate:
1.754
Vedovi: 159; Vedove: 275
Sacerdoti: 18; Eremita: 1
Totale della popolazione: 7.229
Questo quadro statistico, che
purtroppo non considera più “fanciulli/e” come categoria a
parte, può essere comunque complessivamente (7.229 abitanti)
confrontato con l’analogo del 1818, antecedente alla
tragedia del colera (5.817 abitanti), e con quello del 1838,
immediatamente successivo al colera stesso (6.989 abitanti).
430. Tutto sommato, anche per
Barra, nonostante i drammi e le fatiche, potevano forse
valere, ancora in quegli anni, le parole del poeta Luigi
Serio (vedi n°157): “E’ vero che a Londra, diversamente che
a Napoli, non trovi neppure un solo uomo scalzo; ma lo
trovi, a Londra, un uomo che rida?”.
I Napoletani e … Giacomo
Leopardi
431. Né suscita stupore che la
“visione del mondo” di Giacomo Leopardi non trovasse molti
seguaci nella Napoli della prima metà dell’Ottocento, né fra
gli intellettuali né tanto meno fra il popolo.
Quel popolo “solare” e amante
della vita era abituato, per istinto e per esperienza
storica, a saper cogliere e godere con semplicità i momenti
di gioia dell’esistenza, e ad avere un rapporto sereno
finanche con la morte, sia attraverso il caratteristico
culto dei defunti sia per la religiosa speranza di una
giustizia e di una pace ultra-terrene.
Il Leopardi, è noto, assai se
ne spiacque e nella sua poesia “I nuovi credenti” dipinse
satiricamente la vita napoletana di quel tempo. Egli, dal
canto suo, si doleva costantemente dell’esistenza, intrisa
di sofferenza e di noia, e dichiarava preferibile la morte
intesa ateisticamente come annullamento totale.
Ma siamo proprio sicuri che
fosse lui, grandissimo poeta ma limitato filosofo, ad avere
ragione?
Il famoso 1848
432. Il famoso “quarantotto”,
che fu “l’anno delle rivoluzioni” in tutta Europa, non ebbe
che ripercussioni indirette e molto tenui nei Comuni intorno
alla città e quindi anche a Barra.
433. Nell’Italia meridionale,
fu la Sicilia ad insorgere per prima, chiedendo nuovamente
la “Costituzione del 1812”.
434. Sul suo esempio, anche i
liberali di Napoli organizzarono manifestazioni, che si
svolsero comunque nelle vie principali e più ricche della
città, con ben scarsa partecipazione di plebe ed ancor meno
di contadini.
435. Ferdinando II di Borbone
concesse la Costituzione, ed il nuovo parlamento eletto (si
ricordi però che avevano diritto al voto solo i proprietari
terrieri, e nemmeno tutti, ma solo i maggiori fra essi!)
cominciò a riunirsi in maggio nella sala di Monteoliveto.
436. Le assemblee furono subito
molto tumultuose, soprattutto per la divisione fra i
liberali “moderati” e quelli “democratici”. Questi ultimi,
incoraggiati dalle notizie dei successi di Milano e di
Parigi, premevano per ottenere di più di quanto il re avesse
già concesso.
437. La loro azione, però, fu
estremamente velleitaria: non più di 2.000 persone, senza
significativi collegamenti né con il vasto popolo della
città né con i contadini delle province, alzarono barricate
nelle vie principali della città (a Toledo, a Monteoliveto,
a S. Brigida, al Museo...), ma il tentativo insurrezionale
durò il solo giorno 15 maggio, al termine del quale le
truppe règie ebbero partita vinta.
438. Il re ebbe quindi mano
libera per restaurare, senza più alcuna concessione, la
situazione politica precedente, reprimendo idee ed
organizzazioni liberali di ogni tendenza.
439. Essendo questo, in estrema
sintesi, il quadro generale, è ben comprensibile che, ai
contadini dei Casali, alla plebe, ai piccoli artigiani ed
ancor più ai primi operai, quel tumulto della città nel 1848
apparisse, tutto sommato, solo come un conflitto “fra
signori”, che poco li riguardava e molti neppure capivano.
440. Risulta giustificato,
quindi, estendere anche a Barra la lapidaria descrizione
fatta dal Palomba per S. Giorgio a Cremano:
“Ed io non dico già che allora
(nel 1848) niuno, qui da noi, si diede aria come di amatore
di novità: ma que’ pochi che lo fecero, lo facevano con tale
accorgimento che quasi non vi ebbe chi se ne fosse
avveduto...”
[26].
Il dogma dell’Immacolata
Concezione di Maria (1854)
441. Sempre intorno alla metà
del secolo, vi fu invece una forte ripresa della religiosità
popolare, in corrispondenza dell’anno santo 1850 cui fece
seguito la proclamazione ufficiale del dogma della
Immacolata Concezione di Maria.
442. Ricordiamo qui che il papa
Pio IX (1846-1878), con la Bolla intitolata “Ineffabilis
Deus” e datata 8 dicembre 1854, sancì definitivamente come
“verità di fede” cattolica che: “La vergine Maria, nel primo
istante della sua concezione, per singolare grazia e
privilegio di Dio onnipotente ed in vista dei meriti di Gesù
Cristo salvatore del genere umano, fu preservata immune da
ogni macchia di colpa originale”.
443. E’ questo appunto il dogma
detto “della Immacolata Concezione di Maria”, la cui
proclamazione poneva termine ad un secolare dibattito
sull’argomento, svoltosi all’interno della Chiesa cattolica,
fra “macolisti” (soprattutto i domenicani) ed “immacolisti”
(soprattutto i francescani), dando ragione a questi ultimi.
Ferdinando (Carlo Maria) II di Borbone (Palermo 1810 - Caserta 1859) |
Le apparizioni di Lourdes
(1858)
444. Solo quattro anni dopo,
dall’11 febbraio fino al 16 luglio 1858 (festa della Madonna
del Carmelo), si verificarono le 18 apparizioni della
Vergine alla quattordicenne Bernadette Soubirous (1844-1879)
nei pressi della cittadina francese di Lourdes e, in una di
quelle apparizioni (precisamente, in quella del 25 marzo,
festa della Annunciazione) Maria disse a Bernadette: “Io
sono l’Immacolata Concezione”.
445. Anche a Barra, si vide in
quegli anni una fervida partecipazione del popolo alla vita
della Chiesa, in continuità, del resto, con la tradizione
dei secoli precedenti: in particolare, con l’ampliamento
delle due chiesette di campagna dello “Scassone” e
dell’“Oliva”.
I gemelli Musella allo
“Scassone” (1849-1854)
446. Si è detto a suo luogo
(vedi nn°104-111 de “La Barra nel Seicento”) della
fondazione della chiesetta di S. Maria di Costantinopoli a
Barra, nella contrada detta “Scassone”, aperta ufficialmente
al culto nel marzo del 1658, due anni dopo la grande peste
del 1656.
447. Dopo quasi due secoli, “la
cappella suddetta, nell’antico suo fabbricato, venne a
soffrire, e richiedeva pronte riparazioni. Ed ecco subito si
ricorse alla sistemazione della chiesa dalla famiglia
divotissima di Veneruso, abitante limitrofa alla chiesa, ma
coll’idea di ingrandirla e renderla più idonea alla
popolazione aumentata in quelle vicinanze”
[27].
448. La chiesa fu ingrandita di
circa due terzi, assumendo le dimensioni attuali, e fu
completata con la costruzione della cupola e del campanile.
449. I lavori durarono per ben
5 anni, dal 1849 al 1854, e “furono anni di sudori e
fatiche”, come si esprime la relazione sopra citata. La
popolazione fece a gara, in questo periodo, nel collaborare
alla grande opera: si lavorava ogni domenica “per carità” a
spianare il terreno, a portare carichi di pietre e ad ogni
possibile attività volontaria.
450. Nell’Archivio storico
diocesano, si conserva un diario giornaliero di quegli anni,
che rivela nei dettagli l’impegno e la generosità della
gente dello “Scassone”.
451. Animatori di questo grande
“cantiere” furono due fratelli gemelli (nati il 27 ottobre
1808), entrambi preti, Giuseppe e Gabriele Musella, i quali,
insieme alla famiglia Veneruso, sostennero anche le spese
maggiori.
452. I due Musella erano nati
proprio nella contrada “Scassone”: in quella chiesetta
rurale avevano ricevuto la loro prima educazione religiosa e
lì avevano avvertito la chiamata di Dio a mettersi al
servizio del Suo popolo come preti; quindi, erano certamente
imparentati con quasi tutte le poche famiglie del borgo,
conoscevano tutti e da tutti erano conosciuti e stimati.
453. Furono dunque gli
animatori ideali per quella commovente “liturgia”
[28] che fu l’edificazione
comunitaria della chiesetta di S. Maria di Costantinopoli.
454. Nel cimitero di Barra, si
vede attualmente la loro modesta sepoltura, sormontata da
una semplice colonnina quadrangolare che riporta la siffatta
iscrizione:
DEPOSITO DEI GEMELLI GIUSEPPE E
GABRIELE MUSELLA
PRETI DESIATI E PIANTI
QUESTO A 64 ANNI NEL 1872
E QUELLO A 75 ANNI NEL 1883
BENEDETTI
455. Nel novembre 1983, in
occasione dei 100 anni dalla morte del secondo dei gemelli
Musella, il parroco don Salvatore Russo, la comunità
parrocchiale di S. Maria di Costantinopoli “allo Scassone” e
i discendenti della famiglia Musella fecero restaurare la
sepoltura, aggiungendo una nuova iscrizione in memoria del
fatto.
In contrada “Oliva”
(1850-1857)
456. In quegli stessi anni,
nuovi sviluppi si ebbero anche per la chiesetta “dell’Oliva”
[29].
Negli Atti di Santa Visita (1850) del card. Sisto
Riario-Sforza (1845-1877) leggiamo:
“Il parroco relatore”, che era
don Giuseppe Sannino, parroco di Barra dall’agosto 1848 al
luglio 1861, “afferma essere la cappella di diritto
patronato benché a lui siano ignoti i nomi dei patroni; ed
aggiunge che essi patroni non vogliono incaricarsi delle
riparazioni occorrenti alla cappella”.
457. La chiesetta continuava
dunque, come sempre, ad essere accudita solo dalla fervida
comunità contadina circostante; come è confermato da una
iscrizione rinvenuta sotto l’altare e datata 1851 (quindi,
appena un anno dopo la Santa Visita del card. Riario-Sforza)
che dice: “Questo altare di marmo e tutti gli arredi sacri,
nonché la Messa e la manutenzione, è per l’elemosina dei
fedeli (1851)”.
458. Giustamente, quindi, la
commissione della Santa Visita del 1850 osservava: “Ma se,
sotto pena della privazione del diritto patronato, i patroni
sono tenuti non solo a dotare, ma ancora a fare le
riparazioni occorrenti alle chiese o cappelle di cui
vogliono vantare il patronato, poiché alla Commissione è
noto ciò che si ignora dal parroco relatore, cioè che la
cappella in parola è di patronato della casa del marchese
Andreassi, siccome apparisce tanto dagli atti della Visita
fatta nel 1818 dal cardinale Ruffo quanto da quelli
dell’ultima S. Visita fatta nel 1838 dal cardinale
Caracciolo, è questo il caso nel quale l’Em. Arcivescovo
bene sel può, qualora il creda espediente nella sua
saviezza, fare precetto ai patroni, previa la trina
ammonizione, di dotare fra certo tempo la chiesa e
d’attendere alle riparazioni che vi occorrono, sotto la
suddetta nota pena della privazione del patronato”.
459. Appare perciò chiaro che,
sulla base di queste osservazioni della commissione, il
card. Sisto Riario-Sforza “credette espediente nella sua
saviezza”, una volta effettuata la “triplice ammonizione”
prevista e verificato il completo disinteresse dei marchesi
Andreassi per la questione, di togliere il patronato alla
famiglia Andreassi e di affidarlo ad altri: nuovo patrono
della chiesa dell’Oliva fu il giudice Del Forno.
460. Questi, a sua volta,
chiamò il sacerdote barrese Raffaele Verolino a svolgere il
compito di Rettore della chiesetta.
Don Raffaele Verolino, primo
Rettore “dell’Oliva” (1858-1868)
461. Nella biografia di don
Raffaele Verolino (vedi sopra, n°402), leggiamo che egli,
appena ordinato prete (il 19 dicembre 1857), “per alcuni
mesi, fece da cappellano alla parrocchia di Barra ma,
chiamato a reggere la chiesetta dell’Oliva dal giudice Del
Forno (patrono), ivi spiegò tutto lo zelo sacerdotale.
Fu che allargò la piccola
chiesetta, occupando l’atrio che era fuori; fece il
campanile, con due stanzette da servire per il cappellano;
fece un nuovo quadro della Vergine, organo, sfera d’argento,
molti sacri arredi”.
462. Vediamo quindi che, nel
decennio 1858-68, anche il Verolino (come i Musella nel
1849-54) fu animatore dell’ampliamento e del restauro di una
chiesetta rurale di Barra, quella della contrada “Oliva”
(anch’essa, come S. Maria di Costantinopoli, di origine
Seicentesca), e il restauro dei due edifici fu evidentemente
il segno ed il risultato visibile di una costante e fervida
spiritualità cristiana popolare, del tutto impermeabile ed
estranea alla ideologia borghese, massonica e liberale che,
nel frattempo, stava per impadronirsi del potere politico
anche nel Sud.
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Francesco II di Borbone Napoli 1836 - Arco, Trento 1894 |
L’annessione al Regno sabàudo
d’Italia (1860)
463. Per approfondire la
vicenda della conquista del Regno delle due Sicilie da parte
del Regno sabàudo piemontese, lo studioso lettore potrà
leggere, in questo stesso sito Internet “Il portale del
Sud”, la documentata narrazione di Giuseppe Ressa.
Qui ci limitiamo a ricordare
che, durante la celebre spedizione dei “Mille” di Giuseppe
Garibaldi, che portò alla fine del Regno delle due Sicilie,
non vi furono battaglie a Napoli e nelle sue vicinanze,
grazie anche alla saggezza dell’ultimo re Borbone, Francesco
II (1859-1860), che non volle coinvolgere la città nella
guerra, per salvaguardarla da inutili stragi e distruzioni,
e si ritirò con l’esercito nella fortezza di Gaeta.
La battaglia decisiva si
svolse, com’è noto, sul fiume Volturno e fu seguita dal
lungo assedio alla rocca di Gaeta (dal 13 novembre 1860 al
13 febbraio 1861), dove l’esercito borbonico, animato dal re
e dalla regina Maria Sofia, resistette sino alla fine non
solo con grande dignità ma con autentico eroismo.
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Bandiera costituzionale del Regno delle Due
Sicilia |
464. Il re diede la
possibilità, a chi lo avesse voluto, di lasciare l’assedio e
consegnarsi al nemico ma tutti gli ufficiali, anche a nome
della truppa, indirizzarono al re un messaggio, veramente
degno d’immortal memoria, che diceva:
“Sire, in mezzo ai disgraziati
avvenimenti, di cui la tristezza dei tempi ci à fatto
spettatori afflitti ed indignati; noi sottoscritti,
uffìziali della Guarnigione di Gaeta, veniamo, uniti in una
ferma volontà, a rinnovare l'omaggio della nostra fede
innanzi al vostro trono, reso più venerabile e più splendido
dalla sventura.
Cingendo la spada, giurammo che
la bandiera affidataci da V. M. sarebbe difesa da noi, a
costo del nostro sangue. È a questo giuramento che
intendiamo restar fedeli; quali che siano le privazioni, le
sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dei
nostri capi, sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la
nostra vita e tutt'altro bene per il successo o pei bisogni
della causa comune.
Gelosi custodi di quest'onor
militare che solo distingue il soldato dal bandito, vogliamo
mostrare a V. M. ed all'Europa intera che se molti fra noi
ànno, col tradimento o viltà, macchiato il nome dell'Armata
Napolitana, grande fu pure il numero di quelli che si
sforzarono di trasmetterlo puro e senza macchia alla
posterità”.
465. Garibaldi, dal canto suo,
arrivò a Napoli in treno, il 7 settembre 1860, accompagnato
da pochi uomini e precedendo di due giorni il suo esercito.
466. Il 21 ottobre 1860, mentre
Vittorio Emanuele II di Savoia scendeva verso il Sud con le
sue truppe regolari, attraversando lo stato della Chiesa (il
famoso incontro a Teano si svolse poi il 26 ottobre), si
volle sancire con un plebiscito popolare l’avvenuta
conquista militare del Regno del Sud.
Si votò, quindi, sottoponendo
al popolo questa sola domanda: “Il popolo vuole l’Italia una
e indivisa, con Vittorio Emanuele II re costituzionale ed i
suoi legittimi discendenti?”
Il risultato del plebiscito fu
una schiacciante maggioranza di “sì”; ma si trattò, in
effetti, di un risultato largamente “truccato”: molte schede
furono vistosamente manomesse; molti che erano per il “sì”
votarono più di una volta; in alcune località il numero dei
“sì” risultava addirittura superiore a quello degli
abitanti, mentre in molte altre non si votò affatto.
“Alcuni paesi, invece di
votare, si rivoltarono contro coloro che consigliavano il
plebiscito. In quei paesi ove non era la forza armata, ad
onta degli sforzi dei liberali, non si fece plebiscito,
anche alla Barra, che è alle porte di Napoli”
[30].
467. Vediamo quindi che la
popolazione di Barra non si mostrò affatto entusiasta
dell’ingresso nel nuovo regno d’Italia sotto la dinastia dei
Savoia, rifiutandosi addirittura di partecipare al
plebiscito.
Si confermò così quel costante
atteggiamento filo-borbonico ed anti-borghese che abbiamo
detto caratterizzare il Casale (poi Comune) di Barra per
tutto il periodo risorgimentale (vedi nn°7-8) e che ben si
spiega con la composizione sociale e le vicende storiche di
esso.
I circa 9.000 abitanti del
Comune di Barra
[31] entrarono perciò nel nuovo
regime più sottomessi che convinti e gli eventi successivi
dimostrarono che essi non avevano, in definitiva, tutti i
torti.
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Maria Sofia, l'ultima regina |
Appendice: Suor Maria
Luisa di Gesù (1799-1875)
468. Personaggio emblematico
dell’Ottocento barrese è la “Serva di Dio” Suor Maria Luisa
di Gesù, che ne attraversò, a suo modo, tutte le varie fasi
storiche: la Repubblica, la prima restaurazione borbonica,
il decennio francese, la seconda restaurazione, e
l’annessione al Regno sabàudo.
Nascita e formazione
469. Maria Carmela Ascione
nacque infatti nel Casale della Barra il 28 febbraio 1799,
proprio all’inizio della turbinosa vicenda della Repubblica
napoletana (gennaio-giugno 1799).
Era la primogenita dei 10 figli
del dottor Giuseppe Ascione, in quel tempo unico medico di
Barra, e di Fortunata Carrese.
Il luogo della sua nascita fu
una stanza del Palazzo Magliano, proprio di fronte alla
parrocchia di S. Anna: del palazzo e del suo proprietario, e
del coinvolgimento di entrambi nella storia della Repubblica
napoletana, si è detto sopra (vedi nn°216 e 220).
470. Ricevette la sua
istruzione solo in famiglia, secondo il costume dell’epoca e
dato anche il contesto storico-sociale alquanto burrascoso
in cui visse la sua infanzia ed adolescenza: la caduta della
repubblica (1799), la prima restaurazione borbonica
(1799-1805), il secondo arrivo dei Francesi ed il
conseguente decennio napoleonico (1805-1815).
Respirò comunque nell’aria di
Barra sia la solida e concreta religiosità cristiana
popolare sia l’influsso delle nuove idee che venivano dalla
Francia, maturando gradualmente una propria personalità,
forte ed attraente, incentrata sulla fede, la preghiera e
l’impegno verso i più poveri e sofferenti.
Fin da ragazza, si trovò così
ad essere al centro di un gruppo di sue coetanee, ben 5
delle quali diverranno in seguito Suore.
Il travagliato inizio della
vita religiosa
471. Nel 1816, passato il
decennio francese nel corso del quale erano stati soppressi
quasi tutti gli Ordini religiosi sia maschili che femminili,
a 17 anni e vincendo le resistenze del padre, entrò fra le
Suore Benedettine del celebre monastero di Donnaromita in
Napoli; ma non si trovò a suo agio nel grande e prestigioso
convento, tanto che, dopo soli 6 mesi, per l’aridità di
spirito e per una strana malattia al fegato che l’aveva
colpita, ritornò nella casa paterna alla Barra.
472. Quattro anni dopo, nel
1820, entrò nel Ritiro dell’Addolorata all’Olivella in
Napoli: sette mesi di noviziato e poi, a 21 anni di età,
Maria Carmela Ascione divenne Suor Maria Luisa di Gesù.
Anche qui, all’inizio, ebbe problemi di salute: l’assalì una
forte febbre, che in otto giorni la ridusse quasi in fin di
vita, ma guarì rapidamente una volta tornata di nuovo a casa
sua.
473. Dopo circa altri tre anni
trascorsi fra le mura domestiche a Barra, le Suore
dell’Olivella la vollero nuovamente fra di loro, e così nel
1824 ritornò al Ritiro, chiamata addirittura a reggerlo in
qualità di Superiora.
La biografa di S. Filomena
474. In questo periodo, ebbe
modo di conoscere Don Francesco Di Lucia (1772–1847) pio e
dotto sacerdote nativo di Mugnano del Cardinale (Diocesi di
Nola, in Campania) il quale, il 10 agosto 1810, aveva
effettuato la “traslazione” dei resti mortali di una
fanciulla martire dei primi secoli cristiani, di nome
Filomena, dalle catacombe di Priscilla in Roma, dove erano
state rinvenute tre anni prima, alla chiesa della Madonna
delle Grazie in Mugnano, dove tuttora si trovano.
Da quel momento, Don Francesco
Di Lucia era divenuto il diligente custode di quelle
reliquie e l’appassionato divulgatore della devozione nei
confronti della martire fanciulla, la cui fama si andava
diffondendo in tutto il Regno delle due Sicilie e poi anche
all’estero, accompagnata dalla narrazione di un numero
sempre crescente di guarigioni e prodigi a lei attribuiti.
|
Lapide sepolcro Santa Filomena |
475. A partire dal 1824, e poi
in successive ampliate edizioni, Don Francesco Di Lucia
pubblicò anche una “Relazione istorica della traslazione del
sagro corpo e miracoli di Santa Filomena, vergine e martire,
da Roma a Mugnano del Cardinale”.
La nostra Suor Maria Luisa di
Gesù, che aveva incontrato Don Francesco Di Lucia e letto il
suo libro, fu “incaricata dall’obbedienza (cioè dal suo
confessore) a cercare altre notizie della vita e dei martìrj
della santa vergine e martire Filomena”.
E così, il 3 agosto 1833,
“mentre stava chiusa nella sua cella e così pregava, si
serrarono i suoi occhi e …” il lettore curioso ed
interessato potrà leggere direttamente in Rete, dove è
disponibile, il libro del Di Lucia, nel quale egli
prontamente aggiunse … la narrazione della vita e del
martirio di S. Filomena, che la stessa santa fece a Suor
Maria Luisa di Gesù.
|
Santa Filomena |
L’incontro provvidenziale
476. Nel 1835 avvenne il
provvidenziale incontro con don Luigi Navarro che sarà il
suo consigliere e direttore spirituale fino alla morte di
lui nel 1863.
Il commento ai libri della Bibbia
477. Il primo frutto di questo
incontro fu l’incoraggiamento, che lei ne ebbe, ad iniziare
un’opera, per quell’epoca, decisamente inusuale e
“all’avanguardia”, soprattutto per una donna: cominciò a
scrivere, senza aver fatto alcun tipo di studi oltre ciò che
aveva appreso in famiglia, un commento sistematico ai
singoli libri biblici, sia dell’Antica che della Nuova
Alleanza.
Continuò quest’opera, ponderosa
e ricca di singolari intuizioni interpretative, per tutta la
sua vita, con una spiritualità di rapporto diretto con le
Sacre Scritture che ricorda quella della Chiesa dei primi
secoli.
I primi fascicoli furono
stampati già nel 1839, ad Imola, per interessamento del
segretario dell’allora vescovo di quella città, Mons.
Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792-1878), che diverrà poi,
dal 1846, il papa Pio IX.
Mons. Mastai Ferretti ebbe
perciò l’occasione di leggere e di apprezzare gli scritti
della Madre Maria Luisa di Gesù, ed anche in seguito,
divenuto papa, continuò a seguirli con interesse e rimase in
corrispondenza con lei, indirizzandole diverse lettere
autografe e chiamandola sempre con stima “figlia
dilettissima”.
478. La sua opera di autrice si
completa con diversi opuscoli e libri di meditazione e di
devozione, largamente diffusi in Italia ed in parte tradotti
anche in francese.
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Suor Maria Luisa di Gesù |
La fondazione della “Stella
mattutina”
479. Il secondo frutto
dell’incontro spirituale con don Luigi Navarro fu la nascita
della sua nuova congregazione religiosa.
Già intorno al 1830, prima di
conoscere don Navarro, aveva cominciato a pensare alla
fondazione di un nuovo Istituto religioso, posto sotto il
particolare patrocinio di S. Filomena, ed aveva anche
iniziato a scriverne la Regola.
Il direttore spirituale la
incoraggiò e la confermò nel suo intento e così, scampata
provvidenzialmente al colera che colpì anche lei nel 1836,
riuscì a dare inizio all’opera.
480. L’8 maggio 1840, nel
popolare quartiere napoletano di S. Lucia, s’inaugurò la
prima casa del Pio Istituto di Maria SS. Addolorata e di S.
Filomena: il gruppo iniziale delle Suore era costituito da
lei stessa, da sua sorella, da una religiosa e una novizia
provenienti dal precedente “Ritiro”, e tre giovani aspiranti
che presero il velo nel 1843: in tutto, 7 donne, che
insegnavano il catechismo e i rudimenti dell’istruzione
elementare alle bambine dei pescatori e dei marinai di S.
Lucia.
481. L’amicizia spirituale che
in quel tempo instaurò con la principessa russa Zenaide
Volkonstky, da poco rimasta vedova, le sarà poi di grande
aiuto nell’aprire una seconda casa del Pio Istituto, in
un’altra zona popolare di Napoli, il Borgo S. Antonio Abate.
Questa seconda casa venne inaugurata l’11 maggio del 1851 e
5 anni dopo, il 13 luglio 1856, venne aperta al culto la
chiesa annessa, dedicata alla Vergine Maria “Stella
mattutina”.
Da quel momento, anche le Suore
vennero dette dal popolo “Suore della Stella mattutina”.
Nel frattempo, un terzo
convento venne fondato a S. Severo di Puglia, il 28 ottobre
1852.
482. E’ da notare che le Suore,
anche dopo la morte della fondatrice, mantennero sempre uno
speciale rapporto con la Barra in quanto paese natale di
lei, ed un convento della congregazione della “Stella
mattutina” è esistito lungo il Corso Sirena, a poca distanza
dal Palazzo Magliano, fino a circa la metà del Novecento.
Gli ultimi anni
483. Don Luigi Navarro morì nel
1863, poco dopo la conquista sabàuda, ed a lui subentrò,
come direttore spirituale di Suor Maria Luisa, il domenicano
padre Alberto Radente (1817-1885) che fu anche padre
spirituale di Bartolo Longo (1841-1926), il fondatore della
nuova Pompei.
Il P. Radente le impose per
obbedienza di scrivere la propria auto-biografia, che egli
stesso poi si curò di completare e di pubblicare.
484. Poco dopo, nel dicembre
1874, una misteriosa debolezza si manifestò nel corpo di
Suor Maria Luisa, impedendole finanche di muovere un passo;
già debilitata dalla cronica sofferenza al fegato e da
terribili emicranie, le sue condizioni si aggravarono man
mano, finché il 10 gennaio 1875 la sua anima si ricongiunse
definitivamente allo Sposo.
Per tre giorni il suo corpo
rimase esposto all’omaggio dei fedeli, accorsi soprattutto
dai due popolari rioni del Borgo S. Antonio Abate e di S.
Lucia, nonché dalla Barra suo paese natale.
La salma venne inizialmente
tumulata nel cimitero di S. Maria del Pianto a Poggioreale,
ma il 22 aprile 1947 venne traslata nella chiesa della
Congregazione “Stella mattutina” al Borgo S. Antonio Abate,
dove si trova tuttora.
Gli adempimenti canonici per la
sua beatificazione si aprirono nel 1890 ed il processo, a
fasi alterne, è tutt’oggi in corso.
485. Terminiamo con le semplici
ed efficaci parole scritte su di lei dal beato Bartolo
Longo: “Quanto bene allo spirito ci faceva conversare con
quella Santa vecchietta (suor Maria Luisa) sempre serena e
sorridente. Era il sorriso della grazia, che le brillava sul
volto. E il gaudio e la letizia del suo animo si
profondevano nell’animo altrui …".