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L’illuminazione pubblica a gas: per
Napoli (1839)
135. La Napoli borbonica fu la
prima città in Italia, e la terza in Europa dopo Londra e Parigi, ad
avere l’illuminazione pubblica a gas
.
Il supporto delle 350
lampade installate era fornito dall’azienda Guppy, che aveva sede
proprio nella zona orientale di Napoli, poco distante da Pietrarsa.
136. Dopo l’unità d’Italia,
l’appalto per l’illuminazione pubblica a gas venne concesso alla
“Compagnia napoletana d’illuminazione e di scaldamento col gas” anzi
esattamente “Compagnie napolitaine d’eclairage et de chauffage par le
gaz”, dato che era una società a capitale francese, con sede legale
a Parigi.
La Compagnia nacque ufficialmente il 18 ottobre 1862, quando venne
registrato con atto notarile l’accordo tra il Sindaco di Napoli e il
francese Basile Parent, per la concessione in esclusiva del diritto di
illuminazione a gas di tutta la città per i successivi 60 anni e, in
aggiunta, per la prima volta, la possibilità di effettuare anche il
riscaldamento delle abitazioni. In pratica, un nuovo contratto di
appalto venne poi stipulato il 27 dicembre 1885, con proroga fino al
1°giugno 1937.
137. Naturalmente, l’estensione
del servizio a tutta la città avvenne molto gradualmente ed ancor più
gradualmente l’estensione anche ad utenze private.
Comunque, la “Napoletanagas – Compagnia napoletana di illuminazione e
scaldamento col gas” esiste tuttora e la sua Direzione Generale si trova
alla Via Galileo Ferraris n°66.
L’illuminazione pubblica a gas: per Barra
(1885)
138. Alla Barra, per secoli, le
povere stradine erano state rischiarate quasi esclusivamente dalle
fiammelle votive poste davanti alle edicolette dedicate alla Madonna, ai
Santi, alle anime del Purgatorio, e dalla fioca luce delle candele
proveniente dall’interno delle abitazioni.
Un passo avanti si era fatto,
agli inizi dell’Ottocento, con l’arrivo della illuminazione pubblica
a petrolio. Adesso, grazie al Martucci, si muoveva un altro passo.
139. Negli anni immediatamente
precedenti, il Comune aveva rifiutato sia una “Offerta Adamo” (Delibera
N°96 del 30 gennaio 1877) sia una “Domanda Anaclerio” (N°261 del 21
maggio 1879) “in ordine alla illuminazione a gas”.
Si continuava quindi con
l’illuminazione pubblica a petrolio: dopo l’appaltatore Parisi
(Capitolato di appalto del 21 ottobre 1878) troviamo la “Offerta a
trattativa privata della pubblica illuminazione pel biennio 1882-83 a
favore di Cavallaro Alfonso e concessione della medesima” (Delibera
N°438 del 10 ottobre 1881).
140. Nel 1884, infine, sindaco
appunto il Martucci, il Comune deliberò il “Contratto e concessione per
l’impianto dell’illuminazione a gas” (Delibera consiliare N°17
del 15 settembre 1884).
E l’anno seguente, si iniziò a
porre mano all’opera:
“Disposizioni in ordine
all’esecuzione ed accettazione dei lavori di conduttura per la pubblica
illuminazione a gas” (N°73 del 27 aprile 1885; ed anche,
successivamente, N°156 del 1°settembre 1886).
“Accettazione del materiale
dell’illuminazione a gas, qualità dell’illuminazione medesima per la
misura e numero delle fiamme” (N°74 dello stesso giorno 27 aprile 1885).
“Completamento della pubblica
illuminazione a gas” (N°106 del 30 settembre 1885).
“Svincolo della cauzione
prestata da Bagnari, concessionario della pubblica illuminazione a gas”
(N°122 del 16 febbraio 1886).
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Fanale per l'illuminazione pubblica a gas |
141. Naturalmente, per vari
anni ancora, le due forme di illuminazione pubblica continuarono
tranquillamente a coesistere: basti pensare che l’illuminazione a gas, e
non più a petrolio, degli uffici comunali venne realizzata solo
nel 1890 … fino a quando, sul principiare del nuovo secolo, non
sopraggiunse, quale terzo invadente, la ancor più avveniristica
illuminazione elettrica.
142. Il contratto di appalto
per l’illuminazione pubblica a gas era stato firmato dal Martucci non
con la “Compagnia napoletana di illuminazione e scaldamento col
gas”, di cui si è detto sopra, bensì con la “Compagnia meridionale e
vesuviana del gas”, che serviva anche i limitrofi Comuni di S. Giovanni
a Teduccio e S. Giorgio a Cremano.
Vedremo in seguito che la
maldestra gestione di questo contratto, da parte dei successori del
Martucci, provocò una penosa controversia giudiziaria per morosità
da parte del Comune di Barra.
Il
servizio pubblico di “tram a cavalli con vetture omnibus” (1886)
143. Fino a quel momento, il
paese era abituato al tradizionale trasporto con la “carrettèlla”,
trainata dal “ciucciariéllo” oppure, assai spesso, a forza di braccia.
Per chi poteva permettersi di
pagare, c’era anche la possibilità di “fittare” una delle carrozzelle,
con relativo cocchiere e cavallo, che stazionavano stabilmente, in
attesa dei rari clienti, nei “larghi” del paese, dapprima in “Largo
Monteleone”, “Largo Catena”, “Largo Parrocchia”, “Largo Crocella”, e
poi, quando fu realizzata, nella Piazza centrale (attuale Piazza De
Franchis).
144. Nel 1885, troviamo la
“Accettazione dell’offerta Ascione a trattativa privata per l’appalto
del servizio del corso pubblico con vetture omnibus” (Delibera
consiliare N°119 del 30 novembre 1885).
E così, il 2 gennaio 1886,
iniziò il “servizio di trasporto pubblico di tram a cavalli con vetture
omnibus”.
L’ omnibus, di per sé, è
una carrozza pubblica, per persone e cose, trainata da cavalli; insieme
agli omnibus, sopraggiunsero i tram a cavalli che erano in
pratica degli omnibus che, però, viaggiavano in sede propria (su rotaia)
mentre in seguito arrivarono i tram elettrici, che viaggiavano su
rotaia e con trazione elettrica.
A Barra, il Sindaco Martucci
installò il primo servizio di tram a cavalli; per i tram
elettrici, invece, si dovrà attendere il nuovo secolo, alla vigilia
della Prima guerra mondiale.
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Omnibus |
145. Precisamente, quel 2
gennaio 1886, entrarono in funzione due linee di tram a cavalli:
-
la prima, andava “a Napoli” ed infatti recava la tabella, scritta in
rosso, “Largo Parrocchia-Largo S. Ferdinando” seguendo appunto il
tracciato: Largo Parrocchia di Barra – Barriera di Napoli (Ponte della
Maddalena) – Largo S. Ferdinando a Napoli (e viceversa, naturalmente).
Il biglietto costava 15 centesimi di lira per ogni corsa (bambini fino a
7 anni: gratis; dai 7 ai 12 anni: metà prezzo; prezzi invariati anche
nei giorni festivi).
-
l’altra linea, invece, era prettamente barrese: andava infatti da
Palazzo Bisignano a Largo Parrocchia (e viceversa); il biglietto
costava 5 centesimi di lira per ogni corsa (10 centesimi dopo l’una di
notte). Questa linea serviva, quindi, solo metà del paese (la “Barra di
sopra”) ed i maligni ebbero modo di osservare che era proprio la zona
nella quale abitava, ed aveva la sua farmacia, il Sindaco Martucci ...
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Il tram a cavalli |
Il famoso “ponte mobile”, prima in legno
e poi in ferro
146. Al “quadrivium nobile” di
Barra, ovvero l’incrocio fra il Corso Sirena e la Via Bisignano/Bernardo
Quaranta
[27] nelle giornate particolarmente piovose, risultava
impossibile passare a piedi: vi si formava infatti la classica, ed
addirittura storica, “lava dell’acqua”
[28].
Per ovviare a questo
inconveniente, già nel 1872 troviamo un “Ponte mobile alla strada S.
Martino” (Delibera N°147 del 30 ottobre 1872) come allora si chiamava
tutta la attuale Via Villa Bisignano.
Nel 1877 (quattro anni dopo
l’apposizione della làpide per Bernardo Quaranta), il “ponte mobile in
legno” era custodito nell’ormai ex-convento di S. Domenico, parzialmente
adibito a deposito comunale (vedi sopra, n°127): vi era una persona,
appositamente incaricata e pagata dal Comune, che in caso di necessità
doveva installare il ponte.
Al Martucci, nel periodo
successivo al colera del 1884, si attribuisce anche la proposta di
costruzione di un “ponte mobile in ferro” che infatti sostituì quello in
legno. Così, ancora nel nuovo secolo, vediamo che “la Giunta comunale
delibera pagarsi a Angelo Damiano lire 20 per la mettitura del ponte
mobile in ferro alla via Bisignano durante l’anno 1907”.
Morte di Luigi Martucci
147. Luigi Martucci morì il 20
aprile 1910 ed è sepolto nel cimitero di Barra.
Il Lapegna annota: “Fra’ Enrico
M. Petrillo, dell’Ordine dei Padri Predicatori lesse, nella Chiesa de’
Padri Domenicani, l’elogio funebre”.
L’ Ordine dei Padri
Predicatori è ovviamente quello dei Domenicani, ai quali il Martucci,
avendo la sua farmacia in Barra di sopra, poco distante
dalla loro chiesa e convento (ancorché espropriati), era particolarmente
legato; ed a maggior ragione, dopo che, nella sua opera a favore dei
colerosi, era stato co-adiuvato dal domenicano P. Giuseppe De Cristofaro.
Per una strana
ironia della storia e per la permanente incuria degli uomini,
nell’agosto dello stesso anno 1910, poco più di tre mesi dopo la morte
del Martucci, il colera tornò ad infierire su Barra.
148. Comunque, il
13 aprile 1913 venne apposta la lapide nella (allora) sala consiliare,
che dice:
A LUIGI
MARTUCCI
FULGIDO
ESEMPIO
DI
AMMINISTRATORE CITTADINO PADRE
IL CONSIGLIO
COMUNALE E LA CITTADINANZA
MEMORI
Davvero “mèmori”?
Il colera del 1884 e il “risanamento”
149. Dopo la drammatica
epidemia del 1836-37, la “malattia del secolo”, il colera, tornò a farsi
presente nel 1854, quando origini e possibili terapie del male erano
ancora sconosciute, provocando quasi 7.000 morti: e di questa epidemia
del 1854 scrisse, fra gli altri, Bernardo Quaranta
.
Posteriormente all’unità
d’Italia, nuove manifestazioni del male si ebbero nel triennio 1865-67
ed ancora nel 1873, con 1.280 morti a Napoli.
150. Fu tuttavia il colera del
1884 quello che portò la città al centro dell’attenzione nazionale.
La malattia infierì da metà
agosto a metà novembre e provocò in Napoli 7.000 morti (circa lo stesso
numero registrato 30 anni prima, nel 1854), con punte massime nei
quartieri popolari del Mercato (più di 30 morti ogni 1.000 abitanti) e
di Pendìno e Porto (più di 20 morti ogni 1.000 abitanti). Anche i Comuni
limitrofi, fra i quali Barra, furono duramente colpiti.
151. Il “vibrione” colerico era
ormai stato scoperto ed i metodi per contrastarlo erano noti. Il fatto
che a Napoli, a differenza di altre città italiane, l’epidemia si
presentasse con tale gravità, costrinse l’opinione pubblica nazionale ed
il governo (Depretis) a riconoscere la fondatezza delle denunce, che da
molti anni venivano fatte, circa le precarie condizioni igieniche, la
incerta potabilità dell’acqua, le abitazioni improprie (soprattutto i
“bassi” dei vicoletti e i “fòndaci” nei quali viveva il popolo), il
sistema fognario basato sui malsani “pozzi neri”, le misere condizioni
di vita, la inadeguatezza dell’ alimentazione, la mancanza di un vero
sistema sanitario, ed un lunghissimo etc. etc.
In seguito alla tragedia, sia
il re Umberto I che il primo ministro Agostino Depretis visitarono la
città e fu in quella circostanza che il Depretis proferì la celebre
frase: “Bisogna sventrare Napoli”.
Prendendo spunto da questa
espressione, la giornalista e scrittrice Matilde Serào scrisse
“Il ventre di Napoli”: una serie di 9 articoli (poi raccolti in volume)
che uscirono sul giornale romano “Capitan Fracassa” mentre a Napoli
ancora imperversava l’epidemia.
Matilde Serao (1856-1927)
152. Matilde Serao può ben
essere definita “una napoletana della Magna Graecia”, essendo nata a
Patrasso (Grecia) il 12 maggio 1856. Suo padre Francesco era un liberale
che, per sfuggire alla polizia borbonica, era riparato nell’Ellade, dove
aveva conosciuto e sposato Paolina Borelly, di nobile ma decaduta
stirpe. I due arrivarono in Italia nel 1860 ed a Napoli l’anno dopo.
Matilde frequentò la “Scuola
normale femminile” (Istituto magistrale “Eleonora Pimentel Fonseca”), e
lavorò poi come ausiliaria nell’azienda dei Telegrafi dello Stato.
Nel 1877 lasciò l’impiego per
dedicarsi esclusivamente al giornalismo e alla letteratura.
Nel periodo 1882-1887 visse a
Roma, lavorando tra l’altro presso il giornale “Capitan Fracassa”, ove
conobbe Edoardo Scarfoglio, che sposò nel 1885.
153. Tornati insieme a Napoli,
il 16 marzo del 1892 Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio fondarono il
giornale “Il Mattino”, che sarebbe poi divenuto il più diffuso
quotidiano del Mezzogiorno.
Lei lasciò “Il Mattino” nel
1903, anche in seguito alla separazione legale da Scarfoglio, e fondò
per conto suo il nuovo quotidiano “Il Giorno” (1904).
Morì a Napoli il 27 luglio del
1927.
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Matilde Serao |
154. Oltre agli
scritti giornalistici, la Serao fu fecondissima autrice di romanzi e
racconti, ispirati soprattutto alla vita, agli affetti, ai costumi,
della plebe e della piccola borghesia napoletane.
Si ricordano: “Leggende
napoletane” (1881); “Telegrafi dello Stato”, “La virtù di Checchina” e
“Scuola Normale femminile” (1884); “La conquista di Roma” (1885); “Vita
e avventure di Riccardo Joanna” (1886); “Il paese di Cuccagna” (1890);
“Nel paese di Gesù - Ricordi di un viaggio in Palestina” (1898);
“Sterminator Vesèvo”, diario della eruzione del Vesuvio del 1906.
“Il ventre di Napoli” e … la pancia della borghesia “liberale”
155. I nove articoli de “Il
ventre di Napoli” uscirono nell’autunno del 1884, a partire dal 17
settembre, ed il volume nel dicembre 1884.
I titoli, nell’ordine, erano:
(1) Bisogna sventrare Napoli; (2) Quello che guadagnano; (3) Quello che
mangiano; (4) Gli altarini; (5) Il lotto; (6) Ancora il lotto; (7)
L’usura; (8) Il pittoresco; (9) La pietà.
In essi, “donna Matilde”, con
mente lucida e cuore appassionato e partécipe, descrive nello stile
dell’epoca le misere condizioni di vita della stragrande maggioranza del
popolo napoletano, invocando rapidi e risolutivi interventi
dell’autorità di governo (“Non basta sventrare Napoli: bisogna quasi
tutta rifarla”).
156. Ed in effetti, assai
rapidamente, il 15 gennaio del 1885, il Parlamento italiano approvò la
apposita legge “Pel risanamento della città di Napoli”, che doveva dare
il via alla prima grande operazione urbanistica ed edilizia realizzata
dallo Stato italiano unitario in Napoli.
I lavori, però, iniziarono di
fatto solo nel giugno del 1889 e, fra scandali, inchieste per
malversazioni e revisioni dei progetti in corso d’opera, durarono
addirittura fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, nel 1913.
La attuazione pratica di questa
legge costituì il primo esempio di come la borghesia del Nord (il grande
capitale finanziario) fosse ormai effettivamente unita a quella,
peraltro subalterna, del Sud (il ceto politico parassitario, la piccola
borghesia delle professioni e dei commerci, gli “imprenditori”
meridionali nel campo dell’edilizia) ... nello sfruttare cinicamente la
miseria e le tragedie del popolo, allo scopo di arricchirsi
ulteriormente.
Quale “risanamento”?
157. Che cosa accadde, in
sostanza? La vicenda è certamente molto istruttiva, anche per
comprendere le sorti successive della città ed in particolare quelle
della sua area orientale.
La vicenda della
“Ricostruzione” dopo il terremoto del 1980, ad esempio, può essere
considerata come una “nuova edizione”, riveduta ed ulteriormente
s-corretta, di quella del “Risanamento” di circa un secolo prima.
158. L’allora Sindaco di
Napoli, Nicola Amore
, e la sua Giunta, proponevano inizialmente
anzitutto la costruzione di un grande quartiere operaio nella parte
orientale della città.
L’area, ancora parzialmente
paludosa, sarebbe stata in questa occasione bonificata e sarebbe
divenuta una vera zona industriale e di artigianato, accogliendo e
riqualificando socialmente gli abitanti dei vecchi quartieri malsani
del centro storico, che avrebbero qui avuto sia una vera casa sia un
vero lavoro.
“Vi sarà poi una strada ampia,
bellissima, ombreggiata ed ossigenata da piantagioni, che correrà
intorno al nuovo quartiere e così siamo sicuri che non sarà un quartiere
morto!”
Questa strada ampia,
bellissima, etc. si sarebbe dovuta chiamare “Corso Orientale” ...
Invece …
159. Le cose, però, non
andarono così. Il Corso Orientale non fu mai realizzato e mai nacque il
quartiere artigiano ed operaio “modello” della zona orientale.
Il progetto approvato,
elaborato dall’ing. Adolfo Giambarba, capo dell’Ufficio tecnico del
Comune di Napoli, prevedeva invece l’apertura di una grande strada larga
27 metri (il famoso “Rettifilo”) che doveva “squarciare” i quartieri
malsani di Porto, Pendìno, Mercato e Vicarìa, giungendo fino alla
Stazione centrale; la contemporanea edificazione di case “per ceti
abbienti e meno abbienti”; la monumentalità degli edifici pubblici; la
risoluzione dei problemi dell'acqua potabile e delle fognature.
160. L’area di intervento fu
divisa in nove “lotti”, ma i lavori (ad eccezione di quelli relativi ad
uno solo dei lotti) furono affidati ad un’unica ditta, la “Società pel
risanamento di Napoli”, formata quasi esclusivamente da banche e società
finanziarie ed immobiliari del Nord.
Ovviamente, banche e società
finanziarie ed immobiliari non avevano alcun interesse a costruire le
case per i ceti popolari, che sarebbero state, per esse, poco
redditizie; avevano invece un elevato interesse a realizzare subito le
case signorili, che consentivano immediati ed elevati profitti.
161. Come constatò
lo stesso Giambarba qualche anno dopo:
“La Società pel risanamento
è partita, fin dall’inizio dell’opera, da un concetto interamente
bancario ed industriale ... il criterio è quello di creare, nel minimo
tempo possibile, le proprietà sui suoli più ricercati e quindi di
maggiori redditi, abbandonando in ultima linea quelle costruzioni o
bonifiche che renderebbero poco o nulla quando fossero ultimate”
.
162. Nel 1900, la
celebre inchiesta effettuata dal commissario governativo Giuseppe Saredo,
della quale diremo più ampiamente a suo luogo, accertò che oltre 50 mila
persone erano state allontanate dalle vecchie abitazioni
abbattute, ma di queste solo una minima parte aveva trovato
alloggio nelle nuove abitazioni realizzate.
Infatti, dei 7
isolati previsti “per i ceti meno abbienti”, 3 non erano stati nemmeno
iniziati e 2 erano fermi all’edificazione del piano terreno; solo i
restanti 2 erano stati bensì completati ma … i costi degli affitti erano
talmente alti da risultare inaccessibili agli abitanti delle vecchie
case.
163. In definitiva, fu
realizzato il famoso “Rettifilo” (Corso Umberto I), con edifici non
certo per il popolo e negozi di lusso, più alcune grandi opere di
decòro, come la galleria Umberto I (1892), il palazzo della Borsa
(1895) e la nuova facciata, di gusto neoclassico, dell’Università (primo
decennio 1900).
Le classi popolari non poterono
far altro che restringersi a vivere nella parte degradata dei vecchi
quartieri, sopravvissuta allo “sventramento”.
Il bilancio di “donna Matilde”
164. La stessa Matilde Serao,
nel 1904, in occasione del 20° anniversario del colera, scrisse altri
tre articoli, in aggiunta ai nove scritti 20 anni prima, nei quali
tracciò uno sconsolato bilancio dell’operazione – Risanamento.
I titoli di questi
articoli sono, nell’ordine: (1) Il paravento; (2) Le case del popolo;
(3) Che fare?
165. “(Il Rettifilo) …
la magnifica strada, la strada della salute e della redenzione del
popolo napoletano … è semplicemente un paravento, un leggiero, fragile e
grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol
sapere tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile!
Il popolo, non potendo abitare
il Rettifilo, di cui le pigioni sono molto care, non avendo le
traverse a sua disposizione, non avendo delle vere case del popolo, è
stato respinto, respinto dietro il paravento!
Così, si è accalcato molto più
di prima; così, il censimento potrebbe dirvi che tutta la facciata del
Rettifilo è poco abitata e tutto ciò che è dietro, disgraziatamente, è
abitato più di prima; che dove erano 8 persone, ora sono 10; che lo
spazio è diminuito e le persone sono cresciute …”
Matilde Serao e … Federico Engels
166. La Serao, con ogni
probabilità, non aveva letto gli articoli che, su “La questione delle
abitazioni” aveva scritto, già nel 1872-73, il filosofo tedesco
Friedrich Engels (1820-1895), ma giungeva, senza saperlo, alle
stesse conclusioni.
Già trenta anni
prima
, infatti, sulla base delle esperienze fatte nelle
principali città europee, Engels aveva tratto un principio di ordine
generale, che collega esattamente il fenomeno alle sue cause strutturali
(di classe).
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Federico Engels, grande amico e collaboratore di Karl
Marx |
167. Scrive Engels nel 1872-73:
“In realtà, la borghesia ha solo un metodo per risolvere a suo
modo (= realizzando profitti) la questione delle abitazioni; la
risolve, cioè, in maniera tale che la soluzione riproduce sempre
nuovamente la questione.
(Questo metodo consiste)
... nella prassi, divenuta generale, di fare demolizioni nei quartieri
operai, specialmente in quelli prossimi al centro delle grandi città,
sia che esse prendano lo spunto dal risanamento ed abbellimento della
città, sia per soddisfare la domanda di grandi locali ad uso commerciale
prossimi al centro, sia in base ad esigenze del traffico (apertura di
strade, ferrovie, etc.).
Anche se lo spunto iniziale è
vario, il risultato è lo stesso dovunque: i vicoli e vicoletti più
indecenti scompaiono, fra le più alte congratulazioni reciproche
dei borghesi di fronte ad un successo così fenomenale, per
ricomparire subito dopo in qualche altro posto e spesso nelle
immediate vicinanze”.
168. E la Serao nel 1904:
“Così, purtroppo, tutte le grandi idee dei grandi uomini, tutti i vasti
progetti a base di milioni, tutte le intraprese colossali che volevano
il risanamento igienico e morale di Napoli, bisogna dirlo, hanno fatto
fiasco”.
Come andò a finire
169. Quasi a conferma delle
conclusioni della Serao (e di Engels), non molti anni dopo, nel 1910, il
colera tornò ad imperversare in Napoli.
E, come abbiamo detto (vedi
sopra, n°147), per una strana ironia della storia, in quello stesso
anno 1910, a Barra, moriva Luigi Martucci cioè proprio colui che, da
Sindaco di Barra nell’anno del colera (1884), aveva dedicato tutti i
suoi sforzi alla lotta contro la malattia.
L’imperialismo coloniale classico
(1870-1914)
170. Da quando hanno scoperto
l’esistenza di interi altri continenti oltre al loro, le classi
dirigenti dell’Europa (prima l’aristocrazia e poi la borghesia) si sono
mosse, nei loro confronti, secondo una logica di conquista e di
sfruttamento.
“Dai servi della gleba del
Medioevo uscirono i borghigiani delle prime città; da questi borghigiani
ebbero sviluppo i primi elementi della borghesia.
La scoperta dell’America e la
circum-navigazione dell’Africa offrirono un nuovo terreno alla nascente
borghesia.
Il mercato delle Indie
orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, lo scambio con
le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in generale,
diedero un impulso prima di allora sconosciuto al commercio, alla
navigazione, all’industria, e in pari tempo favorirono il rapido
sviluppo dell’elemento rivoluzionario (borghese) in seno alla
società feudale che s’andava sfasciando”
.
171. Il “nuovo” continente,
raggiunto da Cristoforo Colombo nel 1492, fu rapidamente spartito fra
Spagnoli e Portoghesi, ognuno dei quali si considerò padrone di un
“pezzo” d’America, a tutto danno dei popoli indigeni, che furono ridotti
in schiavitù o semplicemente massacrati, in uno dei più grandi genocìdi
che la storia umana ricordi.
Ne era ben consapevole già il
nostro grande poeta Ugo Foscolo (1778-1827): “Oh, quanto fumo di umani
roghi ingombrò il cielo della America! Oh, quanto sangue di innumerabili
popoli, che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’oceano
portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! Ma quel sangue sarà
un dì vendicato e si rovescerà sui figli degli Europei!”
.
172. Lo stesso accadde man mano
che gli europei avanzavano nella loro scoperta dell’Africa, dell’Asia,
dell’Oceania ...
Ai massacri, allo sfruttamento
sistematico delle risorse naturali, si aggiunse il triste fenomeno del
commercio degli schiavi …
Agli imperi coloniali spagnolo
e portoghese, si aggiunsero quelli di Francia, Olanda, Inghilterra ...
Infine, dopo aspre contese fra
le varie nazioni europee, l’Inghilterra pervenne ad essere la più grande
potenza coloniale del mondo e la sua flotta rimase “regina degli oceani”
per un lungo periodo (1763-1870).
173. A partire, però,
all’incirca dal 1870, la supremazia britannica venne rimessa in
discussione e ricominciò, sulle nuove basi economiche della seconda
rivoluzione industriale, la competizione fra i paesi europei,
e con l’aggiunta stavolta degli USA e del Giappone, nella spartizione
dei “territori d’oltremare”.
Gli anni dal 1870 al 1914
costituiscono pertanto il periodo dell’imperialismo coloniale classico,
che sfocerà nella grande tragedia della Prima guerra mondiale
(1914-1918).
L’imperialismo coloniale classico:
definizione
174. E’ evidente che può essere
chiamato “imperialismo”, in modo del tutto generale, qualsiasi tendenza
di un popolo o di uno Stato a conquistare, o comunque egemonizzare,
altri popoli e Stati; in tal senso, furono “imperialisti” Alessandro
Magno, gli antichi Romani, e tanti altri, nelle più svariate epoche
storiche.
L’imperialismo coloniale
classico, come tutti gli altri imperialismi, ha però ovviamente la sua
specifica definizione e le sue caratteristiche distintive.
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La miglior discepola di Marx, l'ebrea polacca Rosa
Luxemburg (1871-1919) |
La base economica
175. Questo
imperialismo, dunque, può essere definito come una determinata fase
dello sviluppo storico del capitalismo: è il capitalismo giunto
alla sua fase monopolistica, sulla base tecnologica della seconda
rivoluzione industriale.
Più dettagliatamente, si può
descrivere questa fase dello sviluppo storico del capitalismo
attraverso cinque caratteristiche essenziali:
-
la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto
un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopòli, con
funzione decisiva nella vita economica;
-
la fusione del capitale bancario col capitale industriale ed il
formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di una
oligarchia finanziaria;
-
la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in
confronto all’esportazione di merci;
-
il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di
capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
-
la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze
capitalistiche.
176. Il
capitalismo, nella sua fase imperialistica, conduce inevitabilmente
alla guerra. Questo perché le leggi economiche del capitalismo
monopolistico rendono l’espansione (nuovi mercati, nuovi campi
d’investimento, nuove sfere d’influenza) una necessità sempre più
pressante; ma, in un mondo già diviso tra le grandi potenze, tale
espansione può essere ottenuta solo tentando una re-divisione del
mondo, il che vuol dire guerra
.
E’ questa la base economica
che spiega i conflitti di tutto questo periodo, che culmineranno, come
già detto, con la Prima guerra mondiale.
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Rosa Luxemburg |
L’ideologia
177. Naturalmente, sopra questa
struttura economica, si innalzò poi la relativa
super-struttura politica ed ideologica, come si può vedere
esemplificato nel seguente passo di un discorso di un celebre uomo
politico statunitense di quegli anni, Albert Jeremiah Beveridge
(1862-1927):
“Le fabbriche americane
producono più di quanto il popolo americano possa utilizzare. Il
suolo americano produce più di quanto il popolo possa consumare.
Il destino ha tracciato
la nostra politica: il commercio mondiale deve essere e sarà
nostro. E noi ce lo procureremo, seguendo la via indicataci dalla nostra
madre (l’Inghilterra).
Insedieremo stabilimenti
commerciali su tutta la superficie del globo, come centri di
distribuzione dei prodotti americani. Copriremo gli oceani con le nostre
flotte mercantili. Costruiremo una Marina su misura della nostra
grandezza.
Dai nostri stabilimenti
commerciali si svilupperanno, all’ombra delle nostre bandiere, grandi
colonie che trafficheranno con noi.
Le nostre istituzioni
seguiranno le nostre bandiere sulle ali del commercio.
E la legge americana, l’ordine
americano, la civiltà americana, la bandiera americana, questi
ausiliari di Dio, saranno stabiliti su sponde rimaste finora in
preda alla violenza e all’oscurantismo e le renderanno, per il futuro,
rigogliose e illuminate”.
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Albert Jeremiah Beveridge |
178. Come si vede, le necessità
di espansione del capitalismo monopolistico vengono presentate, in modo
demagogico, come necessità del popolo e come destino.
L’asservimento di altre terre e
di altri popoli viene presentato come un’opera di civilizzazione,
per rendere rigogliose ed illuminate le regioni arretrate,
sconfiggendo la violenza (!) ed apportando la legge e l’ordine
dei dominatori.
La civiltà e la
bandiera dei più forti vengono definiti addirittura
ausiliari di Dio, cioè gli strumenti dei quali Dio stesso si serve
per portare “il bene” nel mondo.
L’imperialismo E’ la guerra
179. Naturalmente, se nel brano
sopra riportato si sostituisse l’aggettivo americano con
inglese o tedesco o francese o giapponese si
otterrebbe, con poche varianti, quello che dicevano allora i principali
esponenti politici di tutte le nazioni.
Da queste premesse, economiche
e culturali, cos’altro poteva seguire se non una “grande” guerra
mondiale?
180. In definitiva, si può dire
che la classe borghese, pervenuta ed ormai consolidata al potere
in gran parte degli Stati europei (oltre che negli Stati Uniti
d’America), comincia in questo periodo ad abbandonare, anche
formalmente, quei nobili ideali di liberté-egalité-fraternité in
nome dei quali aveva compiuto la sua rivoluzione e per i quali erano
morti i suoi uomini migliori, e ad alimentarsi, sempre più, di antichi
miti, intellettualmente irrazionali e moralmente infami,
come quello della “naturale superiorità” di una razza sulle altre (con
relativa necessità di apportare ad esse la propria “civiltà” e la
propria “religione”), quello dell’ “ineluttabile destino” (il “fato” o
la divinità) che guiderebbe l’espansione aggressiva, e così via …
Miti antichi, si è detto, ma
che troveranno poi nel Novecento la loro più estrema e conseguente
realizzazione, nell’ideologia e nella pratica del nazismo.
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Rosa Luxemburg |
La grande
emigrazione europea
181. Altro fenomeno,
organicamente legato a questa nuova fase di sviluppo storico mondiale
del capitalismo, fu l’emigrazione di imponenti masse umane
dall’Europa verso il continente americano, in numero mai visto prima.
182. Il fenomeno si presentò,
all’inizio, su scala limitata (da un paese europeo all’altro) ed in
forma stagionale, ma assunse dimensioni planetarie nella seconda metà
dell’Ottocento.
Basti dire che la popolazione
degli USA, che era già cresciuta da 5 a 23 milioni di abitanti nel
periodo 1800-1850, aumentò ancora (da 23 a 100 milioni!) nel periodo
1850-1914. In misura minore, ma egualmente imponente, aumentò quella di
vari paesi dell’America Latina (Argentina, Brasile, etc.).
183. Gli Italiani furono
preceduti, nell’emigrazione, da Irlandesi, Inglesi, Tedeschi e
Scandinavi, che dal 1840 al 1890 si riversarono in massa nelle Americhe.
Mentre però, verso la fine del
secolo, l’emigrazione da questi paesi andò progressivamente esaurendosi,
quella italiana assunse proporzioni sempre più gigantesche negli anni
fra il 1880 e la Prima guerra mondiale (1914).
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Emigranti |
“Partètteno pe’ mare, erano sciumme”
184. “Partirono per mare, ed
erano fiumi”. Il numero di italiani emigrati si stima in circa 3
milioni, fra il 1880 ed il 1900, e circa 9 milioni, fra il 1900 ed il
1914: in tutto, quindi, circa 12 milioni di persone, di cui circa
l’80% meridionali. Nel 1910, New York divenne la quarta città
italiana, dopo Roma, Milano e Napoli, per numero di abitanti.
Essendosi ormai esaurita negli
USA, verso la fine del secolo, la “corsa verso il west” (ovvero,
l’occupazione, da parte dei bianchi, delle terre appartenute ai nativi
d’America, massacrati o confinati nelle riserve), gli italiani dovettero
fermarsi, in prevalenza, nelle città della costa orientale
(Boston, Filadelfia, etc.) e parteciparono, nel bene e nel male,
soprattutto alla edificazione della civiltà urbana degli Stati
Uniti.
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Emigranti |
La Seconda Internazionale (1889-1914) –
Il 1° maggio
185. Ma … l’impetuoso sviluppo,
su scala mondiale, del capitalismo industriale recò necessariamente con
sé, come sua inseparabile ombra, il correlativo sviluppo del movimento
operaio.
Cresciuti di numero e
con una consapevolezza parimenti crescente della propria identità
di classe e del proprio ruolo nella società, gli operai non tardarono a
riprendere il filo, spezzàtosi nel 1876 con lo scioglimento della “Prima
Internazionale”, della loro autonoma organizzazione
[36], dando vita (ufficialmente, nel 1889, a Parigi)
alla “Seconda Internazionale” che, con un ufficio permanente a
Bruxelles, raggruppava i partiti di ispirazione socialista nel frattempo
sorti ed impetuosamente sviluppatisi nei vari paesi europei ed
americani.
A simbolizzare questa rinnovata
coscienza unitaria del movimento dei lavoratori, nel corso del congresso
di Parigi dal quale sorse la “Seconda Internazionale”, fu anche deciso
di istituire una “Giornata internazionale dei lavoratori”, da celebrarsi
il 1° maggio di ogni anno
[37], a partire dal 1890.
186. I principali
obiettivi strategici indicati dalla “Seconda Internazionale”, e che
furono poi raggiunti nei vari paesi, con diversi tempi e vicissitudini,
furono: la riduzione della giornata lavorativa ad 8 ore; l’assicurazione
generale contro gli infortuni sul lavoro; il diritto di voto per tutti i
cittadini.
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Il documento istitutivo del Primo Maggio |
187. Assai acceso, nell’ambito
della “Seconda Internazionale”, fu il dibattito circa il rapporto
che doveva esistere tra lo “scopo finale” del movimento dei
lavoratori (e cioè il superamento della società capitalistica) e le
“riforme parziali” che si potevano conseguire anche prima del
raggiungimento di tale “scopo finale”.
Il dibattito diede vita, con
una variegata serie di sfumature intermedie, a due posizioni
fondamentali:
-
quella “riformista” (o “revisionista”), teorizzata da Eduard Bernstein
[38], secondo la quale “il movimento è tutto, lo scopo è
nulla”, per cui si deve tendere ad ottenere quanti più “miglioramenti”
possibili all’interno della società capitalistica, senza porsi più, di
fatto, il problema del suo abbattimento, e quindi collaborando
indefinitamente con i governi espressi dalla classe borghese dominante;
-
quella “rivoluzionaria”, secondo la quale è illusorio pensare che
possano ottenersi veri “miglioramenti” sostanziali per i lavoratori
finché esiste il “regime economico del plusvalore”, ed inoltre non ha
senso parlare di collaborazione fra due classi che rimangono
però, indefinitamente, l’una sempre egèmone e l’altra sempre sottoposta;
bisogna quindi affrettare il momento della crisi rivoluzionaria per
l’abbattimento del sistema borghese e la costruzione di una società
senza dis-uguaglianze di classe.
188. Il ruolo-guida nella
“Seconda Internazionale” fu svolto dal Partito social-democratico
tedesco, che era il più numeroso e meglio organizzato d’Europa.
In Italia, la fondazione del
Partito socialista dei lavoratori, aderente alla “Seconda
Internazionale”, si ebbe nel giugno del 1892, con il congresso di
Genova, come meglio diremo più ampiamente a suo luogo.
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Il Primo Maggio 1890 a Parigi |
La “Rerum novarum” di papa Leone XIII (1891)
189. La vastità e gravità della
“questione sociale”, creatasi al tempo della seconda rivoluzione
industriale, indusse anche la Chiesa cattolica a prendere ufficialmente
posizione, con la enciclica “Rerum novarum”
[39] pubblicata dal papa Leone XIII (1878-1903)
il 15 maggio del 1891.
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Papa Leone XIII |
190. Un successore di Leone
XIII, il papa Giovanni XXIII (1959-1963), così riassume il
contenuto ed il contesto storico di quel documento:
“Leone XIII parlò in anni di
radicali trasformazioni, di accesi contrasti e di acerbe ribellioni …
Come è noto, allora la concezione del mondo economico più diffusa e
maggiormente tradotta nella realtà era una concezione naturalistica, che
negava ogni rapporto tra morale ed economia.
Motivo unico dell’operare
economico, si affermava, è il tornaconto individuale. Legge suprema
regolatrice dei rapporti tra gli operatori economici è una libera
concorrenza senza alcun limite. Interessi dei capitali, prezzi delle
merci e dei servizi, profitti e salari, sono determinati puramente e
meccanicamente dalle leggi del mercato. Lo stato deve astenersi da ogni
intervento in campo economico. Le associazioni sindacali, a seconda dei
paesi, o vietate o tollerate o considerate come il diritto privato.
In un mondo economico così
concepito, la legge del più forte trovava piena giustificazione
sul piano teorico e dominava sul piano dei rapporti concreti tra gli
uomini.
Ne risultava così
un ordine economico radicalmente sconvolto. Mentre ingentissime
ricchezze si accumulavano nelle mani di pochi, le classi lavoratrici
venivano a trovarsi in condizioni di crescente disagio. Salari
insufficienti o di fame, logoranti le condizioni di lavoro e senza alcun
riguardo alla sanità fisica, al costume morale e alla fede religiosa.
Inumane soprattutto le condizioni di lavoro a cui spesso erano
sottoposti i fanciulli e le donne. Sempre incombente lo spettro della
disoccupazione. Soggetta a processo di disintegrazione la famiglia.
Di conseguenza,
profonda insoddisfazione tra le classi lavoratrici, nelle quali
serpeggiava e si rafforzava lo spirito di protesta e di ribellione …
191. In quel frangente … mentre
taluni osavano accusare la Chiesa cattolica quasi che, di fronte alla
questione sociale, si limitasse a predicare la rassegnazione ai
poveri e ad esortare i ricchi alla generosità, Leone XIII non esitò
a proclamare e a difendere i legittimi diritti dell’operaio”
.
I princìpi basilari
“secondo i quali deve ricomporsi il settore economico-sociale dell’umana
convivenza” sono, per la “Rerum novarum”, i seguenti:
-
“Il lavoro
… deve essere valutato e trattato non già alla stregua di una merce,
ma come espressione della persona umana. Per la grande maggioranza
degli uomini, il lavoro è l’unica fonte da cui si traggono i mezzi
di sussistenza e perciò la sua remunerazione non può essere
abbandonata al gioco meccanico delle leggi del mercato; deve invece
essere determinata secondo giustizia ed equità, che altrimenti
rimarrebbero profondamente lese, fosse pure stipulato liberamente da
ambedue le parti il contratto di lavoro.
-
La proprietà
privata,
anche dei beni strumentali, è un diritto naturale che lo Stato non
può sopprimere. Ad essa è però intrinseca una funzione sociale,
e perciò è un diritto che va esercitato a vantaggio proprio e a bene
degli altri.
-
Lo Stato,
la cui ragion d’essere è l’attuazione del bene comune nell’ordine
temporale, non può rimanere assente dal mondo economico. Deve essere
presente per promuovervi opportunamente la produzione di una
sufficiente quantità di beni materiali… e per tutelare i diritti di
tutti i cittadini, soprattutto dei più deboli, quali sono gli
operai, le donne, i fanciulli. E’ pure suo compito indeclinabile
quello di contribuire attivamente al miglioramento delle condizioni
di vita degli operai. E’ inoltre dovere dello Stato procurare che i
rapporti di lavoro siano regolati secondo giustizia ed equità, e che
negli ambienti di lavoro non sia lesa, nel corpo e nello spirito, la
dignità della persona umana…
-
Ai lavoratori
… va riconosciuto come naturale il diritto di dar vita ad
associazioni, o di soli operai o miste di operai e padroni, come
pure il diritto di conferire ad esse la struttura organizzativa che
ritengono più idonea …
-
Operai ed
imprenditori
devono regolare i loro rapporti ispirandosi al principio della
solidarietà umana e della fratellanza cristiana, giacché tanto la
concorrenza in senso liberistico, quanto la lotta di classe
in senso marxistico sono contro natura e contrarie alla
concezione cristiana della vita”
.
Gli effetti della “Rerum novarum”
192. L’enciclica di Leone XIII,
se da un lato sintetizzò e diede ufficiale approvazione al lavoro
teorico e pratico fino ad allora svolto dai cattolici in questo campo,
dall’altro produsse una più attenta sensibilità, nell’insieme del
clero e dei fedeli, verso la specificità della moderna “questione
sociale”, che era cosa diversa dalla “povertà” pur sempre esistente
nelle precedenti società, antica e feudale.
Mentre, per il passato si
trattava infatti, nell’ambito di un ordine sociale ritenuto comunque
im-modificabile, di esortare solo alla conversione individuale,
cercando in tal modo di introdurre elementi di solidarietà umana
all’interno dell’ordine sociale dato, nel presente si trattava invece
chiaramente di impegnarsi anche per modifiche strutturali
all’organizzazione economica, giuridica e politica della società, quale
era uscita dalle rivoluzioni borghesi, ponendosi così il problema di
ricercare, ed eventualmente rimuovere, anche le cause della
povertà.
193. Di fatto, l’enciclica
svolse il ruolo di incoraggiare la nascita di organizzazioni sociali
(società operaie di mutuo soccorso, casse rurali, cooperative, banche
popolari) e poi, sempre più, anche di sindacati e partiti, di
ispirazione cattolica, che si ponevano l’obiettivo di realizzare una
società in cui vi fosse maggiore giustizia sociale, attraverso una
“terza via” alternativa sia al liberalismo sia al socialismo.
194. Relativamente all’impressione
che l’enciclica produsse in quel momento, soprattutto nel clero, basti
citare quello che dice il curato di Torcy, in Francia, ad un suo più
giovane confratello, qualche anno dopo:
“La famosa enciclica di Leone
XIII, Rerum novarum!
Voi la leggete tranquillamente,
coll’orlo delle ciglia, come una qualunque pastorale di Quaresima. Alla
sua epoca, piccolo mio, ci è parso di sentirci tremare la terra sotto i
piedi. Quale entusiasmo!
Ero, in quel momento, curato di
Norenfontes, in pieno paese di miniere. Quest’idea così semplice, che il
lavoro non è una merce, sottoposta alla legge della domanda e
dell’offerta, che non si può speculare sui salari, sulla vita degli
uomini, come sul grano, lo zucchero o il caffé, metteva sottosopra le
coscienze, lo credi?
Per averla spiegata in cattedra
alla mia buona gente, sono passato per un socialista e i contadini
benpensanti m’han fatto mandare a Montreuil, in disgrazia. D’essere in
disgrazia me ne infischiavo un bel po’, rènditene conto. Ma sul
momento…”
[42].
Le prime imprese coloniali dell’Italia di
Depretis (1882-1887)
195. Anche la
ventenne Italia ebbe la sua “febbre di intraprese coloniali” e partecipò
alla competizione imperialistica.
Nel marzo 1882, assai poco
eroicamente, il governo italiano (Depretis) comprò con soldi
pubblici la baia di Assab (sul Mar Rosso, in Eritrea) dalla Società
privata di navigazione Rubattino, che l’aveva a sua volta comprata nel
1869 da un Sultano locale: e così, nel giugno dello stesso anno 1882,
quel porto divenne la prima colonia italiana.
Il 17 gennaio del 1885 (subito
dopo l’epidemia di colera!), un battaglione di bersaglieri salpò da
Napoli, fra grandi manifestazioni di entusiasmo “patriottico”, al fine
di conquistare Massàua, altra cittadina sulla costa eritrea, e poi
procedere nella conquista delle zone interne.
196. La conquista di Massàua
avvenne in sole tre settimane, ma il resto dell’operazione si rivelò ben
più laborioso del previsto: il popolo eritreo oppose una ferma
resistenza, e il 26 gennaio del 1887 il ras Alùla sconfisse gli
italiani nella battaglia di Dògali.
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Il Ras Alula Engida (1827-1897) eroe della resistenza
eritrea |
197. La sconfitta di Dògali
suscitò in Italia aspre polemiche contro il governo Depretis e fieri
propositi di rivalsa, alimentati nell’opinione pubblica dai circoli
militaristi, che godevano il favore del re Umberto I e della regina
Margherita, e dai gruppi economici che traevano profitto dalle
imprese africane dell’Italia.
Pochi mesi dopo “la disfatta di
Dògali”, venne a morte il Depretis (luglio 1887) e salì al potere il
siciliano Francesco Crispi.
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La battaglia di Dogali |
Vedi
n°12 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1600”.
Vedi
n°203 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.
Vedi
la classica analisi condotta in: Vladimir Ilijc Ulianov (Lenin)
- “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” (1917) - Ed.
Riuniti, 1974. Vedi anche lo scritto della “migliore discepola
di Marx”, l’ebrea polacca Rosa Luxemburg (1871-1919):
“L’accumulazione del capitale” (1913) - Ed. Einaudi, 1968.