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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

10.2 Il Periodo Borbonico (1790-1860)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

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Il signore feudale e il proprietario borghese

295. Per ben comprendere il senso della trasformazione (davvero cruciale!) che avvenne nel decennio francese, può essere utile il seguente classico confronto, dal punto di vista sociale e psicologico, tra le due figure tipiche del vecchio “signore feudale” e del nuovo “proprietario borghese”.

296. “L’idea del profitto, anzi la possibilità stessa del profitto, sono incompatibili con la condizione del signore feudale. Non avendo modo, in assenza di sbocchi, di produrre per la vendita, egli non deve perciò sforzarsi di ottenere dai suoi uomini e dalle sue terre un’eccedenza che gli sarebbe solo d’ impaccio. Costretto a consumare lui stesso le sue rendite, si limita a commisurarle ai suoi bisogni. Vive un’esistenza assicurata dal funzionamento tradizionale di un’organizzazione che non pensa affatto a migliorare.

297. Sarebbe interessante sapere, anche se bisogna purtroppo rinunciarvi, quale era nei latifondi, che i loro signori non sfruttavano per il profitto, il guadagno del contadino... dopo che si era disobbligato, alle date consuete, fornendo le prestazioni in natura che gravavano sulla sua terra. Ben poco, certo, se non proprio niente. Ma questo poco bastava a gente che, più o meno come il loro signore, non pensava a produrre al di là dei propri bisogni. Certo di non essere cacciato, dal momento che la sua concessione di terra era ereditaria, il contadino godeva almeno del vantaggio della sicurezza.

298. L’idea che di solito ci si fa dello sfruttamento feudale è probabilmente un po' sommaria. Lo sfruttamento dell’uomo presuppone la volontà di servirsene come di un utensile al fine di ottenere il massimo rendimento. La schiavitù dell’antichità, quella dei negri nelle colonie del Seicento e del Settecento, oppure la condizione degli operai nella grande industria nella prima metà dell’Ottocento ne forniscono esempi fin troppo noti.

Francesco di Borbone, ritratto con la famiglia

299. Ma quanta differenza con la signoria medioevale, in cui l’onnipotente costume, che determina i diritti e gli obblighi di ciascuno, si oppone per ciò stesso al libero esercizio della supremazia economica e impedisce a questa supremazia di esprimersi in tutto il suo rigore, cui certo si abbandonerebbe sotto il pungolo del profitto!” [1].

300. Viceversa, la logica del proprietario borghese, in regime di “mercato” e di “libera concorrenza”, è proprio quella di produrre per la vendita, sotto il pungolo del profitto e tale logica ha il suo spietato rigore.

301. La borghesia rimproverava all’aristocrazia di essere statica, di non introdurre miglioramenti tecnologici nell’agricoltura e di lasciare, anzi, incolte ed improduttive buona parte delle proprie terre; in realtà, però, come dice il Pirenne, né l’aristocrazia né i contadini avevano particolare bisogno di fare questo.

302. La borghesia, invece, una volta impadronitasi delle terre, ne migliorò indubbiamente la produttività ma questo andò in realtà a vantaggio dei soli borghesi e del loro profitto, perché richiedeva che i contadini venissero sfruttati più intensamente ed inoltre perdessero la stabilità del loro posto di lavoro.

303. I contadini, inoltre, perdevano i loro tradizionali diritti di “usi civici” sulle terre demaniali, che prima consentivano loro di procurarsi gratuitamente parte del necessario e per di più, essendo diventati dei “liberi cittadini” alla pari (teoricamente) dei loro padroni, erano soggetti a nuove forme di tassazione.

La trasformazione del rapporto con la natura

304. La terra stessa perdeva la sua antica sacralità.

In regime feudale, la terra faceva, per così dire, parte integrante della famiglia. Sia per il signore sia per il contadino sia per i conventi, essa era ereditaria ed inalienabile; veniva sostanzialmente rispettata nei suoi ritmi, ai quali si adattavano i ritmi degli uomini (e non viceversa), che le chiedevano peraltro solo il necessario per vivere e nulla di più; le vaste zone “inutilizzate” di boschi e di foreste, di prato e di pascolo, costituivano inoltre una riserva naturale preziosa per salvaguardare inalterate le risorse essenziali (l’acqua, l’aria, etc.).

305. Viceversa, con l’avvento della borghesia, la terra diventava un semplice oggetto, da sfruttare il più possibile, ed una semplice merce, da comprare e vendere, in vista di un profitto.

306. Si ponevano così le premesse di quella “crisi ecologica” che esploderà poi drammaticamente nella seconda metà del Novecento.

I contadini fra “signori” e “padroni”

307. In definitiva, nel passare dal dominio del signore feudale a quello del proprietario borghese, il contadino aveva poco da guadagnare e molto da perdere, e ciò spiega ampiamente il fatto che, fin quando non si costituirono in movimento per difendere autonomamente i propri interessi, i contadini (specialmente quelli meridionali e quelli che vivevano su terre demaniali o monastiche) furono molto più spesso a fianco degli antichi signori feudali che dei nuovi padroni borghesi (vedi sopra, nn°6-8).

308. Il contadino meridionale, come del resto il làzzaro di città, non aveva certo gli strumenti per fare raffinate analisi socio-culturali, ma sapeva, per intuito di classe e per esperienza diretta, che: ‘O pezzènte sagliùto è peggio d’o signore nato.

Barra nel decennio francese

309. Anche a Barra furono dunque introdotte tutte le novità sopra descritte.

In particolare furono, in quel periodo, soppressi i due storici conventi (quello francescano e quello domenicano) e sottoposte a controlli e limitazioni tutte le attività ecclesiastiche.

310. “In esecuzione dell’ordine ministeriale delli 8 giugno 1811, numero 1778, di cui ve ne accludo copia, disponete, Signor Colonnello, che sia effettuato il cambio della campana rotta della chiesa parrocchiale della Barra, del peso di càntara 4 e ròtola 80, con quella esistente nell’Arsenale, del peso di càntara 4 e ròtola 30; vale a dire, 50 ròtola di differenza in vantaggio del Governo” [2].

311. Con questa lettera, il Comandante in Capo dello Stato Maggiore dell’Artiglieria, barone Gondallier de Tugny, ordina al colonnello Francesco Giulietti, direttore dell’Arsenale di Napoli, di procedere al poco onesto “cambio di campana” nella chiesa parrocchiale di Barra.

312. Ma è già molto, perché in altre circostanze ed altri luoghi i Francesi procedettero direttamente alla spoliazione delle chiese ed al furto delle campane, molto adatte per costruire cannoni!

Il primo Ordine religioso femminile in Barra

313. Se è vero che, in quel periodo, vennero cacciati Francescani e Domenicani, occorre però anche dire che furono proprio i Francesi ad introdurre in Barra, per la prima volta, un Ordine religioso femminile [3].

Si trattava delle “Suore della Carità” ma il popolo le disse subito “monache francesi”: perché francese era la loro fondatrice, ma anche perché si trattava di suore “illuminate”, di spirito “progressista”, e perciò protette dai Francesi, e da Gioacchino Murat in particolare, che diede loro, come sede principale in Napoli, l’antico convento di S. Maria Regina Coeli, ove tuttora è custodito il corpo della loro fondatrice, S. Giovanna Antida Thouret (1765-1826).

Anche in Barra, nella quale fino a quel momento non vi erano fondazioni religiose femminili [4], il Murat volle insediare quelle giovani Suore, le quali perseguivano un programma di “utilità sociale”, basato sull’assistenza materiale ai poveri ma soprattutto sulla diffusione dell’istruzione nei ceti popolari, in particolare nelle fanciulle, per renderle atte ad adempiere i loro compiti di “spose e madri” nella nuova società borghese che andava emergendo.

314. Alle “monache francesi” venne dato il palazzo con annesso giardino (già visibile nella mappa del Noja) che ha il suo ingresso proprio laddove la attuale Via G. B. Vela confluisce nel Corso Sirena, di fronte alle Ville Spinelli e De Cristofaro; in quella sede, le suore sono rimaste fino a poco dopo la metà del Novecento, quando lasciarono Barra per S. Giorgio a Cremano.

La prima Sede municipale di Barra

315. Nel periodo del decennio, come si è detto, venne istituito il “decurionato” ed inoltre i compiti dell’amministrazione locale si accrebbero notevolmente, con l’istituzione, fra l’altro, dell’anagrafe civile.

316. Divenne necessaria, pertanto, una vera e propria Sede municipale, che fu collocata nel palazzetto designato attualmente Corso Sirena n°290. Sopra l’arco d’ingresso di esso, venne posta la lapide, che tuttora si vede, raffigurante l’antico stemma del Casale, la Sirena bicàuda con il motto UNIVERSITAS, sul modello delle due lapidi apposte, sul finire del Seicento, ai lati del battistero nella chiesa parrocchiale “Ave gratia plena”.

Stemma del Comune di Barra

Il Vesuvio e il “terremoto di S. Anna” nel 1805

317. Si deve segnalare, infine, che il periodo del decennio francese fu accompagnato da una continua attività del Vesuvio.

318. Già nel 1794, vi era stata una eruzione che aveva completamente sommerso Torre del Greco, inoltrandosi fin nel mare per oltre 100 metri. Vi furono poi altre eruzioni nel 1804, 1805 e 1806 e di nuovo nel 1810, 1812 e 1813 e tutta questa attività del vulcano, non molto intensa ma ben “rumorosa” e continua, tenne ognuno, comprensibilmente, in costante apprensione.

319. L’eruzione del 1805, in particolare, fu accompagnata dal famoso terremoto detto “di S. Anna”, perché avvenne il 26 luglio e le popolazioni di Napoli e dei Casali attribuirono alla particolare intercessione della Santa il fatto di non aver subìto danni rilevanti in occasione di quell’evento. L’ondata di crescente devozione verso S. Anna, che si ebbe in quella circostanza, contribuì certamente a preparare da vicino il terreno alla sua proclamazione ufficiale a “patrona di Barra” nel 1822.

La seconda restaurazione borbonica (1815)

320. Napoleone Bonaparte venne infine sconfitto dalle potenze europee coalizzate ed il Congresso di Vienna (1814-15) restituì, a ciascuno degli antichi sovrani “legittimi”, il proprio regno.

321. Ferdinando di Borbone riebbe dunque il suo e, dal dicembre del 1816, si chiamò Ferdinando I delle due Sicilie.

322. In effetti, dal momento della sua fondazione ad opera dei Normanni e poi per tutto il periodo Svevo, il regno comprendente Italia meridionale e Sicilia si chiamava “Regno di Sicilia” ed aveva Palermo come capitale.

323. In base alla pace di Caltabellotta del 1302, Roberto d’Angiò, che era allora sovrano del “Regno di Sicilia”, dovette cedere l’isola a Federico II d’Aragona; Roberto manteneva però il titolo di “Re di Sicilia” mentre Federico assumeva quello di “Re di Trinacria”.

324. Riaccesasi poco dopo la guerra, anche il sovrano dell’isola prese il nome di “Re di Sicilia”, di modo che vi furono due re che portavano lo stesso titolo, uno a Napoli e l’altro a Palermo. Per distinguerli, si parlò allora di “Regno di Sicilia di qua dal faro (cioè dello stretto di Messina)” e “Regno di Sicilia di là dal faro”.

325. Allorché nel 1442 Alfonso V d’Aragona, che già regnava sull’isola, conquistò anche Napoli, trovandosi ad essere sovrano di entrambi i regni che si chiamavano “di Sicilia”, assunse il titolo di “Rex utriusque Siciliae” (“Re di entrambe le Sicilie”), che venne ereditato da tutti i suoi successori fino ai Borboni.

326. Si trattava però di una unione limitata alla sola unità del Sovrano, nel senso che i due regni rimanevano, di fatto, del tutto indipendenti l’uno dall’altro (con diverse leggi, diversa moneta, diversi ordinamenti, etc.): erano semplicemente due regni che appartenevano ad uno stesso monarca.

327. Così, nel 1816, Ferdinando di Borbone si trovava ad essere Ferdinando IV, come re di Napoli, e Ferdinando III, come re di Sicilia.

In quella data, però, egli intese sopprimere di fatto l’indipendenza della Sicilia, unificando, anche negli ordinamenti, i due regni in uno solo: per significare questo, si denominò da allora Ferdinando I delle due Sicilie.

328. Fu allora che i suoi nemici coniarono il gustoso epigramma: 

Fosti quarto, fosti terzo,

or t’intitoli primiero.

Se continui questo scherzo,

finirà che resti zero.

Ciò che rimase e quello che cambiò

329. Comunque si volesse chiamare il re, quel Regno era ormai così strutturalmente mutato che, anche volendo, sarebbe stato impossibile riportarlo alla situazione precedente.

330. La proprietà delle terre aveva subito un tale rimescolamento ed i rapporti sociali erano così cambiati a vantaggio della nuova classe borghese, che non si poteva nemmeno pensare di ri-modificarli per via amministrativa, senza provocare disordini incontrollabili.

331. D’altra parte, la nuova organizzazione dello Stato (tribunali, esercito, anagrafe, catasto, nuovo sistema di tassazione, etc.), oltre ad essere ormai consolidata, era comunque più unificata, più semplice e meglio gestibile, rispetto alla precedente frammentazione ed anarchia feudale.

332. Di conseguenza, Ferdinando lasciò inalterate gran parte delle principali novità introdotte dai Francesi, limitandosi a cambiarne il nome ed a correggere solo quelli che sembrarono insopportabili “eccessi”.

333. Così, ad esempio, dal Codice civile, che rimase quello napoleonico anche se ri-battezzato “ferdinandeo”, fu cancellato il divorzio.

334. In particolare, fu stipulato con la Chiesa un nuovo Concordato (nel 1818) che ripristinava la religione cattolica come unica religione dello Stato, la censura ecclesiastica su tutti i libri e giornali pubblicati, ed il controllo degli Ordini religiosi sull’intero sistema dell’istruzione pubblica ...

335. Anche a Barra, Domenicani e Francescani rientrarono nei loro conventi; ma alcune famiglie di “galantuomini” rimasero proprietarie di una parte delle terre demaniali ed ecclesiastiche, e l’amministrazione locale, pur cambiando nome (si chiamò, da quel momento, Comune di Barra), rimase quella del decurionato di tipo francese.

Nascita ... dei cimiteri (1817)

336. Di evidente ispirazione francese, anche se emanata ufficialmente da Ferdinando nel 1817, fu anche la legge che modificava il sistema di sepoltura dei defunti, incidendo notevolmente nel costume.

337. Fino ad allora, i morti venivano seppelliti nelle chiese: sotto il pavimento, il popolo semplice; nelle cappelle laterali (“di famiglia”), i nobili e le persone più rappresentative della comunità.

338. Napoleone aveva invece stabilito che i morti fossero sepolti in appositi cimiteri, posti fuori dai centri abitati, così come già usavano fare gli antichi romani con le loro “necròpoli”. Le motivazioni dei Francesi erano in parte di tipo ideologico (si voleva sottrarre alla Chiesa il “monopolio” sulla morte e sui funerali; eliminare i privilegi dell’aristocrazia, etc.), in parte di tipo “razionale” (il pericolo di epidemie).

339. Comunque fosse, anche ai borbonici sembrò bene dare corso al nuovo sistema, considerato anche il crescente aumento della popolazione e la conseguente saturazione degli antichi luoghi di sepoltura.

340. Sicché, come dice il Palomba, in “quello stesso anno del 1817, venne fuori una legge, la quale ingiungeva che i cadaveri non si seppellissero più dentro il chiuso dell’abitato; e che perciò i Comuni si affrettassero tutti a farsi ciascuno il proprio Campo Santo nell’aperto della campagna” [5].

341. Il Comune di Barra provvide al suo cimitero grazie al terreno messo a disposizione dalla famiglia Pironti, che possedeva una villa e terreni al margine del Comune, subito dopo quelli dei Mastellone.

Il Comune di Barra nel 1818

342. In definitiva, il nuovo Comune di Barra, nel 1818, tre anni dopo la fine del decennio francese, presentava il quadro anagrafico seguente [6]:

Fanciulli: 543; Fanciulle: 524

Adulti celibi: 404; Adulte nubili: 538 

Coniugati: 1.696; Coniugate: 1.696  

Vedovi: 116; Vedove: 264

Sacerdoti e chierici: 36 

Totale della popolazione: 5.817 

I moti carbonari del 1820-21

343. La nuova borghesia agraria e delle professioni, aumentata di numero e di peso sociale nel decennio francese, aspirava però ad un pieno riconoscimento, anche politico, della sua crescente influenza (vedi sopra, n°274).

344. Lo strumento di cui essa si dotò a tale scopo fu, in particolare nell’Italia meridionale, la sètta segreta detta carboneria, che raccoglieva aderenze anche fra gli ex-murattiani e fra i quadri intermedi del nuovo esercito napoletano.

345. Quando si seppe che, in Spagna, una insurrezione era riuscita ad ottenere il ripristino della Costituzione concessa agli spagnoli da Giuseppe Bonaparte nel 1812 e poi abrogata dalla restaurazione, la carboneria napoletana organizzò, il 1°luglio 1820, la sollevazione della guarnigione militare di Nola.

346. Guidato dai due sotto-tenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, un primo gruppo di militari insorse, chiedendo che anche il Re delle due Sicilie concedesse la “Costituzione del 1812”.

347. La rapida adesione al movimento di buona parte dell’esercito (fra gli altri, del generale Guglielmo Pepe) costrinse Ferdinando a cedere alla richiesta e, a partire dal 1°ottobre, cominciò addirittura a funzionare il primo parlamento elettivo (attenzione: potevano votare solo quelli che avevano un reddito medio-alto!).

348. Ma non durò a lungo. Convocato a Lubiana dalle potenze europee firmatarie del Congresso di Vienna, Ferdinando I non tardò a revocare del tutto la sua concessione e l’esercito inviato dagli Austriaci ripristinò rapidamente, nel marzo 1821, il precedente ordinamento del Regno.

Barra nel 1820-21

349. Non sembra che Barra sia stata particolarmente coinvolta in questi sommovimenti: l’adesione alla carboneria riguardò solo poche persone (ed erano, molto probabilmente, i nuovi proprietari terrieri, qualche vecchio “giacobino”, qualche commerciante o artigiano più agiati ed “evoluti”...) e si esaurì molto rapidamente.

350. Comunque, parlando di S. Giorgio a Cremano, il Palomba ci informa del fatto che: “Prima nella casa che, stata sino a poco fa di Quarto, adesso è di Di Lorenzo, e poi nell’altra di Punzo ... fu aperta una baracca, come dicevasi allora, ed ivi i nostri carbonari tenevano le loro tornate, alle quali prendevano parte, oltre alle solite giardiniere, anche quelli di Barra e di S. Giovanni a Teduccio. Ma questa commedia non durò a lungo perché, come si seppe che venivano gli Austriaci, la baracca si chiuse e gli emblemi settàri si interrarono tutti nel podere di De Laurentiis, che in questi ultimi tempi è stato comprato da Dentale” [7].

351. Il fatto che vi fosse un’unica “sede” carbonara per ben tre paesi (S. Giorgio a Cremano, Barra e S. Giovanni a Teduccio) dice, già di per sé, la esiguità del numero degli adepti.

Il memorabile 1822 e “l’anno santo” del 1825

352. Il successivo anno 1822 fu invece notevole per tutta intera la popolazione di Barra, a causa di due eventi, diversi ma ugualmente memorabili, che lo caratterizzarono.

353. Il primo fu che, il 9 luglio 1822, essendo papa Pio VII (1800-1823), arcivescovo di Napoli il card. Luigi Ruffo Scilla (1802-1832) e parroco don Gaetano Ascione (1806-1825), venne emessa la apposita Bolla pontificia con la quale S. Anna veniva proclamata ufficialmente quale “patrona” di tutto il Comune della Barra.

Sant'Anna di Barra

354. Quella intensa e diffusa devozione verso la madre di Maria, che aveva caratterizzato il Casale per tutto il Seicento ed il Settecento, riceveva finalmente, nell’universale giubilo della popolazione in occasione della festa di S. Anna di quell’anno, anche un riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa.

Sant'Anna di Barra

355. Si può aggiungere che S. Anna non mancò di “ricambiare”, in un certo qual modo, i particolari festeggiamenti che i Barresi le fecero in quell’anno.

Infatti, l’8 ottobre 1822, in una povera dimora di “sopra Case Langella”, quasi come un dono di S. Anna per il “suo” popolo, nasceva Raffaele Verolino, “l’apostolo del paese di Barra”, la personalità probabilmente più rappresentativa del clero barrese nell’Ottocento, che tanto bene doveva poi operare a vantaggio soprattutto della parte più umile e povera della popolazione del Comune.

356. Si può altresì aggiungere che il riconoscimento dato a S. Anna in quell’anno fu anche, per i Barresi, una preparazione per l’imminente “Anno santo” del 1825, che vide Barra al centro di tutta la zona ad oriente di Napoli.

357. Narra infatti il Palomba: “Poco dopo, avemmo il giubileo dell’anno santo. Questo, che secondo la moderna disciplina della Chiesa ricade ogni 25 anni e non si era potuto fare nel 1800 a cagione delle rivolture che allora commovevano il mondo, aspettavasi da tutti con ansia grande; ed arrivato che fu, produsse dovunque copiosissimo frutto ... Le chiese che si dovettero visitare furono: la parrocchia di S. Giorgio, la parrocchia della Barra, S. Domenico e S. Antonio parimenti della Barra...” [8].

358. In occasione del giubileo del 1825, furono dunque stabilite, come meta dei pellegrinaggi di tutta la zona ad oriente della città, proprio le chiese di Barra: la parrocchiale, con la venerata statua di S. Anna, da poco proclamata ufficialmente patrona del Comune, e le chiese dei Francescani e dei Domenicani, che si volle evidentemente “risarcire” dopo la soppressione patita nel decennio francese.

359. Ma Raffaele Verolino non aveva ancora compiuto un mese di vita, quando iniziò (e fu questo il secondo evento memorabile dell’anno) quella che è ritenuta dagli studiosi la più forte eruzione del Vesuvio di tutto il secolo: durò dal 21 ottobre fino all’11 novembre del 1822 e, anche se non procurò gravi danni materiali a Barra, segnò con grande spavento quell’anno negli animi, almeno fino a quando una nuova, e purtroppo più grande, sciagura non sopravvenne a cancellare momentaneamente il ricordo di tutte le altre.

Il colera del 1836-37

360. La malattia emblematica del Seicento era stata la peste; quella dell’Ottocento fu il cosiddetto “morbo indiano”, come allora si chiamava il colera.

361. Nel periodo borbonico, Napoli ne fu investita nel 1836-37 e poi ancora nel 1854, ma nuove epidemie vi furono dopo l’unità d’Italia (nel 1865-67; nel 1873; nel 1884; ed ancora negli anni novanta del secolo...), delle quali si dirà a suo luogo.

362. La prima ondata del “morbo indiano”, quella del 1836-37, fu comunque la più terribile; il suo bilancio, in nude cifre, fu il seguente:

1° periodo (2 ottobre 1836 - 8 marzo 1837): più di 10.000 colpiti; più della metà, uccisi.

2° periodo (13 aprile 1837 - ottobre 1837): 21.784 colpiti; 13.810 uccisi.

363. Questi dati riguardano l’intera città di Napoli ed il suo circondario, e durante l’epidemia morì, fra gli altri, il 14 giugno 1837, il grande poeta Giacomo Leopardi, che era a Napoli ospite del suo amico Antonio Ranieri.

364. Limitatamente a Barra, i morti (quelli ufficialmente annotati nei registri parrocchiali) furono in numero di 340 nell’anno 1837.

Si consideri, come termine di confronto, che i morti nell’anno precedente (1836) erano stati 119 e 108 nel seguente (1838). Nell’anno 1837, dunque, il colera provocò una mortalità che era circa il triplo della mortalità media del Comune!

365. Subito dopo l’epidemia (Atti Santa Visita del febbraio 1838), la popolazione barrese risultava ammontare a 6.989 “anime”, di cui 3.511 donne e 3.478 uomini.

Questo dato, purtroppo, può essere confrontato solo con quello risalente a 20 anni prima (Atti Santa Visita del 1818) che enumerava 5.817 “anime” barresi.

I sintomi e le cure

366. La malattia si presentava con sintomi particolarmente spaventevoli ed era, fino a quel momento, del tutto sconosciuta da noi; non vi erano quindi né cure specifiche già sperimentate, né misure certe di prevenzione.

367. “Produceva prostrazione di forze, dolore allo stomaco, tumefazione all’addome, gorgogliamento nel ventre, vomiti enormi con alternanti o simultanee evacuazioni strabocchevoli di un liquido acquoso, nel quale vedevasi una sostanza argillosa. Cagionava inoltre sete inestinguibile, granchi violenti prima alle estremità e quindi alle braccia, alle gambe, alle cosce, all’addome ed alle parti inferiori del torace. Spasmi atrocissimi che facevano dibattere violentemente l’infermo, respirazione affannosa, freddo e pallore nel corpo e quindi cambiamento della cute in colore quasi turchino porporino. In tal guisa, secondo la violenza del male e la costituzione degli individui, l’uomo attaccato perdeva la vita in poche ore e talvolta all’istante” [9].

368. “Nei primi giorni, si ebbero più morti di paura o per mancanza di assistenza che per causa diretta del colera. Tra gli altri spaventi di cui erano assaliti i colerici, il più terribile era quello di vedersi presentare al capezzale un uomo avvolto dal capo ai piedi in una veste di pece nera, avendo soltanto due aperture a cerchio innanzi agli occhi per vedere, ed annunziarsi al sofferente come il medico o l’infermiere. Figuratevi se quel tremendo fantasma poteva far bene all’affranto e spaventato colerico!” [10].

369. Nonostante i limiti propri dell’epoca, va però detto che le misure approntate, anche grazie all’impegno del giovane re Ferdinando II (salito al trono solo sette anni prima, nel 1830), furono tempestive ed organiche.

370. In città, fu istituita una commissione centrale, dalla quale dipendevano 12 sotto-commissioni, una per ogni quartiere.

371. Ognuna di queste, nel proprio quartiere di competenza, doveva provvedere a tener pulite le strade, a vigilare sui cibi in vendita, a far imbiancare con calce i bassi più malsani, ad allontanare le lavorazioni insalubri (come le concerie), ad accendere dei falò per diffondere nell’aria certe sostanze che si ritenevano purificatrici.

372. Inoltre, ogni sotto-commissione doveva provvedere alla assistenza domiciliare di tutti gli ammalati, avvalendosi ognuna di 5-6 medici fissi, che si alternavano nel servizio il giorno e la notte, e di farmacie appositamente individuate, che fornivano gratuitamente le medicine prescritte, con successivo rimborso da parte della commissione centrale.

373. Si ebbe insomma un esempio di buon funzionamento di ciò che oggi diremmo i “Consigli di quartiere”...

374. Da notare anche il fatto che, nonostante fossero stati approntati da subito ospedali e luoghi di cura appositi, nessuna famiglia volle mandarci i propri malati, preferendo curarli in casa, e perciò venne istituito il “servizio medico domiciliare” di cui sopra. Negli ospedali andò solo chi non aveva famiglia propria o chi era già assistito in strutture caritative.

Il colera del 1836-37 a Barra

375. Analoghe misure furono prese anche per i Comuni vicini, quindi anche per Barra.

376. L’unico medico (Ascione) e l’unico farmacista (Viviani) fecero quello che poterono, e la famiglia Mastellone mise a disposizione una parte della sua villa-masseria per adibirla ad ospedale (“Don Ignazio Mastellone, figlio di Don Domenico e di Isabella Carpennino, abitante nella propria masseria a Santa Rosa, di anni 75”, risultò poi fra i morti nell’epidemia) anche se, pure da noi, la maggior parte delle famiglie preferì l’assistenza domiciliare, ed accudì i propri malati nelle povere case dei cortili del Corso Sirena o delle campagne.

377. La malattia accomunò la condizione delle classi, e contadini, borghesi ed aristocratici furono, in proporzione al numero, egualmente colpiti.

378. Quasi come un simbolo dell’unità del Comune nella sventura, anche don Alessandro Russo, che era parroco di Barra dal 1825, morì nell’epidemia, l’8 maggio 1837.

Il camposanto dei colerosi in Cupa Sant’Aniello

379. Sorte eguale ebbero poi anche le salme dei defunti, che furono sepolte tutte insieme nel “camposanto dei colerosi”, allora appositamente istituito, come narra il Palomba:

380. “Il Governo aveva prescritto che ... i morti di colera si seppellissero in un camposanto appartato”. Questo camposanto non doveva essere quello usuale (realizzato in base alla legge del 1817) perché, cessato il colera, “sarebbe rimasto come interdetto, e negato a nuovo uso”.

381. “Ben si prevedeva che ogni Comune se lo avrebbe apparecchiato il più lontano che potesse dall’abitato, e sul confine stesso del proprio territorio.

Ma allora il territorio nostro (di S.Giorgio a Cremano) era stato già stretto in mezzo da quelli di Resina, Portici, Barra e S. Giovanni a Teduccio.

Chi pertanto non avrebbe temuto che S. Giorgio sarebbe rimasto come assediato da cinque camposanti colerici, cioè quanti, compreso il suo, sarebbero stati quelli dei detti circonvicini, se ognuno di essi avesse voluto apparecchiare il suo separatamente da quello degli altri?

I nostri dunque (quelli di S. Giorgio) proposero loro di considerare se non fosse preferibile un camposanto unico, comune a tutti e cinque, dove ciascuno di essi potesse interrare i suoi.

E siccome la ragione, che aveva mosso i nostri a fare quella proposta, valeva proporzionatamente anche per essi, e tutti avrebbero sentito molto meno il dolore della spesa, niuno fu il quale rispondesse che no” [11].

382. Il camposanto per i colerosi fu quindi disposto insieme dai 5 Comuni di Barra, S. Giorgio a Cremano, S. Giovanni a Teduccio, Portici e Resina, che vi interrarono ciascuno i propri defunti. Il terreno che fu adoperato a questo uso era di un certo Andrea Ascione, figlio di Gennaro, e costò in tutto 698 ducati.

Tomba di Francesca Cataldo morta a 22 anni nel colera del 1837

383. In quel camposanto è sepolto, fra gli altri, anche il celebre fisico Macedonio Melloni (Parma, 1798; Portici, 1854), scienziato di fama internazionale, che nel 1847 completò la fondazione dell’Osservatorio Meteorologico sulla falde del Vesuvio, del quale era stato nominato direttore. Rimosso poi dall’incarico, per il suo coinvolgimento nei moti liberali del 1848, si trovava agli arresti domiciliari nella sua Villa Moretta in Portici quando morì nell’epidemia di colera … (attenzione!) non quella del 1836-37, di cui stiamo ora parlando e nella quale perì anche Giacomo Leopardi, ma in quella successiva, del 1854.  

384. “Ancor oggi”, continua il Palomba (che scriveva nel 1881, ma le sue considerazioni restano tuttora valide), “nella Cupa Santaniello si osserva un recinto religiosamente chiuso e custodito ... e questo per l’appunto è il camposanto dei colerosi unico, che quei Comuni di Resina, Portici, Sangiorgio, Barra e Sangiovanni apparecchiarono allora, dove tutti coloro che morirono in essi del morbo ferale riposano unitamente, aspettando il giorno estremo nel quale anche a loro sarà retribuito secondo il merito.

385. Da allora in poi, ogni anno, il dì dei Morti, moveva colà da Portici una Compagnia di con-frati, detti del Buon Consiglio, e vi faceva qualche poco di bene spirituale in soddisfazione di quelle anime. Ma, passato che fu all’altra vita Mgr. Fusco, Rettore che era di quella Congrega, e mutato in altro il governo politico del nostro Regno, quel poco bene non si poté più fare” [12].   

386. Ed ancor oggi, aggiungiamo noi, il camposanto dei colerosi alla Cupa Sant’Aniello, attualmente in territorio del Comune di Napoli, versa in uno stato di vergognoso e deplorevole abbandono.

Don Paolo Riccardi (1785? - 1858)

387. Analogamente, meriterebbe di uscire dall’oblio il nome di un illustre Barrese, la cui vicenda pure è legata agli avvenimenti del 1836-37; quello, cioè, di don Paolo Riccardi (“prete della Barra, uomo insigne, pieno di carità e di zelo per tutti”) del quale così narra il Palomba:

388. “I preti di S. Giorgio a Cremano sono stati sempre pochi ... a differenza di quei di Barra che eran parecchi. Tra questi, primeggiava Don Paolo Riccardi, sì per la operosità del suo zelo che per la prosperevole sua fortuna.

389. Parve dunque ai nostri (di S. Giorgio a Cremano), che sarebbe stato loro di gran vantaggio se lo avessero potuto guadagnare per se stessi, e può immaginarsi l’allegrezza che preser tutti, quando seppero che egli acconsentiva.

390. Ed il fatto mostrò che non si erano ingannati. Imperciocché egli, venuto in mezzo a noi, vi durò a stare per lunghi anni e, sebbene non si distaccasse mai dalla sua Barra interamente, pure, oltre alle fatiche ordinarie del sacro ministero, ... fece più di una volta da Economo della nostra parrocchia ... pigliò sopra di sé la cura del Pittore e, meglio col molto denaro della sua borsa che col poco che giunse a raccogliere dai fedeli di colà intorno, fornì lo stesso Pittore di preziosi oggetti di culto liturgico” [13].

391. Si deve qui ricordare che la chiesetta del Pittore, in S. Giorgio a Cremano, è così detta in quanto fu fatta edificare dal famoso pittore Luca Giordano (1632-1705), che la volle intitolare alla Vergine del Carmelo.

392. Il Giordano “dotò quella sua cappella di 50 ducati annui, su i frutti del podere di moggia 23 e della taverna detta il Cantarone, l’uno e l’altra di sua proprietà, e quasi toccantisi con la stessa cappella, imponendovi però l’obbligo di una Messa quotidiana, salvo alla sua famiglia il diritto di patronato” [14]

393. Morto però Giuseppe Giordano, ultimo erede di Luca, la chiesetta passò in proprietà del Comune di S. Giorgio a Cremano e, pastoralmente, fu affidata alla parrocchia del medesimo paese, pervenendo in tal modo, nella prima metà dell’Ottocento, alla “cura” del nostro don Paolo Riccardi.  

394. Il quale, al tempo del colera (1836-37), si dedicò generosamente all’assistenza degli ammalati ed anzi “appunto perché non era di S. Giorgio ma della Barra, per quantunque non avesse mai lasciato in abbandono alcuno della contrada posta intorno alla sua chiesetta il quale fosse stato tocco dal colera, pure il tempo residuo, di che poteva disporre, lo spendeva, come era ragionevole che facesse, in pro dei suoi Barresi parimenti tocchi da quella malattia” [15].

395. Inoltre, abbiamo visto ((vedi n°302 de “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”) che don Paolo Riccardi fu anche, per un certo periodo, “confessore abituale” nonché amministratore del Collegio di S. Maria Maddalena de’ Pazzi in Barra.

396. Dopo aver così messo in evidenza la abnegazione di don Riccardi in vantaggio del popolo di entrambi i Casali, il Palomba ci racconta però anche di una sua umana debolezza, e della sofferenza che ne patì, fino alla morte:

397. “Ma don Paolo era uomo pur egli, e l’amore che a poco a poco si era in lui acceso pel nostro paese (S. Giorgio a Cremano) aveva preso un grandissimo fuoco. Si aspettava dunque che, dopo tutto quello che se ne è narrato, si sarebbero ricordati di lui, ove si fosse dato il caso di rimanere senza possessore l’ufficio proprio dei nostri parrochi.

398. Pure, morirono in quel mezzo di tempo il De Somma e il Borrelli, ma niuno fu che pensasse a lui. E questa spezie d’ingratitudine tanto più crudamente lo ferì nel cuore, quanto che gli fu raccontato, ed era sventuratamente vero, che alcuni dei nostri gli facevano in questo una sorda guerra.

399. Allora egli si ritirò alla Barra... ove morì, più che settuagenario, il dì 3 dicembre 1858.

400. Don Luigi Vitale, nipote di lui e sacerdote anch’egli, nella chiesa parrocchiale della Barra [16] fece che gli si rendessero solennemente i supremi uffici; ed in mezzo ad essi don Domenico Minichino [17] ... lesse l’elogio funebre” [18].

Dopo il 1837: la rinascita dell’arte della seta

401. Il 1837 non fu, però, solo l’anno del colera. Per Barra, esso fu anche l’anno che fece da spartiacque per un altro e ben diverso fenomeno e cioè la rinascita dell’arte della seta.

402. Nella biografia del Verolino, scritta da don Raffaele Guida nel 1890, leggiamo infatti, tra l’altro (e si tratta di un prezioso scorcio descrittivo della vita di Barra in quegli anni):

403. “Essendosi piantata in Barra la tessitura della seta fin dal 1837, fibra che veniva usata per fare cappelli e che portava molto lucro, il Verolino fu mandato da suo padre presso D. Leonardo Matera, fabbricante di seta nel palazzo detto Cannone, per apprendere il mestiere.

404. Ivi per quattro anni rimase abile da poter da se stesso lavorare. Riflettendo che l’ultimo suo fratello Ferdinando èrasi fatto grandetto, pensò di impiantare per suo conto la tessitura della seta, insieme a suo fratello Ferdinando.

405. Quindi, per i diversi lavori di seta che lavorava esattamente, di rasa e seta per gli ombrelli, di felpa, etc. (e per la sua giustizia nel negozio) aveva per questo da lontani paesi, cioè dalla provincia di Avellino, e fin dalla Sicilia, commissioni di lavori, dando quel prezzo che il Verolino domandava”.

406. Il Guida si compiace anche di sottolineare come il Verolino “... per ogni canna di seta lavorata, ne conservava un soldo, per fare un regalo a S. Anna nella sua festa di luglio...” e come “... non avendo tempo molto per poter studiare, anche lavorando metteva i libri legati al telaio e così imparava la lezione mentre faticava”.

407. Le annotazioni di don Raffaele Guida sull’arte della seta in Barra sono confortate altresì dalla descrizione fatta dall’Alvino nel 1845, ove leggiamo:

“Appresso S. Giovanni a Teduccio, giace il Casale della Barra, anch’esso delizioso per le campagne e di miglior aria che non è quello ... era esso compreso nel territorio appellato un tempo Tresano o Trasano ... In questa contrada è la villa Bisignano, notevole per le molte e rare piante che ivi conservansi, e che una volta formavano la delizia degli stessi botanici ... Il suo tenimento è ricco di gelsi, e principal sua industria è quella della seta” [19].

408. E dal Chiarini: “Da maggio a settembre, i contadini di tali luoghi non li vedi altrimenti applicati che tutti all’industria della seta, a cui pigliano grandissima parte le donne” [20].

A proposito dell’arte della seta

409. In effetti, l’arte della seta, introdotta dai Normanni e sviluppata dagli Aragonesi, fu riportata a grande splendore dai Borboni, con l’introduzione di nuove piantagioni di gelsi e l’allevamento del baco da seta.

410. L’industria tessile, nel suo complesso, costituiva (dopo i prodotti agricoli, con l’olio innanzi a tutti) la seconda fonte di esportazione per il Regno delle due Sicilie, ed era articolata, per ordine di importanza, nei tre settori del cotone, della lana e della seta; particolare peso avevano anche la lavorazione del lino e della cànapa.

411. Ferdinando IV di Borbone, a partire dal 1776, iniziò a disporre a S. Lèucio di Caserta, poco distante dalla reggia, la “manifattura delle sete”, e poi strutture destinate ad accogliere moderni macchinari e le “politissime” abitazioni per i residenti. Nel 1789, dettò egli stesso le leggi che dovevano regolare la vita ed il lavoro degli operai e dei nuclei familiari di quella che venne detta la “colonia di S. Lèucio”: “una delle cose più originali di quel secolo, la più bella espressione del periodo di idillio dell’illuminismo napoletano con quell’ingenua e bizzarra umanità capricciosa, che costituì il fondo della coscienza di Ferdinando IV...” [21], tanto che poté essere addirittura definita, in seguito, “una colonia socialista nel regno dei Borboni” [22].

412. Anche a Portici, nacque una celebre fabbrica di “fettucce”, ovvero nastri di seta, e tutti i Comuni ad oriente della città e sulle falde del Vesuvio furono particolarmente interessati a questa rinascita dell’antica arte.

413. Purtroppo, osserva lapidariamente il Palomba, “la malattia che incolse ai bachi da seta, e le porte che furono aperte alle produzioni estere, mutarono la faccia di queste cose”.

La prima rivoluzione industriale

414. Un vero e proprio mutamento epocale si andava però delineando. L’onda della prima rivoluzione industriale, generatasi in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, giungeva, sia pure con ritardo, anche nella penisola italiana: al Sud, in verità, più che al Nord.

415. Infatti, dai dati ufficiali del primo censimento nazionale italiano del 1861, si vede che, prima dell’unificazione, il Regno delle due Sicilie rappresentava il 36,7% della popolazione italiana, ma aveva il 51% degli operai (circa 1.600.000 sul totale di 3.131.000), distribuiti in pratica in tutti i principali settori dell’industria.

Nella sola parte continentale dell’ex-Regno vi erano circa 5.000 fabbriche, e la Regione più industrializzata d’Italia era … la Campania (con l’11% di operai sul totale della popolazione occupata).

416. Nel Regno di Napoli, fin dal 1830 nacquero le prime “Società per azioni” e cominciò a sorgere una vera e propria industria, soprattutto nelle aree intorno alla capitale ed in particolare nella zona orientale.

417. Del 1839 è l’inaugurazione della prima linea ferroviaria d’Italia, la celebre tratta Napoli-Portici. Così che: “Tre cose belle furono in quell’anno (1839): la ferrovia, l’illuminazione a gas e Te voglio bene assaje” [23].

Medaglia in argento del 1840 per l’inaugurazione della ferrovia Napoli-Nocera-Castellammare (collezione Francesco di Rauso, Caserta) clicca sull'immagine per ingrandire

418. La strada ferrata raggiunse Torre del Greco nel 1840, Castellammare di Stabia nel 1842, Nocera nel 1844, e contemporaneamente, verso Nord, Caserta nel 1843 e Capua nel 1844.  Le tariffe, a quanto pare, erano assai basse, sia per il trasporto viaggiatori (tre classi) sia per le merci; e nel 1844, sulla tratta Napoli-Castellammare transitarono 1.117.713 viaggiatori, in gran parte “pendolari” che si recavano a Napoli per lavoro.

419. Nel 1840 (ben prima dunque della Ansaldo, della Breda o della Fiat) sulla costa fra S. Giovanni a Teduccio e Portici, sorgeva l’opificio di Pietrarsa, che era la più grande industria metalmeccanica della penisola, estesa su una superficie di 34.000 metri quadrati: l’unica in grado di costruire motrici navali, l’unica a non aver bisogno di macchinisti inglesi perché dotata anche di “Scuola per alunni macchinisti” nonché l’unica a possedere la tecnologia per costruire binari ferroviari.

420. A Pietrarsa si costruivano locomotive e vagoni, ma anche apparecchiature telegrafiche, materiale bellico (affusti di cannone, bombe, granate) e attrezzi vari (torni, fucine, cesoie, gru, pompe, laminati e trafilati, caldaie, cuscinetti, spinatrici, foratrici):  il tutto con 820 “artefici paesani” (disegnatori, modellatori, cesellatori, tornieri, limatori, montatori, etc.) e 230 “operai militari” che alloggiavano in una caserma all’interno dell’opificio, cioè con più lavoratori che in qualsiasi altro simile stabilimento nell’Italia pre-unitaria.

421. E’ noto che a Pietrarsa fu costruita la prima locomotiva ferroviaria d’Italia, ma anche la prima nave a vapore del Mediterraneo venne realizzata nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena: era una goletta, con due alberi e un fumaiolo centrale, si chiamava “Ferdinando I” e fu varata il 24 giugno 1818, addirittura prima che la più grande potenza navale dell’epoca (l’Inghilterra) riuscisse a fare altrettanto. E nel 1836 nasceva anche la prima Compagnia di navigazione a vapore del Mediterraneo, che svolgeva un regolare servizio di trasporto, compreso il trasporto della corrispondenza.

422. Accanto a Pietrarsa, nella zona orientale di Napoli, sorsero la Zino ed Henry (poi Macry ed Henry) e la Guppy, entrambe con circa 600 addetti.

423. La prima era specializzata nel produrre materiale destinato ai cantieri navali, macchine cardatrici per l’industria tessile, materiale rotabile per le ferrovie.

424. La seconda, oltre a essere una delle maggiori fornitrici di prodotti per uso delle navi (guarnizioni, chiodi, viti, vernice) e la seconda fabbrica italiana di questo specifico settore, fornì tra l’altro il supporto delle 350 lampade per la prima illuminazione a gas di Napoli (che fu la terza città europea ad averla, dopo Londra e Parigi).

425. Giovanni Pattison, entrato in società con Guppy, progettò in seguito una locomotiva tecnologicamente all’avanguardia, in grado di superare anche pendenze del 2.5%, come nel tratto collinare Nocera-Cava.

426. Come si vede, quindi, presso di noi cominciarono ad esservi dei nuclei abbastanza consistenti di classe operaia, a fianco dei contadini e degli artigiani tradizionali.

E ciò perché, è il caso di ribadirlo ancora, intorno alla metà del secolo e al momento della conquista da parte dei Savoia nel 1860, l’Italia meridionale era più industrializzata di quella del Centro-Nord, e si trattava di industrie sia pubbliche sia private sia miste: rigorosi, e sempre più numerosi, studi storici e scientifici non lasciano alcun dubbio in proposito [24], nonostante una persistente vulgàta semi-colta in contrario.

Le tariffe ferroviarie in vigore dal 24 dicembre 1843. Clicca sull'immagine per ingrandire.

Barra alla metà dell’Ottocento

427. Gli sviluppi positivi della nuova economia industriale ed il permanere della tradizionale ricchezza costituita dall’agricoltura e dalla vocazione “turistica” del Casale come luogo di villeggiatura (ora non più solo dell’aristocrazia, ma anche della nuova borghesia degli “arricchìti”), sembrano dunque fondersi in modo costruttivo intorno alla metà del secolo.

428. Così, nel 1845, il Bonucci può descrivere: “La strada che dall’edificio della dogana conduce per quattro miglia al palazzo reale di Portici, è una delle più ridenti che adornino le vicinanze di Napoli.

Da un lato è costeggiata dal mare, il quale poco si discosta da essa in alcuni luoghi; dall’altro offre il vaghissimo aspetto di piccoli paesi sparsi sulle falde delle circostanti montagne, ricchissime di popolo e di rigogliosa vegetazione, come S. Jorio, Barra, Pollena, S. Anastasia” [25].

429. E nel 1849, la visita pastorale del card. Sisto Riario-Sforza (1845-1877) rileva il seguente quadro statistico della popolazione di Barra:

Fanciulli:        Fanciulle:                                                  

Celibi: 1.508; Nubili: 1.760     

Coniugati: 1.754; Coniugate: 1.754

Vedovi: 159; Vedove: 275

Sacerdoti: 18; Eremita: 1

Totale della popolazione: 7.229

Questo quadro statistico, che purtroppo non considera più “fanciulli/e” come categoria a parte, può essere comunque complessivamente (7.229 abitanti) confrontato con l’analogo del 1818, antecedente alla tragedia del colera (5.817 abitanti), e con quello del 1838, immediatamente successivo al colera stesso (6.989 abitanti).

430. Tutto sommato, anche per Barra, nonostante i drammi e le fatiche, potevano forse valere, ancora in quegli anni, le parole del poeta Luigi Serio (vedi n°157): “E’ vero che a Londra, diversamente che a Napoli, non trovi neppure un solo uomo scalzo; ma lo trovi, a Londra, un uomo che rida?”.

I Napoletani e … Giacomo Leopardi

431. Né suscita stupore che la “visione del mondo” di Giacomo Leopardi non trovasse molti seguaci nella Napoli della prima metà dell’Ottocento, né fra gli intellettuali né tanto meno fra il popolo.

Quel popolo “solare” e amante della vita era abituato, per istinto e per esperienza storica, a saper cogliere e godere con semplicità i momenti di gioia dell’esistenza, e ad avere un rapporto sereno finanche con la morte, sia attraverso il caratteristico culto dei defunti sia per la religiosa speranza di una giustizia e di una pace ultra-terrene.

Il Leopardi, è noto, assai se ne spiacque e nella sua poesia “I nuovi credenti” dipinse satiricamente la vita napoletana di quel tempo. Egli, dal canto suo, si doleva costantemente dell’esistenza, intrisa di sofferenza e di noia, e dichiarava preferibile la morte intesa ateisticamente come annullamento totale.

Ma siamo proprio sicuri che fosse lui, grandissimo poeta ma limitato filosofo, ad avere ragione?

Il famoso 1848

432. Il famoso “quarantotto”, che fu “l’anno delle rivoluzioni” in tutta Europa, non ebbe che ripercussioni indirette e molto tenui nei Comuni intorno alla città e quindi anche a Barra.

433. Nell’Italia meridionale, fu la Sicilia ad insorgere per prima, chiedendo nuovamente la “Costituzione del 1812”.

434. Sul suo esempio, anche i liberali di Napoli organizzarono manifestazioni, che si svolsero comunque nelle vie principali e più ricche della città, con ben scarsa partecipazione di plebe ed ancor meno di contadini.

435. Ferdinando II di Borbone concesse la Costituzione, ed il nuovo parlamento eletto (si ricordi però che avevano diritto al voto solo i proprietari terrieri, e nemmeno tutti, ma solo i maggiori fra essi!) cominciò a riunirsi in maggio nella sala di Monteoliveto.

436. Le assemblee furono subito molto tumultuose, soprattutto per la divisione fra i liberali “moderati” e quelli “democratici”. Questi ultimi, incoraggiati dalle notizie dei successi di Milano e di Parigi, premevano per ottenere di più di quanto il re avesse già concesso.

437. La loro azione, però, fu estremamente velleitaria: non più di 2.000 persone, senza significativi collegamenti né con il vasto popolo della città né con i contadini delle province, alzarono barricate nelle vie principali della città (a Toledo, a Monteoliveto, a S. Brigida, al Museo...), ma il tentativo insurrezionale durò il solo giorno 15 maggio, al termine del quale le truppe règie ebbero partita vinta.

438. Il re ebbe quindi mano libera per restaurare, senza più alcuna concessione, la situazione politica precedente, reprimendo idee ed organizzazioni liberali di ogni tendenza.

439. Essendo questo, in estrema sintesi, il quadro generale, è ben comprensibile che, ai contadini dei Casali, alla plebe, ai piccoli artigiani ed ancor più ai primi operai, quel tumulto della città nel 1848 apparisse, tutto sommato, solo come un conflitto “fra signori”, che poco li riguardava e molti neppure capivano.

440. Risulta giustificato, quindi, estendere anche a Barra la lapidaria descrizione fatta dal Palomba per S. Giorgio a Cremano:

“Ed io non dico già che allora (nel 1848) niuno, qui da noi, si diede aria come di amatore di novità: ma que’ pochi che lo fecero, lo facevano con tale accorgimento che quasi non vi ebbe chi se ne fosse avveduto...” [26].

Il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria (1854)

441. Sempre intorno alla metà del secolo, vi fu invece una forte ripresa della religiosità popolare, in corrispondenza dell’anno santo 1850 cui fece seguito la proclamazione ufficiale del dogma della Immacolata Concezione di Maria.

442. Ricordiamo qui che il papa Pio IX (1846-1878), con la Bolla intitolata “Ineffabilis Deus” e datata 8 dicembre 1854, sancì definitivamente come “verità di fede” cattolica che: “La vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente ed in vista dei meriti di Gesù Cristo salvatore del genere umano, fu preservata immune da ogni macchia di colpa originale”.

443. E’ questo appunto il dogma detto “della Immacolata Concezione di Maria”, la cui proclamazione poneva termine ad un secolare dibattito sull’argomento, svoltosi all’interno della Chiesa cattolica, fra “macolisti” (soprattutto i domenicani) ed “immacolisti” (soprattutto i francescani), dando ragione a questi ultimi.

Ferdinando (Carlo Maria) II di Borbone (Palermo 1810 - Caserta 1859)

Le apparizioni di Lourdes (1858)

444. Solo quattro anni dopo, dall’11 febbraio fino al 16 luglio 1858 (festa della Madonna del Carmelo), si verificarono le 18 apparizioni della Vergine alla quattordicenne Bernadette Soubirous (1844-1879) nei pressi della cittadina francese di Lourdes e, in una di quelle apparizioni (precisamente, in quella del 25 marzo, festa della Annunciazione) Maria disse a Bernadette: “Io sono l’Immacolata Concezione”.

445. Anche a Barra, si vide in quegli anni una fervida partecipazione del popolo alla vita della Chiesa, in continuità, del resto, con la tradizione dei secoli precedenti: in particolare, con l’ampliamento delle due chiesette di campagna dello “Scassone” e dell’“Oliva”.

I gemelli Musella allo “Scassone” (1849-1854)

446. Si è detto a suo luogo (vedi nn°104-111 de “La Barra nel Seicento”) della fondazione della chiesetta di S. Maria di Costantinopoli a Barra, nella contrada detta “Scassone”, aperta ufficialmente al culto nel marzo del 1658, due anni dopo la grande peste del 1656.

447. Dopo quasi due secoli, “la cappella suddetta, nell’antico suo fabbricato, venne a soffrire, e richiedeva pronte riparazioni. Ed ecco subito si ricorse alla sistemazione della chiesa dalla famiglia divotissima di Veneruso, abitante limitrofa alla chiesa, ma coll’idea di ingrandirla e renderla più idonea alla popolazione aumentata in quelle vicinanze” [27].

448. La chiesa fu ingrandita di circa due terzi, assumendo le dimensioni attuali, e fu completata con la costruzione della cupola e del campanile.

449. I lavori durarono per ben 5 anni, dal 1849 al 1854, e “furono anni di sudori e fatiche”, come si esprime la relazione sopra citata. La popolazione fece a gara, in questo periodo, nel collaborare alla grande opera: si lavorava ogni domenica “per carità” a spianare il terreno, a portare carichi di pietre e ad ogni possibile attività volontaria.

450. Nell’Archivio storico diocesano, si conserva un diario giornaliero di quegli anni, che rivela nei dettagli l’impegno e la generosità della gente dello “Scassone”.

451. Animatori di questo grande “cantiere” furono due fratelli gemelli (nati il 27 ottobre 1808), entrambi preti, Giuseppe e Gabriele Musella, i quali, insieme alla famiglia Veneruso, sostennero anche le spese maggiori.

452. I due Musella erano nati proprio nella contrada “Scassone”: in quella chiesetta rurale avevano ricevuto la loro prima educazione religiosa e lì avevano avvertito la chiamata di Dio a mettersi al servizio del Suo popolo come preti; quindi, erano certamente imparentati con quasi tutte le poche famiglie del borgo, conoscevano tutti e da tutti erano conosciuti e stimati.

453. Furono dunque gli animatori ideali per quella commovente “liturgia” [28] che fu l’edificazione comunitaria della chiesetta di S. Maria di Costantinopoli.

454. Nel cimitero di Barra, si vede attualmente la loro modesta sepoltura, sormontata da una semplice colonnina quadrangolare che riporta la siffatta iscrizione:

DEPOSITO DEI GEMELLI GIUSEPPE E GABRIELE MUSELLA

PRETI DESIATI E PIANTI

QUESTO A 64 ANNI NEL  1872

E QUELLO A 75 ANNI NEL  1883

BENEDETTI

455. Nel novembre 1983, in occasione dei 100 anni dalla morte del secondo dei gemelli Musella, il parroco don Salvatore Russo, la comunità parrocchiale di S. Maria di Costantinopoli “allo Scassone” e i discendenti della famiglia Musella fecero restaurare la sepoltura, aggiungendo una nuova iscrizione in memoria del fatto.

In contrada “Oliva” (1850-1857)

456. In quegli stessi anni, nuovi sviluppi si ebbero anche per la chiesetta “dell’Oliva” [29]. Negli Atti di Santa Visita (1850) del card. Sisto Riario-Sforza (1845-1877) leggiamo:

“Il parroco relatore”, che era don Giuseppe Sannino, parroco di Barra dall’agosto 1848 al luglio 1861, “afferma essere la cappella di diritto patronato benché a lui siano ignoti i nomi dei patroni; ed aggiunge che essi patroni non vogliono incaricarsi delle riparazioni occorrenti alla cappella”.

457. La chiesetta continuava dunque, come sempre, ad essere accudita solo dalla fervida comunità contadina circostante; come è confermato da una iscrizione rinvenuta sotto l’altare e datata 1851 (quindi, appena un anno dopo la Santa Visita del card. Riario-Sforza) che dice: “Questo altare di marmo e tutti gli arredi sacri, nonché la Messa e la manutenzione, è per l’elemosina dei fedeli (1851)”.

458. Giustamente, quindi, la commissione della Santa Visita del 1850 osservava: “Ma se, sotto pena della privazione del diritto patronato, i patroni sono tenuti non solo a dotare, ma ancora a fare le riparazioni occorrenti alle chiese o cappelle di cui vogliono vantare il patronato, poiché alla Commissione è noto ciò che si ignora dal parroco relatore, cioè che la cappella in parola è di patronato della casa del marchese Andreassi, siccome apparisce tanto dagli atti della Visita fatta nel 1818 dal cardinale Ruffo quanto da quelli dell’ultima S. Visita fatta nel 1838 dal cardinale Caracciolo, è questo il caso nel quale l’Em. Arcivescovo bene sel può, qualora il creda espediente nella sua saviezza, fare precetto ai patroni, previa la trina ammonizione, di dotare fra certo tempo la chiesa e d’attendere alle riparazioni che vi occorrono, sotto la suddetta nota pena della privazione del patronato”.

459. Appare perciò chiaro che, sulla base di queste osservazioni della commissione, il card. Sisto Riario-Sforza “credette espediente nella sua saviezza”, una volta effettuata la “triplice ammonizione” prevista e verificato il completo disinteresse dei marchesi Andreassi per la questione, di togliere il patronato alla famiglia Andreassi e di affidarlo ad altri: nuovo patrono della chiesa dell’Oliva fu il giudice Del Forno.

460. Questi, a sua volta, chiamò il sacerdote barrese Raffaele Verolino a svolgere il compito di Rettore della chiesetta.

Don Raffaele Verolino, primo Rettore “dell’Oliva” (1858-1868)

461. Nella biografia di don Raffaele Verolino (vedi sopra, n°402), leggiamo che egli, appena ordinato prete (il 19 dicembre 1857), “per alcuni mesi, fece da cappellano alla parrocchia di Barra ma, chiamato a reggere la chiesetta dell’Oliva dal giudice Del Forno (patrono), ivi spiegò tutto lo zelo sacerdotale.

Fu che allargò la piccola chiesetta, occupando l’atrio che era fuori; fece il campanile, con due stanzette da servire per il cappellano; fece un nuovo quadro della Vergine, organo, sfera d’argento, molti sacri arredi”.

462. Vediamo quindi che, nel decennio 1858-68, anche il Verolino (come i Musella nel 1849-54) fu animatore dell’ampliamento e del restauro di una chiesetta rurale di Barra, quella della contrada “Oliva” (anch’essa, come S. Maria di Costantinopoli, di origine Seicentesca), e il restauro dei due edifici fu evidentemente il segno ed il risultato visibile di una costante e fervida spiritualità cristiana popolare, del tutto impermeabile ed estranea alla ideologia borghese, massonica e liberale che, nel frattempo, stava per impadronirsi del potere politico anche nel Sud.

Francesco II di Borbone Napoli 1836 - Arco, Trento 1894

L’annessione al Regno sabàudo d’Italia (1860)

463. Per approfondire la vicenda della conquista del Regno delle due Sicilie da parte del Regno sabàudo piemontese, lo studioso lettore potrà leggere, in questo stesso sito Internet “Il portale del Sud”, la documentata narrazione di Giuseppe Ressa.

Qui ci limitiamo a ricordare che, durante la celebre spedizione dei “Mille” di Giuseppe Garibaldi, che portò alla fine del Regno delle due Sicilie, non vi furono battaglie a Napoli e nelle sue vicinanze, grazie anche alla saggezza dell’ultimo re Borbone, Francesco II (1859-1860), che non volle coinvolgere la città nella guerra, per salvaguardarla da inutili stragi e distruzioni, e si ritirò con l’esercito nella fortezza di Gaeta.

La battaglia decisiva si svolse, com’è noto, sul fiume Volturno e fu seguita dal lungo assedio alla rocca di Gaeta (dal 13 novembre 1860 al 13 febbraio 1861), dove l’esercito borbonico, animato dal re e dalla regina Maria Sofia, resistette sino alla fine non solo con grande dignità ma con autentico eroismo.

Bandiera costituzionale del Regno delle Due Sicilia

464. Il re diede la possibilità, a chi lo avesse voluto, di lasciare l’assedio e consegnarsi al nemico ma tutti gli ufficiali, anche a nome della truppa, indirizzarono al re un messaggio, veramente degno d’immortal memoria, che diceva:

“Sire, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, di cui la tristezza dei tempi ci à fatto spettatori afflitti ed indignati; noi sottoscritti, uffìziali della Guarnigione di Gaeta, veniamo, uniti in una ferma volontà, a rinnovare l'omaggio della nostra fede innanzi al vostro trono, reso più venerabile e più splendido dalla sventura.

Cingendo la spada, giurammo che la bandiera affidataci da V. M. sarebbe difesa da noi, a costo del nostro sangue. È a questo giuramento che intendiamo restar fedeli; quali che siano le privazioni, le sofferenze e i pericoli ai quali ci chiama la voce dei nostri capi, sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita e tutt'altro bene per il successo o pei bisogni della causa comune.

Gelosi custodi di quest'onor militare che solo distingue il soldato dal bandito, vogliamo mostrare a V. M. ed all'Europa intera che se molti fra noi ànno, col tradimento o viltà, macchiato il nome dell'Armata Napolitana, grande fu pure il numero di quelli che si sforzarono di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità”.

465. Garibaldi, dal canto suo, arrivò a Napoli in treno, il 7 settembre 1860, accompagnato da pochi uomini e precedendo di due giorni il suo esercito.

466. Il 21 ottobre 1860, mentre Vittorio Emanuele II di Savoia scendeva verso il Sud con le sue truppe regolari, attraversando lo stato della Chiesa (il famoso incontro a Teano si svolse poi il 26 ottobre), si volle sancire con un plebiscito popolare l’avvenuta conquista militare del Regno del Sud.

Si votò, quindi, sottoponendo al popolo questa sola domanda: “Il popolo vuole l’Italia una e indivisa, con Vittorio Emanuele II re costituzionale ed i suoi legittimi discendenti?”

Il risultato del plebiscito fu una schiacciante maggioranza di “sì”; ma si trattò, in effetti, di un risultato largamente “truccato”: molte schede furono vistosamente manomesse; molti che erano per il “sì” votarono più di una volta; in alcune località il numero dei “sì” risultava addirittura superiore a quello degli abitanti, mentre in molte altre non si votò affatto.

“Alcuni paesi, invece di votare, si rivoltarono contro coloro che consigliavano il plebiscito. In quei paesi ove non era la forza armata, ad onta degli sforzi dei liberali, non si fece plebiscito, anche alla Barra, che è alle porte di Napoli” [30].

467. Vediamo quindi che la popolazione di Barra non si mostrò affatto entusiasta dell’ingresso nel nuovo regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia, rifiutandosi addirittura di partecipare al plebiscito.

Si confermò così quel costante atteggiamento filo-borbonico ed anti-borghese che abbiamo detto caratterizzare il Casale (poi Comune) di Barra per tutto il periodo risorgimentale (vedi nn°7-8) e che ben si spiega con la composizione sociale e le vicende storiche di esso.

I circa 9.000 abitanti del Comune di Barra [31] entrarono perciò nel nuovo regime più sottomessi che convinti e gli eventi successivi dimostrarono che essi non avevano, in definitiva, tutti i torti.

Maria Sofia, l'ultima regina


Appendice: Suor Maria Luisa di Gesù (1799-1875)

468. Personaggio emblematico dell’Ottocento barrese è la “Serva di Dio” Suor Maria Luisa di Gesù, che ne attraversò, a suo modo, tutte le varie fasi storiche: la Repubblica, la prima restaurazione borbonica, il decennio francese, la seconda restaurazione, e l’annessione al Regno sabàudo.

Nascita e formazione

469. Maria Carmela Ascione nacque infatti nel Casale della Barra il 28 febbraio 1799, proprio all’inizio della turbinosa vicenda della Repubblica napoletana (gennaio-giugno 1799).

Era la primogenita dei 10 figli del dottor Giuseppe Ascione, in quel tempo unico medico di Barra, e di Fortunata Carrese.

Il luogo della sua nascita fu una stanza del Palazzo Magliano, proprio di fronte alla parrocchia di S. Anna: del palazzo e del suo proprietario, e del coinvolgimento di entrambi nella storia della Repubblica napoletana, si è detto sopra (vedi nn°216 e 220).  

470. Ricevette la sua istruzione solo in famiglia, secondo il costume dell’epoca e dato anche il contesto storico-sociale alquanto burrascoso in cui visse la sua infanzia ed adolescenza: la caduta della repubblica (1799), la prima restaurazione borbonica (1799-1805), il secondo arrivo dei Francesi ed il conseguente decennio napoleonico (1805-1815).

Respirò comunque nell’aria di Barra sia la solida e concreta religiosità cristiana popolare sia l’influsso delle nuove idee che venivano dalla Francia, maturando gradualmente una propria personalità, forte ed attraente, incentrata sulla fede, la preghiera e l’impegno verso i più poveri e sofferenti.

Fin da ragazza, si trovò così ad essere al centro di un gruppo di sue coetanee, ben 5 delle quali diverranno in seguito Suore.

Il travagliato inizio della vita religiosa

471. Nel 1816, passato il decennio francese nel corso del quale erano stati soppressi quasi tutti gli Ordini religiosi sia maschili che femminili, a 17 anni e vincendo le resistenze del padre, entrò fra le Suore Benedettine del celebre monastero di Donnaromita in Napoli; ma non si trovò a suo agio nel grande e prestigioso convento, tanto che, dopo soli 6 mesi, per l’aridità di spirito e per una strana malattia al fegato che l’aveva colpita, ritornò nella casa paterna alla Barra.

472. Quattro anni dopo, nel 1820, entrò nel Ritiro dell’Addolorata all’Olivella in Napoli: sette mesi di noviziato e poi, a 21 anni di età, Maria Carmela Ascione divenne Suor Maria Luisa di Gesù. Anche qui, all’inizio, ebbe problemi di salute: l’assalì una forte febbre, che in otto giorni la ridusse quasi in fin di vita, ma guarì rapidamente una volta tornata di nuovo a casa sua.

473. Dopo circa altri tre anni trascorsi fra le mura domestiche a Barra, le Suore dell’Olivella la vollero nuovamente fra di loro, e così nel 1824 ritornò al Ritiro, chiamata addirittura a reggerlo in qualità di Superiora.

La biografa di S. Filomena

474. In questo periodo, ebbe modo di conoscere Don Francesco Di Lucia (1772–1847) pio e dotto sacerdote nativo di Mugnano del Cardinale (Diocesi di Nola, in Campania) il quale, il 10 agosto 1810, aveva effettuato la “traslazione” dei resti mortali di una fanciulla martire dei primi secoli cristiani, di nome Filomena, dalle catacombe di Priscilla in Roma, dove erano state rinvenute tre anni prima, alla chiesa della Madonna delle Grazie in Mugnano, dove tuttora si trovano.

Da quel momento, Don Francesco Di Lucia era divenuto il diligente custode di quelle reliquie e l’appassionato divulgatore della devozione nei confronti della martire fanciulla, la cui fama si andava diffondendo in tutto il Regno delle due Sicilie e poi anche all’estero, accompagnata dalla narrazione di un numero sempre crescente di guarigioni e prodigi a lei attribuiti.

Lapide sepolcro Santa Filomena

475. A partire dal 1824, e poi in successive ampliate edizioni, Don Francesco Di Lucia pubblicò anche una “Relazione istorica della traslazione del sagro corpo e miracoli di Santa Filomena, vergine e martire, da Roma a Mugnano del Cardinale”.

La nostra Suor Maria Luisa di Gesù, che aveva incontrato Don Francesco Di Lucia e letto il suo libro, fu “incaricata dall’obbedienza (cioè dal suo confessore) a cercare altre notizie della vita e dei martìrj della santa vergine e martire Filomena”.

E così, il 3 agosto 1833, “mentre stava chiusa nella sua cella e così pregava, si serrarono i suoi occhi e …” il lettore curioso ed interessato potrà leggere direttamente in Rete, dove è disponibile, il libro del Di Lucia, nel quale egli prontamente aggiunse … la narrazione della vita e del martirio di S. Filomena, che la stessa santa fece a Suor Maria Luisa di Gesù.

Santa Filomena

L’incontro provvidenziale

476. Nel 1835 avvenne il provvidenziale incontro con don Luigi Navarro che sarà il suo consigliere e direttore spirituale fino alla morte di lui nel 1863.

Il commento ai libri della Bibbia

477. Il primo frutto di questo incontro fu l’incoraggiamento, che lei ne ebbe, ad iniziare un’opera, per quell’epoca, decisamente inusuale e “all’avanguardia”, soprattutto per una donna: cominciò a scrivere, senza aver fatto alcun tipo di studi oltre ciò che aveva appreso in famiglia, un commento sistematico ai singoli libri biblici, sia dell’Antica che della Nuova Alleanza.

Continuò quest’opera, ponderosa e ricca di singolari intuizioni interpretative, per tutta la sua vita, con una spiritualità di rapporto diretto con le Sacre Scritture che ricorda quella della Chiesa dei primi secoli.

I primi fascicoli furono stampati già nel 1839, ad Imola, per interessamento del segretario dell’allora vescovo di quella città, Mons. Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792-1878), che diverrà poi, dal 1846, il papa Pio IX.

Mons. Mastai Ferretti ebbe perciò l’occasione di leggere e di apprezzare gli scritti della Madre Maria Luisa di Gesù, ed anche in seguito, divenuto papa, continuò a seguirli con interesse e rimase in corrispondenza con lei, indirizzandole diverse lettere autografe e chiamandola sempre con stima “figlia dilettissima”.

478. La sua opera di autrice si completa con diversi opuscoli e libri di meditazione e di devozione, largamente diffusi in Italia ed in parte tradotti anche in francese.

Suor Maria Luisa di Gesù

La fondazione della “Stella mattutina”

479. Il secondo frutto dell’incontro spirituale con don Luigi Navarro fu la nascita della sua nuova congregazione religiosa.

Già intorno al 1830, prima di conoscere don Navarro, aveva cominciato a pensare alla fondazione di un nuovo Istituto religioso, posto sotto il particolare patrocinio di S. Filomena, ed aveva anche iniziato a scriverne la Regola.

Il direttore spirituale la incoraggiò e la confermò nel suo intento e così, scampata provvidenzialmente al colera che colpì anche lei nel 1836, riuscì a dare inizio all’opera.

480. L’8 maggio 1840, nel popolare quartiere napoletano di S. Lucia, s’inaugurò la prima casa del Pio Istituto di Maria SS. Addolorata e di S. Filomena: il gruppo iniziale delle Suore era costituito da lei stessa, da sua sorella, da una religiosa e una novizia provenienti dal precedente “Ritiro”, e tre giovani aspiranti che presero il velo nel 1843: in tutto, 7 donne, che insegnavano il catechismo e i rudimenti dell’istruzione elementare alle bambine dei pescatori e dei marinai di S. Lucia.

481. L’amicizia spirituale che in quel tempo instaurò con la principessa russa Zenaide Volkonstky, da poco rimasta vedova, le sarà poi di grande aiuto nell’aprire una seconda casa del Pio Istituto, in un’altra zona popolare di Napoli, il Borgo S. Antonio Abate. Questa seconda casa venne inaugurata l’11 maggio del 1851 e 5 anni dopo, il 13 luglio 1856, venne aperta al culto la chiesa annessa, dedicata alla Vergine Maria “Stella mattutina”.

Da quel momento, anche le Suore vennero dette dal popolo “Suore della Stella mattutina”.

Nel frattempo, un terzo convento venne fondato a S. Severo di Puglia, il 28 ottobre 1852.

482. E’ da notare che le Suore, anche dopo la morte della fondatrice, mantennero sempre uno speciale rapporto con la Barra in quanto paese natale di lei, ed un convento della congregazione della “Stella mattutina” è esistito lungo il Corso Sirena, a poca distanza dal Palazzo Magliano, fino a circa la metà del Novecento.

Gli ultimi anni 

483. Don Luigi Navarro morì nel 1863, poco dopo la conquista sabàuda, ed a lui subentrò, come direttore spirituale di Suor Maria Luisa, il domenicano padre Alberto Radente (1817-1885) che fu anche padre spirituale di Bartolo Longo (1841-1926), il fondatore della nuova Pompei.

Il P. Radente le impose per obbedienza di scrivere la propria auto-biografia, che egli stesso poi si curò di completare e di pubblicare.

484. Poco dopo, nel dicembre 1874, una misteriosa debolezza si manifestò nel corpo di Suor Maria Luisa, impedendole finanche di muovere un passo; già debilitata dalla cronica sofferenza al fegato e da terribili emicranie, le sue condizioni si aggravarono man mano, finché il 10 gennaio 1875 la sua anima si ricongiunse definitivamente allo Sposo.

Per tre giorni il suo corpo rimase esposto all’omaggio dei fedeli, accorsi soprattutto dai due popolari rioni del Borgo S. Antonio Abate e di S. Lucia, nonché dalla Barra suo paese natale.

La salma venne inizialmente tumulata nel cimitero di S. Maria del Pianto a Poggioreale, ma il 22 aprile 1947 venne traslata nella chiesa della Congregazione “Stella mattutina” al Borgo S. Antonio Abate, dove si trova tuttora.

Gli adempimenti canonici per la sua beatificazione si aprirono nel 1890 ed il processo, a fasi alterne, è tutt’oggi in corso.

485. Terminiamo con le semplici ed efficaci parole scritte su di lei dal beato Bartolo Longo: “Quanto bene allo spirito ci faceva conversare con quella Santa vecchietta (suor Maria Luisa) sempre serena e sorridente. Era il sorriso della grazia, che le brillava sul volto. E il gaudio e la letizia del suo animo si profondevano nell’animo altrui …".

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Note

[1] H. Pirenne - “Storia economica e sociale del Medioevo”- Ed Newton Compton, Roma 1997.

[2] Documento conservato nell’Archivio di Stato di Napoli, riportato da Pompeo Centanni – “Il nobile Casale della Barra”, Ed. Fausto Fiorentino, Napoli, 1997.

[3] Vedi nn°98-99 in “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[4] Infatti, le suore “Verolino” furono fondate nel 1868; le “Stimmatine” arrivarono in Barra nel 1873; le “Povere figlie della Visitazione di Maria” furono istituite da Madre Claudio Russo nel 1924.

[5] D. Palomba, op. cit.

[6] Atti Santa Visita Card. Luigi Ruffo-Scilla (1802-1832).

[7] D. Palomba, op. cit.

[8] D. Palomba, op. cit.

[9] Buttà, riportato da D. Palomba, op. cit.

[10] Buttà, riportato da D. Palomba, op. cit.

[11] D. Palomba, op. cit.

[12] D. Palomba, op. cit.

[13] D. Palomba, op. cit.

[14] D. Palomba, op. cit.

[15] D. Palomba, op. cit.

[16] Parroco di Barra era, in quel tempo, Don Giuseppe Sannino (1848-1861).

[17] Don Domenico Minichino (1821-1890), insieme al Riccardi e al Verolino, costituisce la triade dei preti barresi forse più rappresentativi dell’Ottocento.

[18] D. Palomba, op. cit.

[19] F. Alvino - “Viaggio da Napoli a Castellammare” - Napoli, 1845.

[20] Celano-Chiarini – “Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli” a cura di G.B. Chiarini, Napoli, 1856-1860.

[21] Giovanni Tescione - “Dalla Stefanìa al Belvedere di S. Leucio - Bagliori dell’arte sèrica a Napoli” -  Napoli, 1938.

[22] S. Stefani - “Una colonia socialista nel regno dei Borboni” - Roma, 1907.

[23] Luigi Settembrini - “Ricordanze della mia vita”.

[24] Vedi, uno per tutti, l’opera collettiva a cura di Giancarlo Alisio - “L’industria napoletana nell’Ottocento”, Ed. Elio de Rosa, 1993. Ma lo studioso lettore potrà anche utilmente riferirsi, ad esempio, all’ottimo lavoro di Giuseppe Ressa “Il Sud e l’unità d’Italia”, liberamente scaricabile dal sito internet “Brigantino-Il portale del Sud”, con la copiosa bibliografia ivi riportata; nonché alle opere del grande studioso calabrese Nicola Zitara (1927-2010): “L’unità d’Italia: nascita di una colonia”, 1971, 2010; “Il proletariato esterno”, 1972; “L’invenzione del Mezzogiorno: una storia finanziaria”, 2010; tutte pubblicate da Ed. Jaca Book.

[25] C. Bonucci – “Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze”, Napoli, 1845.

[26] D. Palomba, op. cit.

[27] Relazione del Cancelliere arcivescovile Vincenzo Menzione, scritta in data 14 settembre 1861.

[28] Si ricorda qui che la parola “liturgia” (dal greco: léiton=popolare; érgon=lavoro, opera) significa proprio “opera del popolo”.

[29] Vedi nn°195-205 de “La Barra nel Seicento” e nn°326-336 de “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[30] Carlo Alianello (1901-1981) - “La conquista del Sud - Il risorgimento nell’Italia meridionale” - Ed. Rusconi, 1972.

[31] Visita pastorale del card. Guglielmo Sanfelice nel 1877: 9.215 abitanti.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, gennaio 2017

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