Le mille città del Sud

 


menu Sud


Campania

 

Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.2c Il Periodo Liberale (1876-1887)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

vai alla pagina precedente

L’illuminazione pubblica a gas: per Napoli (1839)

135. La Napoli borbonica fu la prima città in Italia, e la terza in Europa dopo Londra e Parigi, ad avere l’illuminazione pubblica a gas [26].

Il supporto delle 350 lampade installate era fornito dall’azienda Guppy, che aveva sede proprio nella zona orientale di Napoli, poco distante da Pietrarsa.

136. Dopo l’unità d’Italia, l’appalto per l’illuminazione pubblica a gas venne concesso alla “Compagnia napoletana d’illuminazione e di scaldamento col gas” anzi esattamente “Compagnie napolitaine d’eclairage et de chauffage par le gaz”, dato che era una società a capitale francese, con sede legale a Parigi.

La Compagnia nacque ufficialmente il 18 ottobre 1862, quando venne registrato con atto notarile l’accordo tra il Sindaco di Napoli e il francese Basile Parent, per la concessione in esclusiva del diritto di illuminazione a gas di tutta la città per i successivi 60 anni e, in aggiunta, per la prima volta, la possibilità di effettuare anche il riscaldamento delle abitazioni. In pratica, un nuovo contratto di appalto venne poi stipulato il 27 dicembre 1885, con proroga fino al 1°giugno 1937.

137. Naturalmente, l’estensione del servizio a tutta la città avvenne molto gradualmente ed ancor più gradualmente l’estensione anche ad utenze private.

Comunque, la “Napoletanagas – Compagnia napoletana di illuminazione e scaldamento col gas” esiste tuttora e la sua Direzione Generale si trova alla Via Galileo Ferraris n°66.

L’illuminazione pubblica a gas: per Barra (1885)

138. Alla Barra, per secoli, le povere stradine erano state rischiarate quasi esclusivamente dalle fiammelle votive poste davanti alle edicolette dedicate alla Madonna, ai Santi, alle anime del Purgatorio, e dalla fioca luce delle candele proveniente dall’interno delle abitazioni.

Un passo avanti si era fatto, agli inizi dell’Ottocento, con l’arrivo della illuminazione pubblica a petrolio. Adesso, grazie al Martucci, si muoveva un altro passo. 

139. Negli anni immediatamente precedenti, il Comune aveva rifiutato sia una “Offerta Adamo” (Delibera N°96 del 30 gennaio 1877) sia una “Domanda Anaclerio” (N°261 del 21 maggio 1879) “in ordine alla illuminazione a gas”. 

Si continuava quindi con l’illuminazione pubblica a petrolio: dopo l’appaltatore Parisi (Capitolato di appalto del 21 ottobre 1878) troviamo la “Offerta a trattativa privata della pubblica illuminazione pel biennio 1882-83 a favore di Cavallaro Alfonso e concessione della medesima” (Delibera N°438 del 10 ottobre 1881). 

140. Nel 1884, infine, sindaco appunto il Martucci, il Comune deliberò il “Contratto e concessione per l’impianto dell’illuminazione a gas” (Delibera consiliare N°17 del 15 settembre 1884).

E l’anno seguente, si iniziò a porre mano all’opera:

“Disposizioni in ordine all’esecuzione ed accettazione dei lavori di conduttura per la pubblica illuminazione a gas” (N°73 del 27 aprile 1885; ed anche, successivamente, N°156 del 1°settembre 1886).

“Accettazione del materiale dell’illuminazione a gas, qualità dell’illuminazione medesima per la misura e numero delle fiamme” (N°74 dello stesso giorno 27 aprile 1885).

“Completamento della pubblica illuminazione a gas” (N°106 del 30 settembre 1885).

“Svincolo della cauzione prestata da Bagnari, concessionario della pubblica illuminazione a gas” (N°122 del 16 febbraio 1886).

Fanale per l'illuminazione pubblica a gas

141. Naturalmente, per vari anni ancora, le due forme di illuminazione pubblica continuarono tranquillamente a coesistere: basti pensare che l’illuminazione a gas, e non più a petrolio, degli uffici comunali venne realizzata solo nel 1890 … fino a quando, sul principiare del nuovo secolo, non sopraggiunse, quale terzo invadente, la ancor più avveniristica illuminazione elettrica.  

142. Il contratto di appalto per l’illuminazione pubblica a gas era stato firmato dal Martucci non con la “Compagnia napoletana di illuminazione e scaldamento col gas”, di cui si è detto sopra, bensì con la “Compagnia meridionale e vesuviana del gas”, che serviva anche i limitrofi Comuni di S. Giovanni a Teduccio e S. Giorgio a Cremano.

Vedremo in seguito che la maldestra gestione di questo contratto, da parte dei successori del Martucci, provocò una penosa controversia giudiziaria per morosità da parte del Comune di Barra.

Il servizio pubblico di “tram a cavalli con vetture omnibus” (1886)

143. Fino a quel momento, il paese era abituato al tradizionale trasporto con la “carrettèlla”, trainata dal “ciucciariéllo” oppure, assai spesso, a forza di braccia.

Per chi poteva permettersi di pagare, c’era anche la possibilità di “fittare” una delle carrozzelle, con relativo cocchiere e cavallo, che stazionavano stabilmente, in attesa dei rari clienti, nei “larghi” del paese, dapprima in “Largo Monteleone”, “Largo Catena”, “Largo Parrocchia”, “Largo Crocella”, e poi, quando fu realizzata, nella Piazza centrale (attuale Piazza De Franchis).

144. Nel 1885, troviamo la “Accettazione dell’offerta Ascione a trattativa privata per l’appalto del servizio del corso pubblico con vetture omnibus” (Delibera consiliare N°119 del 30 novembre 1885).

E così, il 2 gennaio 1886, iniziò il “servizio di trasporto pubblico di tram a cavalli con vetture omnibus”.

L’ omnibus, di per sé, è una carrozza pubblica, per persone e cose, trainata da cavalli; insieme agli omnibus, sopraggiunsero i tram a cavalli che erano in pratica degli omnibus che, però, viaggiavano in sede propria (su rotaia) mentre in seguito arrivarono i tram elettrici, che viaggiavano su rotaia e con trazione elettrica.  

A Barra, il Sindaco Martucci installò il primo servizio di tram a cavalli; per i tram elettrici, invece, si dovrà attendere il nuovo secolo, alla vigilia della Prima guerra mondiale.

Omnibus

145. Precisamente, quel 2 gennaio 1886, entrarono in funzione due linee di tram a cavalli:

-              la prima, andava “a Napoli” ed infatti recava la tabella, scritta in rosso, “Largo Parrocchia-Largo S. Ferdinando” seguendo appunto il tracciato: Largo Parrocchia di Barra – Barriera di Napoli (Ponte della Maddalena) – Largo S. Ferdinando a Napoli (e viceversa, naturalmente). Il biglietto costava 15 centesimi di lira per ogni corsa (bambini fino a 7 anni: gratis; dai 7 ai 12 anni: metà prezzo; prezzi invariati anche nei giorni festivi).     

-              l’altra linea, invece, era prettamente barrese: andava infatti da Palazzo Bisignano a Largo Parrocchia  (e viceversa); il biglietto costava 5 centesimi di lira per ogni corsa (10 centesimi dopo l’una di notte). Questa linea serviva, quindi, solo metà del paese (la “Barra di sopra”) ed i maligni ebbero modo di osservare che era proprio la zona nella quale abitava, ed aveva la sua farmacia, il Sindaco Martucci ...

Il tram a cavalli

Il famoso “ponte mobile”, prima in legno e poi in ferro

146. Al “quadrivium nobile” di Barra, ovvero l’incrocio fra il Corso Sirena e la Via Bisignano/Bernardo Quaranta [27] nelle giornate particolarmente piovose, risultava impossibile passare a piedi: vi si formava infatti la classica, ed addirittura storica, “lava dell’acqua” [28].

Per ovviare a questo inconveniente, già nel 1872 troviamo un “Ponte mobile alla strada S. Martino” (Delibera N°147 del 30 ottobre 1872) come allora si chiamava tutta la attuale Via Villa Bisignano. 

Nel 1877 (quattro anni dopo l’apposizione della làpide per Bernardo Quaranta), il “ponte mobile in legno” era custodito nell’ormai ex-convento di S. Domenico, parzialmente adibito a deposito comunale (vedi sopra, n°127): vi era una persona, appositamente incaricata e pagata dal Comune, che in caso di necessità doveva installare il ponte.      

Al Martucci, nel periodo successivo al colera del 1884, si attribuisce anche la proposta di costruzione di un “ponte mobile in ferro” che infatti sostituì quello in legno. Così, ancora nel nuovo secolo, vediamo che “la Giunta comunale delibera pagarsi a Angelo Damiano lire 20 per la mettitura del ponte mobile in ferro alla via Bisignano durante l’anno 1907”. 

Morte di Luigi Martucci

147. Luigi Martucci morì il 20 aprile 1910 ed è sepolto nel cimitero di Barra.

Il Lapegna annota: “Fra’ Enrico M. Petrillo, dell’Ordine dei Padri Predicatori lesse, nella Chiesa de’ Padri Domenicani, l’elogio funebre”.

L’ Ordine dei Padri Predicatori è ovviamente quello dei Domenicani, ai quali il Martucci, avendo la sua farmacia in Barra di sopra, poco distante dalla loro chiesa e convento (ancorché espropriati), era particolarmente legato; ed a maggior ragione, dopo che, nella sua opera a favore dei colerosi, era stato co-adiuvato dal domenicano P. Giuseppe De Cristofaro.

Per una strana ironia della storia e per la permanente incuria degli uomini, nell’agosto dello stesso anno 1910, poco più di tre mesi dopo la morte del Martucci, il colera tornò ad infierire su Barra.

148. Comunque, il 13 aprile 1913 venne apposta la lapide nella (allora) sala consiliare, che dice:

A LUIGI MARTUCCI

FULGIDO ESEMPIO

DI

AMMINISTRATORE   CITTADINO   PADRE

IL CONSIGLIO COMUNALE   E   LA CITTADINANZA

MEMORI

Davvero “mèmori”?

Il colera del 1884 e il “risanamento”

149. Dopo la drammatica epidemia del 1836-37, la “malattia del secolo”, il colera, tornò a farsi presente nel 1854, quando origini e possibili terapie del male erano ancora sconosciute, provocando quasi 7.000 morti: e di questa epidemia del 1854 scrisse, fra gli altri, Bernardo Quaranta [29].

Posteriormente all’unità d’Italia, nuove manifestazioni del male si ebbero nel triennio 1865-67 ed ancora nel 1873, con 1.280 morti a Napoli.

150. Fu tuttavia il colera del 1884 quello che portò la città al centro dell’attenzione nazionale.

La malattia infierì da metà agosto a metà novembre e provocò in Napoli 7.000 morti (circa lo stesso numero registrato 30 anni prima, nel 1854), con punte massime nei quartieri popolari del Mercato (più di 30 morti ogni 1.000 abitanti) e di Pendìno e Porto (più di 20 morti ogni 1.000 abitanti). Anche i Comuni limitrofi, fra i quali Barra, furono duramente colpiti.

151. Il “vibrione” colerico era ormai stato scoperto ed i metodi per contrastarlo erano noti. Il fatto che a Napoli, a differenza di altre città italiane, l’epidemia si presentasse con tale gravità, costrinse l’opinione pubblica nazionale ed il governo (Depretis) a riconoscere la fondatezza delle denunce, che da molti anni venivano fatte, circa le precarie condizioni igieniche, la incerta potabilità dell’acqua, le abitazioni improprie (soprattutto i “bassi” dei vicoletti e i “fòndaci” nei quali viveva il popolo), il sistema fognario basato sui malsani “pozzi neri”, le misere condizioni di vita, la inadeguatezza dell’ alimentazione, la mancanza di un vero sistema sanitario, ed un lunghissimo etc. etc.

In seguito alla tragedia, sia il re Umberto I che il primo ministro Agostino Depretis visitarono la città e fu in quella circostanza che il Depretis proferì la celebre frase: “Bisogna sventrare Napoli”.

Prendendo spunto da questa espressione, la giornalista e scrittrice Matilde Serào scrisse “Il ventre di Napoli”: una serie di 9 articoli (poi raccolti in volume) che uscirono sul giornale romano “Capitan Fracassa” mentre a Napoli ancora imperversava l’epidemia.

Matilde Serao (1856-1927)

152. Matilde Serao può ben essere definita “una napoletana della Magna Graecia”, essendo nata a Patrasso (Grecia) il 12 maggio 1856. Suo padre Francesco era un liberale che, per sfuggire alla polizia borbonica, era riparato nell’Ellade, dove aveva conosciuto e sposato Paolina Borelly, di nobile ma decaduta stirpe. I due arrivarono in Italia nel 1860 ed a Napoli l’anno dopo.

Matilde frequentò la “Scuola normale femminile” (Istituto magistrale “Eleonora Pimentel Fonseca”), e lavorò poi come ausiliaria nell’azienda dei Telegrafi dello Stato.

Nel 1877 lasciò l’impiego per dedicarsi esclusivamente al giornalismo e alla letteratura.

Nel periodo 1882-1887 visse a Roma, lavorando tra l’altro presso il giornale “Capitan Fracassa”, ove conobbe Edoardo Scarfoglio, che sposò nel 1885.

153. Tornati insieme a Napoli, il 16 marzo del 1892 Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio fondarono il giornale “Il Mattino”, che sarebbe poi divenuto il più diffuso quotidiano del Mezzogiorno.

Lei lasciò “Il Mattino” nel 1903, anche in seguito alla separazione legale da Scarfoglio, e fondò per conto suo il nuovo quotidiano “Il Giorno” (1904). 

Morì a Napoli il 27 luglio del 1927.

Matilde Serao

154. Oltre agli scritti giornalistici, la Serao fu fecondissima autrice di romanzi e racconti, ispirati soprattutto alla vita, agli affetti, ai costumi, della plebe e della piccola borghesia napoletane.

Si ricordano: “Leggende napoletane” (1881); “Telegrafi dello Stato”, “La virtù di Checchina” e “Scuola Normale femminile” (1884); “La conquista di Roma” (1885); “Vita e avventure di Riccardo Joanna” (1886); “Il paese di Cuccagna” (1890); “Nel paese di Gesù - Ricordi di un viaggio in Palestina” (1898); “Sterminator Vesèvo”, diario della eruzione del Vesuvio del 1906.

“Il ventre di Napoli” e … la pancia della borghesia “liberale”

155. I nove articoli de “Il ventre di Napoli” uscirono nell’autunno del 1884, a partire dal 17 settembre, ed il volume nel dicembre 1884.

I titoli, nell’ordine, erano: (1) Bisogna sventrare Napoli; (2) Quello che guadagnano; (3) Quello che mangiano; (4) Gli altarini; (5) Il lotto; (6) Ancora il lotto; (7) L’usura; (8) Il pittoresco; (9) La pietà.

In essi, “donna Matilde”, con mente lucida e cuore appassionato e partécipe, descrive nello stile dell’epoca le misere condizioni di vita della stragrande maggioranza del popolo napoletano, invocando rapidi e risolutivi interventi dell’autorità di governo (“Non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla”).

156. Ed in effetti, assai rapidamente, il 15 gennaio del 1885, il Parlamento italiano approvò la apposita legge “Pel risanamento della città di Napoli”, che doveva dare il via alla prima grande operazione urbanistica ed edilizia realizzata dallo Stato italiano unitario in Napoli.

I lavori, però, iniziarono di fatto solo nel giugno del 1889 e, fra scandali, inchieste per malversazioni e revisioni dei progetti in corso d’opera, durarono addirittura fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, nel 1913.

La attuazione pratica di questa legge costituì il primo esempio di come la borghesia del Nord (il grande capitale finanziario) fosse ormai effettivamente unita a quella, peraltro subalterna, del Sud (il ceto politico parassitario, la piccola borghesia delle professioni e dei commerci, gli “imprenditori” meridionali nel campo dell’edilizia) ... nello sfruttare cinicamente la miseria e le tragedie del popolo, allo scopo di arricchirsi ulteriormente.

Quale “risanamento”?

157. Che cosa accadde, in sostanza? La vicenda è certamente molto istruttiva, anche per comprendere le sorti successive della città ed in particolare quelle della sua area orientale.

La vicenda della “Ricostruzione” dopo il terremoto del 1980, ad esempio, può essere considerata come una “nuova edizione”, riveduta ed ulteriormente s-corretta, di quella del “Risanamento” di circa un secolo prima.

158. L’allora Sindaco di Napoli, Nicola Amore [30], e la sua Giunta, proponevano inizialmente anzitutto la costruzione di un grande quartiere operaio nella parte orientale della città.

L’area, ancora parzialmente paludosa, sarebbe stata in questa occasione bonificata e sarebbe divenuta una vera zona industriale e di artigianato, accogliendo e riqualificando socialmente gli abitanti dei vecchi quartieri malsani del centro storico, che avrebbero qui avuto sia una vera casa sia un vero lavoro.

“Vi sarà poi una strada ampia, bellissima, ombreggiata ed ossigenata da piantagioni, che correrà intorno al nuovo quartiere e così siamo sicuri che non sarà un quartiere morto!”

Questa strada ampia, bellissima, etc. si sarebbe dovuta chiamare “Corso Orientale” ...

Invece …

159. Le cose, però, non andarono così.  Il Corso Orientale non fu mai realizzato e mai nacque il quartiere artigiano ed operaio “modello” della zona orientale.

Il progetto approvato, elaborato dall’ing. Adolfo Giambarba, capo dell’Ufficio tecnico del Comune di Napoli, prevedeva invece l’apertura di una grande strada larga 27 metri (il famoso “Rettifilo”) che doveva “squarciare” i quartieri malsani di Porto, Pendìno, Mercato e Vicarìa, giungendo fino alla Stazione centrale; la contemporanea edificazione di case “per ceti abbienti e meno abbienti”; la monumentalità degli edifici pubblici; la risoluzione dei problemi dell'acqua potabile e delle fognature. 

160. L’area di intervento fu divisa in nove “lotti”, ma i lavori (ad eccezione di quelli relativi ad uno solo dei lotti) furono affidati ad un’unica ditta, la “Società pel risanamento di Napoli”, formata quasi esclusivamente da banche e società finanziarie ed immobiliari del Nord.

Ovviamente, banche e società finanziarie ed immobiliari non avevano alcun interesse a costruire le case per i ceti popolari, che sarebbero state, per esse, poco redditizie; avevano invece un elevato interesse a realizzare subito le case signorili, che consentivano immediati ed elevati profitti.

161. Come constatò lo stesso Giambarba qualche anno dopo:

“La Società pel risanamento è partita, fin dall’inizio dell’opera, da un concetto interamente bancario ed industriale ... il criterio è quello di creare, nel minimo tempo possibile, le proprietà sui suoli più ricercati e quindi di maggiori redditi, abbandonando in ultima linea quelle costruzioni o bonifiche che renderebbero poco o nulla quando fossero ultimate” [31].

162. Nel 1900, la celebre inchiesta effettuata dal commissario governativo Giuseppe Saredo, della quale diremo più ampiamente a suo luogo, accertò che oltre 50 mila persone erano state allontanate dalle vecchie abitazioni abbattute, ma di queste solo una minima parte aveva trovato alloggio nelle nuove abitazioni realizzate.

Infatti, dei 7 isolati previsti “per i ceti meno abbienti”, 3 non erano stati nemmeno iniziati e 2 erano fermi all’edificazione del piano terreno; solo i restanti 2 erano stati bensì completati ma … i costi degli affitti erano talmente alti da risultare inaccessibili agli abitanti delle vecchie case.   

163. In definitiva, fu realizzato il famoso “Rettifilo” (Corso Umberto I), con edifici non certo per il popolo e negozi di lusso, più alcune grandi opere di decòro, come la galleria Umberto I (1892), il palazzo della Borsa (1895) e la nuova facciata, di gusto neoclassico, dell’Università (primo decennio 1900).

Le classi popolari non poterono far altro che restringersi a vivere nella parte degradata dei vecchi quartieri, sopravvissuta allo “sventramento”.

Il bilancio di “donna Matilde”

164. La stessa Matilde Serao, nel 1904, in occasione del 20° anniversario del colera, scrisse altri tre articoli, in aggiunta ai nove scritti 20 anni prima, nei quali tracciò uno sconsolato bilancio dell’operazione – Risanamento.

I titoli di questi articoli sono, nell’ordine: (1) Il paravento; (2) Le case del popolo; (3) Che fare?

165. “(Il Rettifilo) … la magnifica strada, la strada della salute e della redenzione del popolo napoletano … è semplicemente un paravento, un leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol sapere tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile!

Il popolo, non potendo abitare il Rettifilo, di cui le pigioni sono molto care, non avendo le traverse a sua disposizione, non avendo delle vere case del popolo, è stato respinto, respinto dietro il paravento!

Così, si è accalcato molto più di prima; così, il censimento potrebbe dirvi che tutta la facciata del Rettifilo è poco abitata e tutto ciò che è dietro, disgraziatamente, è abitato più di prima; che dove erano 8 persone, ora sono 10; che lo spazio è diminuito e le persone sono cresciute …”

Matilde Serao e … Federico Engels

166. La Serao, con ogni probabilità, non aveva letto gli articoli che, su “La questione delle abitazioni” aveva scritto, già nel 1872-73, il filosofo tedesco Friedrich Engels (1820-1895), ma giungeva, senza saperlo, alle stesse conclusioni.

Già trenta anni prima [32], infatti, sulla base delle esperienze fatte nelle principali città europee, Engels aveva tratto un principio di ordine generale, che collega esattamente il fenomeno alle sue cause strutturali (di classe).

Federico Engels, grande amico e collaboratore di Karl Marx

167. Scrive Engels nel 1872-73: “In realtà, la borghesia ha solo un metodo per risolvere a suo modo (= realizzando profitti) la questione delle abitazioni; la risolve, cioè, in maniera tale che la soluzione riproduce sempre nuovamente la questione.

(Questo metodo consiste) ... nella prassi, divenuta generale, di fare demolizioni nei quartieri operai, specialmente in quelli prossimi al centro delle grandi città, sia che esse prendano lo spunto dal risanamento ed abbellimento della città, sia per soddisfare la domanda di grandi locali ad uso commerciale prossimi al centro, sia in base ad esigenze del traffico (apertura di strade, ferrovie, etc.).

Anche se lo spunto iniziale è vario, il risultato è lo stesso dovunque: i vicoli e vicoletti più indecenti scompaiono, fra le più alte congratulazioni reciproche dei borghesi di fronte ad un successo così fenomenale, per ricomparire subito dopo in qualche altro posto e spesso nelle immediate vicinanze”.

168. E la Serao nel 1904: “Così, purtroppo, tutte le grandi idee dei grandi uomini, tutti i vasti progetti a base di milioni, tutte le intraprese colossali che volevano il risanamento igienico e morale di Napoli, bisogna dirlo, hanno fatto fiasco”.

Come andò a finire

169. Quasi a conferma delle conclusioni della Serao (e di Engels), non molti anni dopo, nel 1910, il colera tornò ad imperversare in Napoli.

E, come abbiamo detto (vedi sopra, n°147), per una strana ironia della storia, in quello stesso anno 1910, a Barra, moriva Luigi Martucci cioè proprio colui che, da Sindaco di Barra nell’anno del colera (1884), aveva dedicato tutti i suoi sforzi alla lotta contro la malattia. 

L’imperialismo coloniale classico (1870-1914)

170. Da quando hanno scoperto l’esistenza di interi altri continenti oltre al loro, le classi dirigenti dell’Europa (prima l’aristocrazia e poi la borghesia) si sono mosse, nei loro confronti, secondo una logica di conquista e di sfruttamento.

“Dai servi della gleba del Medioevo uscirono i borghigiani delle prime città; da questi borghigiani ebbero sviluppo i primi elementi della borghesia.

La scoperta dell’America e la circum-navigazione dell’Africa offrirono un nuovo terreno alla nascente borghesia.

Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, lo scambio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in generale, diedero un impulso prima di allora sconosciuto al commercio, alla navigazione, all’industria, e in pari tempo favorirono il rapido sviluppo dell’elemento rivoluzionario (borghese) in seno alla società feudale che s’andava sfasciando” [33].

171. Il “nuovo” continente, raggiunto da Cristoforo Colombo nel 1492, fu rapidamente spartito fra Spagnoli e Portoghesi, ognuno dei quali si considerò padrone di un “pezzo” d’America, a tutto danno dei popoli indigeni, che furono ridotti in schiavitù o semplicemente massacrati, in uno dei più grandi genocìdi che la storia umana ricordi.

Ne era ben consapevole già il nostro grande poeta Ugo Foscolo (1778-1827): “Oh, quanto fumo di umani roghi ingombrò il cielo della America! Oh, quanto sangue di innumerabili popoli, che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’oceano portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! Ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescerà sui figli degli Europei!” [34].

172. Lo stesso accadde man mano che gli europei avanzavano nella loro scoperta dell’Africa, dell’Asia, dell’Oceania ...

Ai massacri, allo sfruttamento sistematico delle risorse naturali, si aggiunse il triste fenomeno del commercio degli schiavi …

Agli imperi coloniali spagnolo e portoghese, si aggiunsero quelli di Francia, Olanda, Inghilterra ...

Infine, dopo aspre contese fra le varie nazioni europee, l’Inghilterra pervenne ad essere la più grande potenza coloniale del mondo e la sua flotta rimase “regina degli oceani” per un lungo periodo (1763-1870).

173. A partire, però, all’incirca dal 1870, la supremazia britannica venne rimessa in discussione e ricominciò, sulle nuove basi economiche della seconda rivoluzione industriale, la competizione fra i paesi europei, e con l’aggiunta stavolta degli USA e del Giappone, nella spartizione dei “territori d’oltremare”.

Gli anni dal 1870 al 1914 costituiscono pertanto il periodo dell’imperialismo coloniale classico, che sfocerà nella grande tragedia della Prima guerra mondiale (1914-1918).

L’imperialismo coloniale classico: definizione

174. E’ evidente che può essere chiamato “imperialismo”, in modo del tutto generale, qualsiasi tendenza di un popolo o di uno Stato a conquistare, o comunque egemonizzare, altri popoli e Stati; in tal senso, furono “imperialisti” Alessandro Magno, gli antichi Romani, e tanti altri, nelle più svariate epoche storiche.

L’imperialismo coloniale classico, come tutti gli altri imperialismi, ha però ovviamente la sua specifica definizione e le sue caratteristiche distintive.

La miglior discepola di Marx, l'ebrea polacca Rosa Luxemburg (1871-1919)

La base economica

175. Questo imperialismo, dunque, può essere definito come una determinata fase dello sviluppo storico del capitalismo: è il capitalismo giunto alla sua fase monopolistica, sulla base tecnologica della seconda rivoluzione industriale.

Più dettagliatamente, si può descrivere questa fase dello sviluppo storico del capitalismo attraverso cinque caratteristiche essenziali:

  1. la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopòli, con funzione decisiva nella vita economica;

  2. la fusione del capitale bancario col capitale industriale ed il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di una oligarchia finanziaria;

  3. la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto all’esportazione di merci;

  4. il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;

  5. la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.

176. Il capitalismo, nella sua fase imperialistica, conduce inevitabilmente alla guerra. Questo perché le leggi economiche del capitalismo monopolistico rendono l’espansione (nuovi mercati, nuovi campi d’investimento, nuove sfere d’influenza) una necessità sempre più pressante; ma, in un mondo già diviso tra le grandi potenze, tale espansione può essere ottenuta solo tentando una re-divisione del mondo, il che vuol dire guerra [35].

E’ questa la base economica che spiega i conflitti di tutto questo periodo, che culmineranno, come già detto, con la Prima guerra mondiale.

Rosa Luxemburg

L’ideologia

177. Naturalmente, sopra questa struttura economica, si innalzò poi la relativa super-struttura politica ed ideologica, come si può vedere esemplificato nel seguente passo di un discorso di un celebre uomo politico statunitense di quegli anni, Albert Jeremiah Beveridge (1862-1927):

“Le fabbriche americane producono più di quanto il popolo americano possa utilizzare. Il suolo americano produce più di quanto il popolo possa consumare.

Il destino ha tracciato la nostra politica: il commercio mondiale deve essere e sarà nostro. E noi ce lo procureremo, seguendo la via indicataci dalla nostra madre (l’Inghilterra).

Insedieremo stabilimenti commerciali su tutta la superficie del globo, come centri di distribuzione dei prodotti americani. Copriremo gli oceani con le nostre flotte mercantili. Costruiremo una Marina su misura della nostra grandezza.

Dai nostri stabilimenti commerciali si svilupperanno, all’ombra delle nostre bandiere, grandi colonie che trafficheranno con noi.

Le nostre istituzioni seguiranno le nostre bandiere sulle ali del commercio.

E la legge americana, l’ordine americano, la civiltà americana, la bandiera americana, questi ausiliari di Dio, saranno stabiliti su sponde rimaste finora in preda alla violenza e all’oscurantismo e le renderanno, per il futuro, rigogliose e illuminate”.

Albert Jeremiah Beveridge

178. Come si vede, le necessità di espansione del capitalismo monopolistico vengono presentate, in modo demagogico, come necessità del popolo e come destino.  

L’asservimento di altre terre e di altri popoli viene presentato come un’opera di civilizzazione, per rendere rigogliose ed illuminate le regioni arretrate, sconfiggendo la violenza (!) ed apportando la legge e l’ordine dei dominatori.

La civiltà e la bandiera dei più forti vengono definiti addirittura ausiliari di Dio, cioè gli strumenti dei quali Dio stesso si serve per portare “il bene” nel mondo.

L’imperialismo E’ la guerra

179. Naturalmente, se nel brano sopra riportato si sostituisse l’aggettivo americano con inglese o tedesco o francese o giapponese si otterrebbe, con poche varianti, quello che dicevano allora i principali esponenti politici di tutte le nazioni.

Da queste premesse, economiche e culturali, cos’altro poteva seguire se non una “grande” guerra mondiale?

180. In definitiva, si può dire che la classe borghese, pervenuta ed ormai consolidata al potere in gran parte degli Stati europei (oltre che negli Stati Uniti d’America), comincia in questo periodo ad abbandonare, anche formalmente, quei nobili ideali di liberté-egalité-fraternité in nome dei quali aveva compiuto la sua rivoluzione e per i quali erano morti i suoi uomini migliori, e ad alimentarsi, sempre più, di antichi miti, intellettualmente irrazionali e moralmente infami, come quello della “naturale superiorità” di una razza sulle altre (con relativa necessità di apportare ad esse la propria “civiltà” e la propria  “religione”), quello dell’ “ineluttabile destino” (il “fato” o la divinità) che guiderebbe l’espansione aggressiva, e così via …

Miti antichi, si è detto, ma che troveranno poi nel Novecento la loro più estrema e conseguente realizzazione, nell’ideologia e nella pratica del nazismo.

Rosa Luxemburg

La grande emigrazione europea

181. Altro fenomeno, organicamente legato a questa nuova fase di sviluppo storico mondiale del capitalismo, fu l’emigrazione di imponenti masse umane dall’Europa verso il continente americano, in numero mai visto prima.

182. Il fenomeno si presentò, all’inizio, su scala limitata (da un paese europeo all’altro) ed in forma stagionale, ma assunse dimensioni planetarie nella seconda metà dell’Ottocento.

Basti dire che la popolazione degli USA, che era già cresciuta da 5 a 23 milioni di abitanti nel periodo 1800-1850, aumentò ancora (da 23 a 100 milioni!) nel periodo 1850-1914. In misura minore, ma egualmente imponente, aumentò quella di vari paesi dell’America Latina (Argentina, Brasile, etc.).

183. Gli Italiani furono preceduti, nell’emigrazione, da Irlandesi, Inglesi, Tedeschi e Scandinavi, che dal 1840 al 1890 si riversarono in massa nelle Americhe.

Mentre però, verso la fine del secolo, l’emigrazione da questi paesi andò progressivamente esaurendosi, quella italiana assunse proporzioni sempre più gigantesche negli anni fra il 1880 e la Prima guerra mondiale (1914).

Emigranti

Partètteno pe’ mare, erano sciumme

184. “Partirono per mare, ed erano fiumi”. Il numero di italiani emigrati si stima in circa 3 milioni, fra il 1880 ed il 1900, e circa 9 milioni, fra il 1900 ed il 1914: in tutto, quindi, circa 12 milioni di persone, di cui circa l’80% meridionali.  Nel 1910, New York divenne la quarta città italiana, dopo Roma, Milano e Napoli, per numero di abitanti.

Essendosi ormai esaurita negli USA, verso la fine del secolo, la “corsa verso il west” (ovvero, l’occupazione, da parte dei bianchi, delle terre appartenute ai nativi d’America, massacrati o confinati nelle riserve), gli italiani dovettero fermarsi, in prevalenza, nelle città della costa orientale (Boston, Filadelfia, etc.) e parteciparono, nel bene e nel male, soprattutto alla edificazione della civiltà urbana degli Stati Uniti.

Emigranti

La Seconda Internazionale (1889-1914) – Il 1° maggio

185. Ma … l’impetuoso sviluppo, su scala mondiale, del capitalismo industriale recò necessariamente con sé, come sua inseparabile ombra, il correlativo sviluppo del movimento operaio.  

Cresciuti di numero e con una consapevolezza parimenti crescente della propria identità di classe e del proprio ruolo nella società, gli operai non tardarono a riprendere il filo, spezzàtosi nel 1876 con lo scioglimento della “Prima Internazionale”, della loro autonoma organizzazione [36], dando vita (ufficialmente, nel 1889, a Parigi) alla “Seconda Internazionale” che, con un ufficio permanente a Bruxelles, raggruppava i partiti di ispirazione socialista nel frattempo sorti ed impetuosamente sviluppatisi nei vari paesi europei ed americani.

A simbolizzare questa rinnovata coscienza unitaria del movimento dei lavoratori, nel corso del congresso di Parigi dal quale sorse la “Seconda Internazionale”, fu anche deciso di istituire una “Giornata internazionale dei lavoratori”, da celebrarsi il 1° maggio di ogni anno [37], a partire dal 1890.

Vedi Il Periodo Liberale (1860-1876) - nn°46-71

186. I principali obiettivi strategici indicati dalla “Seconda Internazionale”, e che furono poi raggiunti nei vari paesi, con diversi tempi e vicissitudini, furono: la riduzione della giornata lavorativa ad 8 ore; l’assicurazione generale contro gli infortuni sul lavoro; il diritto di voto per tutti i cittadini.

Il documento istitutivo del Primo Maggio

187. Assai acceso, nell’ambito della “Seconda Internazionale”, fu il dibattito circa il rapporto che doveva esistere tra lo “scopo finale” del movimento dei lavoratori (e cioè il superamento della società capitalistica) e le “riforme parziali” che si potevano conseguire anche prima del raggiungimento di tale “scopo finale”.

Il dibattito diede vita, con una variegata serie di sfumature intermedie, a due posizioni fondamentali:

-              quella “riformista”  (o “revisionista”), teorizzata da Eduard Bernstein [38], secondo la quale “il movimento è tutto, lo scopo è nulla”, per cui si deve tendere ad ottenere quanti più “miglioramenti” possibili all’interno della società capitalistica, senza porsi più, di fatto, il problema del suo abbattimento, e quindi collaborando indefinitamente con i governi espressi dalla classe borghese dominante;

-              quella “rivoluzionaria”, secondo la quale è illusorio pensare che possano ottenersi veri “miglioramenti” sostanziali per i lavoratori finché esiste il “regime economico del plusvalore”, ed inoltre non ha senso parlare di collaborazione fra due classi che rimangono però, indefinitamente, l’una sempre egèmone e l’altra sempre sottoposta; bisogna quindi affrettare il momento della crisi rivoluzionaria per l’abbattimento del sistema borghese e la costruzione di una società senza dis-uguaglianze di classe.   

188. Il ruolo-guida nella “Seconda Internazionale” fu svolto dal Partito social-democratico tedesco, che era il più numeroso e meglio organizzato d’Europa.

In Italia, la fondazione del Partito socialista dei lavoratori, aderente alla “Seconda Internazionale”, si ebbe nel giugno del 1892, con il congresso di Genova, come meglio diremo più ampiamente a suo luogo.

Il Primo Maggio 1890 a Parigi

La “Rerum novarum” di papa Leone XIII (1891)

189. La vastità e gravità della “questione sociale”, creatasi al tempo della seconda rivoluzione industriale, indusse anche la Chiesa cattolica a prendere ufficialmente posizione, con la enciclica “Rerum novarum” [39] pubblicata dal papa Leone XIII (1878-1903) il 15 maggio del 1891.

Papa Leone XIII

190. Un successore di Leone XIII, il papa Giovanni XXIII (1959-1963), così riassume il contenuto ed il contesto storico di quel documento:

“Leone XIII parlò in anni di radicali trasformazioni, di accesi contrasti e di acerbe ribellioni … Come è noto, allora la concezione del mondo economico più diffusa e maggiormente tradotta nella realtà era una concezione naturalistica, che negava ogni rapporto tra morale ed economia.

Motivo unico dell’operare economico, si affermava, è il tornaconto individuale. Legge suprema regolatrice dei rapporti tra gli operatori economici è una libera concorrenza senza alcun limite. Interessi dei capitali, prezzi delle merci e dei servizi, profitti e salari, sono determinati puramente e meccanicamente dalle leggi del mercato. Lo stato deve astenersi da ogni intervento in campo economico. Le associazioni sindacali, a seconda dei paesi, o vietate o tollerate o considerate come il diritto privato.

In un mondo economico così concepito, la legge del più forte trovava piena giustificazione sul piano teorico e dominava sul piano dei rapporti concreti tra gli uomini.

Ne risultava così un ordine economico radicalmente sconvolto. Mentre ingentissime ricchezze si accumulavano nelle mani di pochi, le classi lavoratrici venivano a trovarsi in condizioni di crescente disagio. Salari insufficienti o di fame, logoranti le condizioni di lavoro e senza alcun riguardo alla sanità fisica, al costume morale e alla fede religiosa. Inumane soprattutto le condizioni di lavoro a cui spesso erano sottoposti i fanciulli e le donne. Sempre incombente lo spettro della disoccupazione. Soggetta a processo di disintegrazione la famiglia.

Di conseguenza, profonda insoddisfazione tra le classi lavoratrici, nelle quali serpeggiava e si rafforzava lo spirito di protesta e di ribellione …

191. In quel frangente … mentre taluni osavano accusare la Chiesa cattolica quasi che, di fronte alla questione sociale, si limitasse a predicare la rassegnazione ai poveri e ad esortare i ricchi alla generosità, Leone XIII non esitò a proclamare e a difendere i legittimi diritti dell’operaio” [40].

I princìpi basilari “secondo i quali deve ricomporsi il settore economico-sociale dell’umana convivenza” sono, per la “Rerum novarum”, i seguenti:

  1. “Il lavoro … deve essere valutato e trattato non già alla stregua di una merce, ma come espressione della persona umana. Per la grande maggioranza degli uomini, il lavoro è l’unica fonte da cui si traggono i mezzi di sussistenza e perciò la sua remunerazione non può essere abbandonata al gioco meccanico delle leggi del mercato; deve invece essere determinata secondo giustizia ed equità, che altrimenti rimarrebbero profondamente lese, fosse pure stipulato liberamente da ambedue le parti il contratto di lavoro.

  2. La proprietà privata, anche dei beni strumentali, è un diritto naturale che lo Stato non può sopprimere. Ad essa è però intrinseca una funzione sociale, e perciò è un diritto che va esercitato a vantaggio proprio e a bene degli altri.

  3. Lo Stato, la cui ragion d’essere è l’attuazione del bene comune nell’ordine temporale, non può rimanere assente dal mondo economico. Deve essere presente per promuovervi opportunamente la produzione di una sufficiente quantità di beni materiali… e per tutelare i diritti di tutti i cittadini, soprattutto dei più deboli, quali sono gli operai, le donne, i fanciulli. E’ pure suo compito indeclinabile quello di contribuire attivamente al miglioramento delle condizioni di vita degli operai. E’ inoltre dovere dello Stato procurare che i rapporti di lavoro siano regolati secondo giustizia ed equità, e che negli ambienti di lavoro non sia lesa, nel corpo e nello spirito, la dignità della persona umana…

  4. Ai lavoratori … va riconosciuto come naturale il diritto di dar vita ad associazioni, o di soli operai o miste di operai e padroni, come pure il diritto di conferire ad esse la struttura organizzativa che ritengono più idonea …

  5. Operai ed imprenditori devono regolare i loro rapporti ispirandosi al principio della solidarietà umana e della fratellanza cristiana, giacché tanto la concorrenza in senso liberistico, quanto la lotta di classe in senso marxistico sono contro natura e contrarie alla concezione cristiana della vita” [41].

Gli effetti della “Rerum novarum”

192. L’enciclica di Leone XIII, se da un lato sintetizzò e diede ufficiale approvazione al lavoro teorico e pratico fino ad allora svolto dai cattolici in questo campo, dall’altro produsse una più attenta sensibilità, nell’insieme del clero e dei fedeli, verso la specificità della moderna “questione sociale”, che era cosa diversa dalla “povertà” pur sempre esistente nelle precedenti società, antica e feudale.

Mentre, per il passato si trattava infatti, nell’ambito di un ordine sociale ritenuto comunque im-modificabile, di esortare solo alla conversione individuale, cercando in tal modo di introdurre elementi di solidarietà umana all’interno dell’ordine sociale dato, nel presente si trattava invece chiaramente di impegnarsi anche per modifiche strutturali all’organizzazione economica, giuridica e politica della società, quale era uscita dalle rivoluzioni borghesi, ponendosi così il problema di ricercare, ed eventualmente rimuovere,  anche le cause  della povertà.

193. Di fatto, l’enciclica svolse il ruolo di incoraggiare la nascita di organizzazioni sociali (società operaie di mutuo soccorso, casse rurali, cooperative, banche popolari) e poi, sempre più, anche di sindacati e partiti, di ispirazione cattolica, che si ponevano l’obiettivo di realizzare una società in cui vi fosse maggiore giustizia sociale, attraverso una “terza via” alternativa sia al liberalismo sia al socialismo.

194. Relativamente all’impressione che l’enciclica produsse in quel momento, soprattutto nel clero, basti citare quello che dice il curato di Torcy, in Francia, ad un suo più giovane confratello, qualche anno dopo:

“La famosa enciclica di Leone XIII, Rerum novarum!

Voi la leggete tranquillamente, coll’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di Quaresima. Alla sua epoca, piccolo mio, ci è parso di sentirci tremare la terra sotto i piedi. Quale entusiasmo!

Ero, in quel momento, curato di Norenfontes, in pieno paese di miniere. Quest’idea così semplice, che il lavoro non è una merce, sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli uomini, come sul grano, lo zucchero o il caffé, metteva sottosopra le coscienze, lo credi?

Per averla spiegata in cattedra alla mia buona gente, sono passato per un socialista e i contadini benpensanti m’han fatto mandare a Montreuil, in disgrazia. D’essere in disgrazia me ne infischiavo un bel po’, rènditene conto. Ma sul momento…” [42].

Le prime imprese coloniali dell’Italia di Depretis (1882-1887)

195. Anche la ventenne Italia ebbe la sua “febbre di intraprese coloniali” e partecipò alla competizione imperialistica.

Nel marzo 1882, assai poco eroicamente, il governo italiano (Depretis) comprò con soldi pubblici la baia di Assab (sul Mar Rosso, in Eritrea) dalla Società privata di navigazione Rubattino, che l’aveva a sua volta comprata nel 1869 da un Sultano locale: e così, nel giugno dello stesso anno 1882, quel porto divenne la prima colonia italiana.

Il 17 gennaio del 1885 (subito dopo l’epidemia di colera!), un battaglione di bersaglieri salpò da Napoli, fra grandi manifestazioni di entusiasmo “patriottico”, al fine di conquistare Massàua, altra cittadina sulla costa eritrea, e poi procedere nella conquista delle zone interne.

196. La conquista di Massàua avvenne in sole tre settimane, ma il resto dell’operazione si rivelò ben più laborioso del previsto: il popolo eritreo oppose una ferma resistenza, e il 26 gennaio del 1887 il ras Alùla sconfisse gli italiani nella battaglia di Dògali.

Il Ras Alula Engida (1827-1897) eroe della resistenza eritrea

197. La sconfitta di Dògali suscitò in Italia aspre polemiche contro il governo Depretis e fieri propositi di rivalsa, alimentati nell’opinione pubblica dai circoli militaristi, che godevano il favore del re Umberto I e della regina Margherita, e dai gruppi economici che traevano profitto dalle imprese africane dell’Italia.

Pochi mesi dopo “la disfatta di Dògali”, venne a morte il Depretis (luglio 1887) e salì al potere il siciliano Francesco Crispi.

La battaglia di Dogali


Note

[26] Vedi nn°417 e 424 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[27] Vedi n°12 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1600”.

[28] Vedi nn°65 e 71 in “Il periodo angioino”.

[29] Vedi n°203 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[30] Nicola Amore (Roccamonfina, 1828 - Napoli, 1894) fu sindaco di Napoli dal 1884 al 1887 e poi dal novembre 1888 al novembre 1889.

[31] Adolfo Giambarba, 1894, Relazione per la riduzione dei lavori.

[32] Gli articoli di Engels apparvero sul giornale dei socialdemocratici tedeschi “Volks staat” negli anni 1872 e 1873, e furono poi raccolti e pubblicati in volume nel 1887.

[33] Karl Marx e Friedrich Engels - “Manifesto del Partito comunista” (1848).

[34] Ugo Foscolo - “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” (1802).

[35] Vedi la classica analisi condotta in: Vladimir Ilijc Ulianov (Lenin) - “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” (1917) - Ed. Riuniti, 1974. Vedi anche lo scritto della “migliore discepola di Marx”, l’ebrea polacca Rosa Luxemburg (1871-1919): “L’accumulazione del capitale” (1913) -  Ed. Einaudi, 1968.

[36] Si ricordi quanto aveva giustamente detto il Marx nell’ “Indirizzo inaugurale” della “Prima Internazionale”, nel 1864: “La classe operaia possiede un elemento del successo, il numero; ma i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla conoscenza.

[37] La data del 1° maggio venne scelta in ricordo del primo grande sciopero nazionale organizzato dai sindacati, negli USA, 3 anni prima (1886); ma anche della battaglia per la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore, svoltasi nel 1867 a Chicago.

[38] Eduard Bernstein, social-democratico tedesco, autore di “I presupposti del socialismo ed i còmpiti della socialdemocrazia” (1899).

[39] Dopo la “Rerum novarum” furono pubblicati dai Papi altri documenti, per ricordarne i successivi anniversari. Si ebbero così: Pio XI - “Quadragesimo anno”, 1931; Pio XII -  Radiomessaggio del 1941; Giovanni XXIII - “Mater et magistra”, 1961; Paolo VI - “Octogesima adveniens”, 1971; Giovanni Paolo II - “Laborem exercens”, 1981; Giovanni Paolo II - “Centesimus annus”, 1991.  Ed inoltre: Giovanni XXIII - “Pacem in terris”, 1963; Concilio Vaticano II - “Gaudium et spes”, 1965; Paolo VI - “Populorum progressio”, 1967; Giovanni Paolo II - “Sollicitudo rei socialis”, 1987; Benedetto XVI - “Caritas in veritate”, 2009.  Questi documenti, nel loro insieme, formano quello che viene chiamato “insegnamento o dottrina sociale della Chiesa” e costituisce parte integrante della sua teologia morale.

[40] Giovanni XXIII – “Mater et magistra”, 1961, parte I.

[41] Giovanni XXIII – ibidem.

[42] Georges Bernanos – “Diario di un curato di campagna” (1936).

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, maggio 2017

Centro Culturale e di Studi Storici "Brigantino - il Portale del Sud" - Napoli e Palermo admin@ilportaledelsud.org ®copyright 2017: tutti i diritti riservati. Webmaster: Brigantino.

Sito derattizzato e debossizzato