Le mille città del Sud

 


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Campania

 

Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.4b Il Periodo Liberale (1896-1900)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

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Don Raffaele Guida discepolo del Verolino

92. “Nel terminare questo piccolo sèrto di funebre elogio, mi rimane a dare una mia cordiale testimonianza pel mio Verolino, cotanto da me amato e stimato. Ascoltatemi...

Se, fin dall’anno 1850, allorché io contavo non più che sette anni di mia fanciullesca età, un angelo m’avesse fatto vedere un quadro ove era dipinto tutta la vita del sacerdote Verolino fino al giorno della sua sepoltura; e m’avesse pure allora fatto vedere, delineato su quel quadro, un fanciullo di sette anni, che doveva il Verolino a questo fanciullo instillare nel suo cuore tali dolci sentimenti che doveva in lui risvegliare il desiderio per la carriera ecclesiastica; che il Verolino doveva la sera nella Seròtina Cappella istruirlo nella dottrina cristiana, guidarlo negli anni della sua giovinezza e, fatto sacerdote, doveva essere il coadiutore per la sua chiesa, pel suo ritiro, per le opere da lui fondate; anzi, questo fanciullo un giorno doveva poi riceverne l’ultima sua confessione, comunicarlo, estremarlo, assisterlo, colle proprie mani dopo la morte vestirlo delle sacerdotali vesti e fin’anche benedire la sua salma sulla tomba del sepolcro …  Io al certo curioso avrei detto all’angelo:- Angelo del Signore, dimmi, di grazia, chi sarà questo fanciullo che sì da vicino starà ai fianchi del Verolino e fin dopo la tomba lo benedirà?

E l’angelo mi avesse risposto:- Sei tu stesso, che un giorno ne tesserai il sèrto di fiori del funebre elogio.

93. Ebbene, o Signori, io vel confesso, che se ciò realmente mi fosse avvenuto all’età di sette anni, non avrei avuto ritegno di dire:- Angelo del Signore, forse tu mi lusinga, tu mi deludi, come ciò è possibile? Questo sarà un sogno?

Ma l’angelo del Signore, sorridendomi, additando colla sua mano il Cielo, mi disse:- Tutto si avvererà, perché così è segnato nel Cielo. E mi sparve dagli occhi” [40].

Don Raffaele Guida successore del Verolino

94. “Chiamato al laborioso ufficio della carica di Superiore del Ritiro delle religiose orfane terziarie francescane dal nostro Eminentissimo Cardinale Sanfelice nel febbraio 1890, dopo la morte avvenuta del zelante fondatore Reverendo Don Raffaele Verolino, morto in Barra il 22 gennaio dello stesso anno … con tutto piacere del mio animo mi subarcai al laborioso ufficio, onde procurare quel maggiore possibile vantaggio alle povere orfane dell’Immacolato Cuore di Maria SS. e di S. Francesco … desiderando a tutt’uomo portare a maggiore perfezione l’opera caritativa del Verolino, che fondata avea.

E perché al passar degli anni non abbia a perdersi la memoria dei primi fatti di questa religiosa famiglia, cercai anche compendiare in un piccolo quadro un Cenno storico

95. Circa due anni prima della sua morte avendomi fatto dichiarare, da Monsignor Vicario di Napoli, vice-superiore del Ritiro, dove fui anche confessore per molti anni, dopo la sua morte il Cardinale Sanfelice mi nominava Superiore ed Amministratore del Ritiro, essendone Egli (il cardinale) l’erede testamentario.

96. Intrapresa nel nome del Signore la direzione del Ritiro, mi avvidi che molte cose dovevano perfezionarsi, sia nella parte materiale, sia nell’ordinamento generale del Ritiro, poiché il Verolino, attesa la grave infermità, fu impedito al perfezionamento di queste cose.

Soddisfatti i debiti a carico del Ritiro, riordinate ed abbellite le camerate, e fatto quanto occorresse per l’interno ed esterno della fabbrica, posi l’impegno a stabilire un ordinato Regolamento per la Comunità.

97. Ora, i pochi articoli di Regolamento dettati dal Verolino erano insufficienti ad ottenere il perfezionamento della Comunità religiosa, avendo l’opera presa un andamento molto differente dalla sua origine. Quindi, credetti di formare un completo Regolamento in cui fosse sanzionato tutto il nuovo andamento da me stabilito, e non venisse a mutarsi per l’avvenire con pregiudizio dell’opera ... Tale Regola la mettiamo sotto gli auspici dell’Immacolata Vergine Maria, che è la Madre speciale delle povere fanciulle Orfane”[41]

98. “In calce della Regola”, il Guida conservò, fra l’altro, la lettera autografa con la quale il Verolino, “tutto confidente nella Divina Provvidenza, nel novembre 1867 avvanzò supplica al cardinale Sisto Riario-Sforza” per essere autorizzato alla fondazione del Ritiro, e che costituisce uno dei pochi scritti di pugno del Verolino giunti fino a noi.

Altre opere di Don Raffaele Guida

99. Si segnala inoltre che lo stesso Don Raffaele Guida compose e fece stampare, nel 1895, una “Guida spirituale” per coloro che frequentavano la chiesa del Ritiro, contenente “tutte le pie pratiche religiose da farsi in ciascun giorno dell’anno, coll’aggiunta delle meditazioni ed evangeli domenicali”. 

Nella compilazione di questa “Guida spirituale”, egli si avvalse largamente anche degli opuscoli e libri di meditazione e di devozione, allora molto diffusi in Italia e all’estero, scritti dalla concittadina Barrese Suor Maria Luisa di Gesù (1799-1875), al secolo Maria Carmela Ascione, fondatrice delle Suore dette “della Stella mattutina[42].  

100. Don Raffaele Guida scrisse anche un opuscoletto sulla storia di Barra ed in particolare della chiesa di S. Anna.

E’ assai probabile, infine, che egli sia anche l’autore, volutamente per umiltà rimasto anonimo, dei versi dell’Inno a S. Anna del 1896, la cui musica è invece sicuramente del maestro Raffaele Pàparo.                  

La cappella “Guida” nel cimitero di Barra

101. Nella cappella della famiglia Guida nel cimitero di Barra, purtroppo attualmente in stato di deplorevole abbandono come tutte le altre cappelle storiche del cimitero, si trovano, l’una di fronte all’altra, le nicchie sepolcrali di Don Raffaele Guida e di sua sorella Annamaria (1848-1907), recanti le seguenti iscrizioni:

I. M. I. A.

RAFFAELE GUIDA

DOTT.re IN S.T.  SUP.re PARROCO

NELLA VIGNA DEL SIGNORE OPERAIO INFATICABILE

COL CATECHISMO COLLA PREDICAZIONE COLLE SACRE FUNZIONI

DI TUTTI ISPECIE DEI PARGOLI

FU PADRE PASTORE SPRONO CONTINUO

QUAL SOLDATO SUL CAMPO DI BATTAGLIA

COLSE LA PALMA NELL’ 8 GIUGNO  1900

DOPO  56 ANNI DI VITA

 

D. O. M.

QUI ASPETTA LA CORONA DELLE VERGINI

LA SORELLA DEL PARROCO GUIDA

ANNAMARIA

MORTA A 59 ANNI NEL DI’ 5 FEBBRAIO 1907

COME UN SOL CUORE EBBERO ENTRAMBI IN VITA

COSI’ UN MEDESIMO ALTARE LI PROTEGGE IN MORTE

OVE IL SANTO SACRIFICIO PERENNEMENTE INVOCATO

L’ACCOMPAGNI NEL GAUDIO DEI SANTI

Le classi sociali a Napoli dopo la conquista sabàuda (1860-1900)

102. In questa sezione del nostro lavoro dedicata agli anni finali del secolo XIX, sembra opportuno dare uno sguardo d’insieme alla situazione sociale e culturale che la città di Napoli consegnò al successivo secolo XX, anche per i riflessi che questa situazione ebbe sulla storia di Barra. 

103. Dopo la conquista sabàuda, nella ex-capitale del Regno borbonico, l’antica aristocrazia, che aveva avuto il suo momento di massimo fulgore nell’aureo Settecento, iniziava ormai a percorrere l’ultimo tratto della sua parabola discendente, nostalgicamente borbonica o opportunisticamente liberale.

104. Le principali classi sociali cittadine erano adesso: il ceto medio borghese (= piccola borghesia) e la sempr’ingente mole della plebe urbana.

Il ceto medio borghese

105. La caratteristica strutturale del ceto medio napoletano, o piccola borghesia che dir si voglia, era quella di essere una borghesia prevalentemente non-industriale, composta cioè la più parte da professionisti, commercianti, impiegati, pubblici funzionari civili e militari, “padroni di case”, etc.

L’industria pre-esistente, che si era formata sull’onda della prima rivoluzione industriale nel Regno borbonico, fu quasi completamente smantellata nel nuovo regime liberale “italiano” per consentire lo sviluppo dell’industria nel Nord [43] e bisognerà aspettare il periodo giolittiano (1900-1915) e la Legge speciale per Napoli del 1904 per poter osservare una, pur precaria, rinascita dell’attività industriale.

106. Il ceto medio borghese napoletano era perciò quello che abbiamo visto:

-      sorgere nel periodo del Viceregno spagnolo[44] e austriaco[45];

-      esprimere il suo primo vero “uomo politico” nella figura del vecchio prete-giurista Giulio Genoino, che tentò, a modo suo, di “cavalcare” la massa plebea al tempo della sollevazione di Masaniello [46], senza peraltro riuscirci; 

-      vivere la sua, non sempre gloriosa, epopea rivoluzionaria [47] nelle quattro tappe del 1799, del 1820-21, del 1848 e del 1860;

-      e pervenire, infine, alla condizione di borghesia coloniale subalterna che abbiamo descritto a suo luogo [48].

Un’icona piccolo-borghese: Anastasia Finizio

107. Il lettore che volesse, per così dire, “vedere direttamente” come viveva e quale era la mentalità di questo ceto medio borghese napoletano, potrebbe leggere, ad esempio, il racconto intitolato “Interno familiare” nel celebre libro di Anna Maria Ortese (1914-1998) “Il mare non bagna Napoli”.

Il libro della Ortese è, in effetti, del 1953, ma quell’interno familiare della piccola borghesia napoletana è rimasto sempre lo stesso, almeno per tutto il periodo liberale cioè dall’unità d’Italia (1860) alla Prima guerra mondiale (1915), ed anche oltre.

108. “Anastasia Finizio, la figlia maggiore di Angelina Finizio e del fu Ernesto, ch’era stato uno dei primi parrucchieri di Chiaia … aveva un negozio di maglieria là dove suo padre aveva pettinato le più esigenti testine di Napoli e, con quello, portava avanti la casa: madre, zia, una sorella, due fratelli uno dei quali stava per ammogliarsi, e salvo il piacere di vestirsi come una donna di grande città, non conosceva e non desiderava altro”.

Don Giulio Genoino (1567 - 1648)

109. O forse sì, qualcosa desiderava: “Alla soglia dei 40 anni” … aveva una vita tutta “entrate ed uscite”, tutta “responsabilità, contabilità e lavoro” per consentirsi un discreto benessere … ma “un cuore delicato come le corde di un violino, che a sfiorarlo suonava” … e per tutta la vita aveva “tenuto il pensiero” (ma solo il pensiero) per Antonio Laurano, un bel giovane “coi capelli castani e la pelle scura, e denti fitti e bianchissimi” e sognava “tre stanze e una terrazza, con vista su S. Martino … qui vicino, così vengo a trovare mammà ... stendere i panni e cantare … e servirlo, servirlo sempre, come una vera donna serve un uomo … Sì, nient’altro”.

La plebe urbana

110. Mancando l’industria, mancava ovviamente anche una classe operaia, ed una lotta, o magari una collaborazione, fra le classi, in forma cosciente ed organizzata.

Vi era invece, continuamente debordante, la sterminata moltitudine della plebe urbana, la cui caratteristica strutturale era quella di non avere una fonte di reddito più o meno definita e costante.

Dall’inizio del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, “un’analisi sommaria porta a valutare a più della metà del totale la parte della popolazione napoletana che non aveva alcuna stabilità economica”[49].

“In questa città, dove tanta gente non ha niente … il popolo è ben più popolo che altrove” (Montesquieu).

In ogni città europea, vi erano poveri e diseredati; ed in quelle più grandi, come Parigi o Londra, ve n’era una massa ingente; ma la plebe di Napoli era un unicum.

Sue origini

111. Anch’essa, come il ceto medio borghese, era sorta come classe nel periodo del Viceregno spagnolo, già agli inizi del Cinquecento [50]:

“Con la progressiva disgregazione delle strutture feudali nelle provincie, processioni di mendicanti ed eserciti di cafòni premono alle porte della città … per entrare in questa tana sterminata … dove si viveva comunque male, ma almeno liberi dalle angherìe feudali e dove, per paura delle sommosse, le autorità cercavano almeno di non far mancare il pane per la nuda sopravvivenza.

Un popolo di straccioni invade le strade, occupa le piazze coi suoi volti tèrrei, le facce spesso butterate e ripugnanti, si accampa sui sagrati e rumoreggia alle porte dei conventi agitando stravaganti batterie di scodelle, ciotole e gamelle in cui raccogliere, e subito ingozzare, i beveroni dispensati dai frati alla campana di mezzogiorno e alle prime ore della notte …[51].

Sua vita ordinaria

112. In seguito, normalmente “stipata” a “se puzza’ ‘e famme” dentro la fitta griglia dei vicoli, dei suppòrtici e dei fòndaci, il suo modo di vita “ordinario” era contraddistinto da:

-      l’essere abbandonati a se stessi da qualsiasi autorità civile;

-      il sopravvivere alla giornata, grazie ad espedienti, a volte conformi, ma spesso non  conformi, alle regole morali e legali vigenti.

Sua vita extra-ordinaria

113. Le eruzioni del Vesuvio, le carestie e le pestilenze erano invece le circostanze “extra-ordinarie” che segnavano la sua storia, la quale dunque è complessivamente ben descritta dal celebre trittico: ’a famme, ‘a peste e ‘a carestìa

Circostanza “extra-ordinaria” era anche l’intervento della plebe sulla scena politica, che avveniva peraltro quasi unicamente in occasione delle “sommosse per fame”, come quella [52] che condusse alla morte dell’Eletto Staràce nel 1585, ancorché la vicenda della sollevazione di Masaniello [53] dimostri che essa era tuttavia capace, all’occasione, di mobilitarsi anche in una forma relativamente più cosciente ed organizzata.

Plebe e piccola borghesia

114. Certamente, però, la massa plebea si era sempre schierata in senso anti-borghese, in modo netto e chiaro, in ognuna delle quattro tappe dell’epopea rivoluzionaria liberale [54] e, nei suoi confronti, il nuovo ceto dominante nutriva quindi un sentimento complesso e contraddittorio, fatto di disprezzo, commiserazione e paura insieme. 

115. Dipingere una icona di questa plebe urbana dalle mille facce non è così semplice come per la piccola borghesia (vedi sopra, nn°107-109). La maschera di Pulcinella ne è stata, per secoli, la rappresentazione più efficace. Matilde Serao ci provò ne “Il ventre di Napoli” [55] e Salvatore Di Giacomo in “Fùnnaco verde”, ma la loro descrizione, per quanto commossamente partécipe, è pur sempre “dall’esterno”: è una icona della plebe, dipinta da piccolo-borghesi sentimentali e “maternalistici”, in definitiva superficiale.

116. A scrivere invece “dall’interno” l’epopea di questa classe è stato unicamente, o quasi, il grande Francesco Mastriani (1819-1891), che ne potrebbe essere considerato, gramscianamente, il vero “intellettuale organico” per quel periodo storico.

“S’intendevano l’un l’altro: egli aveva visitato l’ultimo tugurio e il popolo si riconosceva in lui” (Giovanni Bovio).

“Ebbe come lettori tutta Napoli, all’infuori della gente letterata” (Benedetto Croce).

Targa sulla facciata del Teatro S. Ferdinando

Francesco Mastriani (1819-1891)

117. Non a caso, “alla sua morte, le Associazioni Operaie Indipendenti di Napoli accompagnarono in massa il feretro dello scrittore, dopo aver affisso un manifesto per le vie della città in cui si leggeva:

Noi renderemo, solo questo è in nostro potere, ossequio postumo a chi, come noi, soffrì dolori inenarrabili, comuni ad una gente che aspetta la redenzione sua nel mondo; a chi non nascose, della plebe, le virtù onorate.

118. Ed in città girava, non si sa da chi composto, una sorta di necrologio in rima:

Ei punse i ricchi e i nobili

che adorano un sol Dio: il Dio dell’oro.

E che, sprezzando il popolo,

calpèstan dignità, fede, decòro.

Piangi, diletta Napoli:

il gran Maestro tuo, ahi, non è più!

Chi ti farà più frèmere,

chi ti sarà di sprone alla virtù?”[56]

Francesco Mastriani (1819-1891)

119. Il manifesto degli operai ed il necrologio in rima costituiscono, molto probabilmente, la migliore e più sintetica descrizione del pensiero, dell’opera, e della persona stessa di Francesco Mastriani.

Il pensiero di Mastriani

120. Egli non era “socialista”, come qualcuno scrisse dopo la sua morte[57] né avrebbe potuto esserlo, e la definizione di “trilogia socialista” data alle sue opere principali (“I Vermi”, “Le ombre” e “I misteri di Napoli”) certamente non è appropriata; e questo perché:

-      il partito socialista italiano nacque nel 1892 e quindi dopo la sua morte; né, d’altronde, risultano nei suoi romanzi riferimenti al pensiero anarchico, che pure, in quegli anni, andava diffondendosi a Napoli, con la presenza dello stesso Bakunin [58];

-      la sua concezione del mondo non era quella marxista o comunque di matrice hegeliana, ma l’equilibrato e sapiente umanesimo cristiano che aveva appreso, fin da ragazzo, sui libri del filosofo Pasquale Galluppi (vedi oltre, nn°135 e segg.);

-      la sua vera vocazione non era quella di politico, e nemmeno di scrittore fine a se stesso, bensì quella di Maestro, nel senso più nobile del termine: fratello, in questo, di quei maestri e maestre delle scuole elementari pubbliche che si andavano allora istituendo su più larga scala[59].

121. Non nutriva, nei confronti della plebe urbana, quel misto di paura, disprezzo e commiserazione che era tipico della piccola borghesia (vedi sopra, n°114); e ne condivise anzi, anche materialmente, le sofferenze e la precarietà economica: “come noi, soffrì dolori inenarrabili, comuni ad una gente che aspetta la redenzione sua nel mondo”.

“Il professore”, come tutti lo chiamavano, appariva alla gente del popolo “come il suo filosofo, educatore, consigliere e vìndice” (Benedetto Croce).

122. Il suo saggio umanesimo, cristiano e “galluppiano”, gli insegnava che nessun essere umano può mai essere, riduttivamente e semplicisticamente, “identificato” con la sua miseria e la sua ignoranza, anche se nessuno più di lui si rendeva conto della necessità di elevare culturalmente e moralmente il gran “corpaccio” della plebe urbana, affinché potesse sedersi, al pari degli altri, a quella mensa dei beni terrestri che Dio, Padre di tutti, per tutti ha apparecchiato.

L’opera di Mastriani

123. “Il povero onesto, la innocente figlia del popolo e il giovin signore” sono egualmente esposti agli “agguati che lor tendono incessantemente quelli che speculano su l’ozio, su la miseria e su l’ignoranza”.

Còmpito del “letterato” è quello di “farli frèmere per spronarli alla virtù”: non soltanto additare la zizzania (= i vizi) ma aiutare il grano (= le virtù) a crescere: questa è “opera santa, quali si vogliano i mezzi che a ciò s’impieghino” ...

124. Perciò egli, prima ancora di scrivere romanzi, si pose a scrivere opere teatrali, di più immediata fruizione per un pubblico prevalentemente di analfabeti; ed anche molti dei suoi romanzi furono poi, da lui stesso, adattati per la rappresentazione teatrale.

Per il resto, nel vicolo bastava comprare una sola copia del giornale e poi pregare qualcuno più “acculturato” di leggere la “puntata” del romanzo d’appendice di Mastriani al folto pubblico di uomini, donne, giovani, vecchi e bambini prontamente riunitosi.

Molte vicende tratte dai suoi romanzi venivano addirittura narrate dai “cantastorie”, con cartelloni illustrati ed immancabile colonna sonora di musica e canto.

125. Di lui, si contano in tutto 105 titoli di romanzi, una trentina dei quali da considerarsi inediti nel senso che, lui vivente, vennero pubblicati solo in appendice al giornale “Roma” e non in volume da alcun editore.

Bisogna considerare inoltre le opere teatrali, del genere comico e di quello drammatico, ed i numerosi articoli di giornale di vario tipo.

126. Per introdursi allo studio dell’opera di Francesco Mastriani, della quale è in atto una sistematica ed incontestabile rivalutazione, dopo la diminutio a lungo operata dalla critica[60], consigliamo allo studioso lettore di attingere ai lavori più recenti:

Ø  Cristiana Anna Addesso, Emilio e Rosario Mastriani - “Che somma sventura è nascere a Napoli!”, bio-bibliografia di Francesco Mastriani, con i “Cenni sulla vita e sugli scritti” (1891) tracciati da suo figlio Filippo, Ed. Aracne, 2012.

Ø  Anna Gertrude Pessina – “Francesco Mastriani: un escluso”, Ed. Pironti, Napoli, 2013.

Ø  Il bel sito curato attualmente in rete dai suoi discendenti diretti, i due cugini Emilio e Rosario Mastriani: www.francescomastriani.it i quali stanno anche curando, presso l’Editore Guida, la pubblicazione in volume dei romanzi di Mastriani finora pubblicati solo in appendice al “Roma”.

A tàvule, se cumbatte cu ‘a morte    

127. Mastriani aveva scelto per sé e per la sua famiglia il motto biblico, tratto dal libro dei Salmi: “Allontànati dal male e fa’ il bene; cerca la pace e persèguila” (Sal 34, 15). 

A questo motto, possiamo dire che cercò sempre di rimanere fedele, nella sua vita e nelle sue opere letterarie, mai cedendo alla disonestà e all’adulazione del potere di turno, nonostante il continuo tormento di dover provvedere alla sua famiglia in mezzo ad una “invincibile miseria”, secondo il detto napoletano: A tàvule, se cumbatte cu ‘a morte.

128. E subito dopo la sua morte, Matilde Serao scrisse: “Questo povero vecchio che si è spento oscuramente, carico di anni e di dolori, affranto da un duro e incessante lavoro che gli lesinava il pane, tormentato da una invincibile miseria, non soccorso dalla fredda speculazione giornalistica che lo ha tanto sfruttato, soccorso dalla segreta pietà di poche anime buone, questo martire della penna era, veramente, fra i più forti e più efficaci nostri romanzieri.

L'opera sua, formata da cento e più romanzi, appare grezza, disuguale, talvolta ingenua nella scarsezza delle risorse artistiche; e negli ultimi romanzi suoi è la fretta, lo stento, l'intima straziante pena di chi deve guadagnare, ogni giorno, quelle tre o quattro lire che gli davano: ma da tutta quanta l'opera sua, considerata insieme, emana una così fervida potenza d’invenzione che ha rari riscontri”[61].

Francesco Mastriani e Micco Spadàro

129. Che quella di Mastriani non sia grande letteratura, è possibile; che non si possa comunque classificare nelle abituali “caselle” della critica letteraria, è certo.

Il suo non è riduttivamente “romanzo d’appendice”, “basso (?) romanticismo” e nemmeno “realismo”, “naturalismo”, “verismo” o altri ismi come “meridionalismo” o i già citati “socialismo” o “anarchismo”.

130. Francesco Mastriani non è alcuna di queste cose ed è tutte queste cose insieme. Egli è, semplicemente, scrittore napoletano sui gèneris. E sui gèneris nel senso che può essere considerato l’equivalente letterario, per l’Ottocento, di ciò che sono, per il Seicento, le grandi tele di Micco Spadàro (Domenico Gargiulo, 1609-1675).

Micco Spadàro - Piazza Mercatello (attuale Piazza Dante) durante la peste del 1656

131. Le tele di Micco riescono a descrivere, fino al particolare individuale, la vita della imponente massa della plebe urbana, còlta specialmente in quelle che abbiamo chiamato le “circostanze extra-ordinarie” della sua storia, in particolare l’eruzione del Vesuvio del 1631, la sollevazione di Masaniello del 1647, la peste del 1656 ...

Mastriani invece compone, con “tutta quanta l'opera sua, considerata insieme”, il vasto affresco della vita di questa stessa classe sociale, vista però nelle “circostanze ordinarie” della sua storia (vedi sopra, nn°112-113).

132. Questo è anche il motivo per cui, ben più che per altri scrittori, la sua opera letteraria non può in alcun modo essere separata dalla sua stessa vita e da quella della classe sociale (la plebe urbana) di cui condivise le sofferenze quotidiane ma anche “le virtù onorate” e le speranze di “redenzione nel mondo”.  

La vita di Mastriani

133. Nacque il 23 novembre 1819, terzo dei 7 figli di Filippo e di Teresa Cava (Giuseppe, Ferdinando, Francesco, Giovanni, Raffaele, Marianna e Rachele) ma in famiglia c’erano anche Vincenzo e Gennaro, nati da una precedente unione di Teresa Cava con un Raffaele Giardullo.  

Il cugino Raffaele Mastriani

134. Un suo cugino (= figlio di Ferdinando, fratello di suo padre), a nome Raffaele Mastriani, fu uomo di vasta cultura, assai stimato nel Regno borbonico. Scrisse, infatti, un grande “Dizionario geografico-storico-civile del Regno delle Due Sicilie”, e addirittura tradusse in napoletano l’intera “Divina Commedia” di Dante, con il titolo “Dante sbrugliàto, schiarùto, arredùtto in prosa con la lengua napolitana e le chiacchiere di tutti li cummentature … pe’ fa’ scénnere la cunuscenza de stu bellissimo libro a lu popolo vascio”.

Questo cugino lo aiutò in varie circostanze, anche ospitandolo in casa sua, e divenne altresì suo suocero, in quanto il Nostro sposò nel 1845 Concetta Mastriani, figlia appunto di suo cugino Raffaele.

A scuola (1825-1834)

135. Nel 1825, a sei anni di età, venne posto alla Scuola di Don Raffaele Farina, dove ebbe compagno di studi, fra gli altri, il futuro giurista, patriota italiano e poi deputato e ministro della Sinistra liberale, Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888).

Sortì dalla scuola di Don Farina nel 1832, a tredici anni, passando prima all’Istituto Vinelli e poi a quello di Raffaele De Antonellis: quando ne uscì, nel 1834, il De Antonellis si dichiarò “dolente della perdita del primo filosofo del mio Istituto” … ed aveva solo 15 anni!

136. Due considerazioni possono qui farsi: la prima, che nell’oscurantista Regno borbonico si cominciava a studiare filosofia già in età che oggi giudicheremmo precoce; la seconda, che è opportuno approfondire adeguatamente i rapporti fra il pensiero di Mastriani, quale si manifesterà nei suoi romanzi e nella sua stessa vita, e l’opera filosofica di Pasquale Galluppi.

137. In quel tempo, infatti, a Napoli, dire “filosofia” significava ipso facto riferirsi, direttamente o indirettamente, al barone di Cirella e patrizio di Tropèa, che nel 1831, dal giovane Re Ferdinando II, era stato nominato “per chiara fama” a quella cattedra di Logica e Metafisica dell’Università di Napoli che era stata di Antonio Genovesi.

Per quella cattedra, il Ministro dell’Istruzione, che era in quel tempo il marchese di Pietracatella, Giuseppe Ceva Grimaldi, ritenne inutile e comunque impossibile organizzare un concorso, perché … "Chi c'è a Napoli che può esaminare il barone Galluppi?"

Il filosofo Pasquale Galluppi

Pasquale Galluppi (1770 – 1846)

138. Ma chi era dunque Pasquale Galluppi? Lui stesso scrive di sé:

“Io nacqui nella città di Tropèa, provincia di Calabria Ultra II, il 2 aprile dell’anno 1770. I miei genitori furono il Barone don Vincenzo e donna Lucrezia Galluppi, tutti e due della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche famiglie patrizie della città di Tropèa.

139. Dopo lo studio della lingua latina secondo il metodo di quel tempo in Tropèa, nell’età di anni tredici andai ad apprendere gli elementi della filosofia e della matematica alla scuola di Don Giuseppe Antonio Ruffa, che in quel tempo insegnava queste scienze in Tropèa.

Quell’amabile Maestro mi pose in mano la Logica italiana dell’abate Genovesi e gli elementi di Geometria di Euclide; egli seppe imprimere nell’animo mio la più forte passione per le filosofiche e matematiche discipline, in modo che, vedendo io ancor oggi i due libri, dai quali cominciò il mio corso di studii, provo una certa commozione…”[62].

Galluppi a Napoli (1788 - 1794)

140. “All'età di diciotto anni (1788), (Galluppi) fu mandato in Napoli perché studiasse giurisprudenza. Ma nella città partenopea perduravano i motivi che, come già era successo al Gravina e al Vico, creavano negli spiriti più sensibili un certo disdegno per questa disciplina, per la cattiva reputazione in cui l'aveva fatta cadere la categoria degli avvocati, preoccupati più del successo e del guadagno che del trionfo della giustizia.

Galluppi, deludendo le attese paterne, non si sentì di abbracciare la pur lucrosa professione dei “paglietta”, come con voce popolare spregiativa … venivano chiamati nella città partenopea gli avvocati.

141. A Napoli rimase sei anni. All'Università ascoltò le lezioni di storia e di teologia di Francesco Conforti (1743-1799), il quale esercitò sul giovane un influsso in senso liberale (e giansenista).

Studiò la Bibbia, la storia antica, la storia della Chiesa e i Padri dei primi secoli, attaccandosi, come egli si esprime nell'Autobiografia, specialmente a S. Agostino”[63].

Galluppi: il matrimonio e 14 figli

142. “Nel 1794, l'autorità paterna lo distolse dai suoi studi preferiti, ed egli dovette fare ritorno a Tropèa, invitato a pensare al matrimonio e al reggimento domestico.

Il 6 dicembre dello stesso anno si unì in matrimonio con la baronessa Barbara d'Aquino, donna d’illibati costumi, lodata per cortesia di modi e per la nobiltà del casato …” [64]

143. “Sono ammogliato sin dall’anno 1794 con donna Barbara D’Aquino … Con essa procreai quattordici figlioli, otto maschi e sei femmine. Io sebbene nato a Tropèa e che non l'avessi giammai veduta, fui destinato ad unirmi a lei col sacro vincolo del matrimonio. Si effettuò il sacro vincolo nuziale senza averci veduti … noi ci vedemmo quando già eravamo con indissolubil nodo uniti. Nel vederci, ci amammo e il nostro amore fu costante”[65].

Galluppi: la “Memoria apologetica” (1795)

144. L’influenza giansenista del Conforti (vedi sopra, n°141) è visibile nella vicenda della controversia con alcuni esponenti del clero tropeano. Il Galluppi, in una dissertazione letta nella Règia Accademia degli Affaticati, aveva sostenuto una tesi teologica particolarmente rigorista e cioè che, nei pagani, anche le supposte virtù sono invece dei peccati, in quanto essi mancano della “vera carità” che è l’amore verso l’unico Dio consapevolmente conosciuto ed accettato.

Per il che, il Nostro venne accusato di eresia ed egli, in sua difesa, scrisse una “Memoria apologetica” indirizzata il 26 aprile 1795 al vescovo di Anemuria e abate di S. Lucia del Mela, Mons. Carlo Santacolomba. Dopo solo pochi giorni, il 4 maggio 1795, il Santacolomba rispose riconoscendo l’infondatezza delle accuse a lui rivolte.

Galluppi nel 1799 e nel 1820

145. L’influenza liberale del Conforti si manifestò invece in occasione delle drammatiche vicende della Repubblica napoletana del 1799, della quale il Conforti stesso fu uno dei dirigenti più in vista.

In quelle circostanze, in Tropèa, il Galluppi accettò di “fare traduzioni” dal francese, per conto delle autorità repubblicane, di fogli di propaganda e di direttive governative.

Rimase poi per alcuni mesi prigioniero a Pizzo Calabro, essendo stato compreso tra gli ostaggi richiesti dal cardinale Ruffo che, a capo dell’armata sanfedista, risaliva dalla Calabria per liberare Napoli.

146. Successivamente, nel periodo del Decennio francese (1805-15), venne chiamato da Giuseppe Bonaparte a ricoprire la carica di “controllore delle contribuzioni dirette”, che conservò poi per 17 anni: anche, perciò, sotto il restaurato governo borbonico. 

147. Nel 1820-21, si schierò pubblicamente a favore della Costituzione e protestò con fermezza, in seguito, contro l'intervento repressivo degli Austriaci.

Galluppi a Tropèa (1820-1830)

148. “Si restrinse quindi entro ai brevi confini della nativa Tropèa, donde non si allontanò mai fino al 1830, attendendo solo agli affari domestici ed alla composizione delle sue opere filosofiche … in fama di uomo integerrimo ed alieno per natura da ogni briga … amato e tenuto in somma venerazione dalla universalità de’ suoi compaesani”[66].

Case e busto di Pasquale Galluppi a Tropèa

149. Tropèa, del resto, anche se di “brevi confini”, era tutt’altro che un leopardiano “borgo selvaggio”.

“La sua condizione di città demaniale, libera da dominio feudale, costituisce uno dei principali elementi della sua identità storica.

Galluppi deve anche alla particolare ubicazione della sua città natale, assurta a snodo marittimo di notevole importanza, la possibilità di tenersi aggiornato circa le pubblicazioni a carattere filosofico del resto d’Italia e d’Europa. I marinai di Parghelia, infatti, dietro suo incarico, gli recavano le novità presenti sul mercato librario di Napoli e di Marsiglia.

Il suo appuntamento col pensiero europeo fu anche favorito dalle ben fornite biblioteche esistenti presso le numerose Comunità religiose e alcune famiglie di Tropèa”[67].

150. Vi erano infatti membri del clero e patrizi locali molto eruditi, e nel 1759 Antonio Jerocades (Parghelia, 1738; Tropèa, 1803) aveva aperto nella vicina Parghelia “una fiorente scuola, cui portò il lume delle più belle letterarie e scientifiche cognizioni, insegnando, oltre il latino e l'italiano, anche il francese, il greco e l'ebreo, ed il più metodico corso di filosofia e di matematica”[68].

Galluppi e la cattedra di filosofia (Settembrini)

151. Luigi Settembrini, nelle sue “Ricordanze” riporta il modo in cui il Galluppi, nel 1831, ottenne la cattedra di filosofia all’Università di Napoli: 

“Udii dallo stesso Galluppi raccontare il modo ond’egli fu nominato professore.

Il barone Pasquale Galluppi di Tropèa, cittadella di Calabria, sosteneva la sua onesta povertà ed undici figliuoli con un ufficio di controllore nelle dogane. Le cure della famiglia e le noie dell'uffizio non lo toglievano da’ suoi studi filosofici, nei quali egli era sì assorto e si profondava tanto da non udire il diavoletto che gli facevano intorno un vespaio di fanciulli.

Scrisse un Saggio critico su le conoscenze umane che, stampato in Messina, fu conosciuto poco in Italia, e levò alto il nome del Galluppi in Francia e in Germania.

152. Essendo vacante la cattedra di filosofia nell'università, gli amici lo consigliarono e la sua coscienza lo persuase a chiederla. Venne in Napoli, andò dal ministro dell'interno, gli presentò il libro, e chiese la cattedra.

Il ministro, che non lo conosceva, rispose: — Bene: vi cimenterete all'esame.

Ed egli: — E cu c'è a Napoli che po' esaminari Pasquale Galluppi?

II ministro si strinse nelle spalle, e l’accomiatò con un “vedremo”. La sera raccontò nel crocchio degli amici come un vecchietto calabrese e mezzo matto era andato a chiedergli la cattedra, e tutto ringalluzzito gli aveva detto non ci essere in Napoli chi potesse esaminarlo.

Ci fu qualcuno che dimandò: — Fosse egli il Galluppi? — Non ricordo il nome: leggetelo nel libro che mi ha dato. — È desso, è il Galluppi, il primo filosofo vivente d'Italia —.

Sua Eccellenza cadde dalle nuvole: s'informò da altri, udì lo stesso, e lo pregarono desse quest’ornamento all'Università di Napoli. E così il Galluppi, ricercato bene se egli avesse qualche vecchio peccato politico e trovato netto, fu senz’altro nominato professore quand’egli non se l’aspettava né ci pensava più.

153. Con che festa noi giovani, e con quanta calca tutte le colte persone, si andò a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli, appollaiato su la cattedra, dettava con l'accento tagliente del suo dialetto!

Ci sono sempre i maldicenti, i quali dicevano che egli era mezzo barbaro nel parlare; ma in quel parlare era una forza di verità nuove; ma l’ingegno era grande, e il cuore quanto l’ingegno. Che buon vecchio! E quanto amava i giovani!”

Galluppi e la cattedra di filosofia (Tulelli)

154. Un altro discepolo del Galluppi, Paolo Emilio Tulelli, racconta anch’egli quel fatto, anche se in modo leggermente diverso: 

“Nel 1831 … recàtosi per interessi di famiglia in Napoli, ebbe conferita la Cattedra di filosofia nell’Università.

Ciò si deve attribuire alle alquanto migliorate condizioni politiche del nostro paese in sui primordi del Regno del secondo Ferdinando, ed alla efficace azione di Domenico Cassini, uno dei più illustri giureconsulti del foro napolitano ed avvocato del Galluppi.

Infatti il Cassini, scudo, amico e familiare del ministro marchese di Pietracatella, ebbe modo di renderlo persuaso del merito incontestabile del filosofo calabrese e disporre l’animo del ministro in favore del suo illustre cliente.

155. A questo proposito, non stimo cosa inutile di raccontare un aneddoto singolare intervenuto nel primo incontrarsi del Galluppi col ministro Pietracatella.

Questi, desideroso di conoscere personalmente il Galluppi, indusse l’avvocato Cassini a presentarglielo. Il Galluppi, ignaro delle segrete pratiche del suo avvocato, si lasciò condurre in casa del ministro per fargli semplice visita di cortesia.

Durante la lunga e familiare conversazione, il Pietracatella introdusse il discorso intorno a cose di pubblica istruzione ed al bisogno che si avea di provvedere di professore, mediante pubblico concorso, la vacante cattedra di filosofia nell’Università. Al qual proposito, il ministro disse al Galluppi:- Ebbene, Signor Barone, non potrebbe ella essere ancor uno dei concorrenti a quella Cattedra?

E quegli prontamente rispose:- E chi sarebbe, in Napoli, l’esaminatore di Pasquale Galluppi? Signor ministro, l’autore del Saggio sulla Critica dell’umana conoscenza è stato giudicato dall’intiera Europa!”[69].

Le opere di Galluppi

156. In effetti, nel 1831, il Galluppi aveva già scritto: “Sull’analisi e la sintesi” (1807); “Saggio filosofico sulla critica della conoscenza” (1819); “Elementi di filosofia" (1820-1826); "Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente ai princìpi delle conoscenze umane, da Cartesio sino a Kant" (1827).

A questi scritti seguiranno poi quelli da cattedratico e cioè le “Lezioni di logica e metafisica” e "La filosofia della volontà".

157. “Apparentemente assente dalla vita culturale e politica del Regno di Napoli e dell’Europa, Galluppi si pone invece nel bel mezzo degli eventi filosofici del suo tempo e ne interpreta le istanze profonde, e riesce a trasferire nell’Italia meridionale la complessità e raffinatezza della filosofia europea, in tutta la sua portata storica e in tutta la sua articolazione ideale.

Così, stranamente, questo provinciale di Tropèa si trova a svolgere il ruolo più avanzato nella cultura italiana dei primi decenni dell’Ottocento, entra in relazione con i più grandi intellettuali d’Europa e ricostruisce il filo conduttore della filosofia moderna …  cercando il senso autentico della storia, dei valori interiori e della realtà.

E questo fatto basterebbe a decretare i meriti filosofici di uno studioso sensibilissimo ad afferrare le punte più avanzate della filosofia moderna e saperle elaborare in proprio, con ampia capacità di selezione e discernimento critico”[70].

158. “Il merito maggiore di Galluppi risiede nell'avere, con gli Elementi di filosofia ma soprattutto con le Lettere filosofiche, introdotto nel nostro paese lo studio e la conoscenza della nuova filosofia europea, soprattutto quella kantiana.

Le Lettere filosofiche furono definite, a ragion veduta, il primo saggio in Italia di una storia della filosofia moderna, mentre gli Elementi di filosofia ebbero una larghissima diffusione nelle scuole” (Diego Fusàro).

159. Lui stesso fu autore di un piccolo libro intitolato “Introduzione allo studio della filosofia per uso dei fanciulli”, che conferma quanto abbiamo detto sopra …

Pasquale Galluppi AI GIOVANETTI AMANTI DEL VERO SAPERE

160. “Da un secolo in qua lo stato della filosofia è quasi interamente cambiato: quindi agli antichi elementi debbono sostituirsi i nuovi. Eccellenti libri spargono incessantemente la luce nel mondo filosofico; ma ciò non ostante non abbiamo ancora buoni elementi.

Per formar questi, fa d'uopo seguire con uno spirito di analisi tutta la storia della filosofia; fermarsi specialmente all'epoca dell'attuale rivoluzione filosofica; esaminare profondamente le cause che l’hanno fatta nascere; leggere in conseguenza, e far
l’analisi, di tutti i libri classici delle diverse scuole filosofiche, che da Cartesio sino a questo giorno si sono stabilite nell'Europa culta: solamente un tale studio può porre il pensatore in istato di scrivere buoni elementi.

Posso assicurarvi di aver fatto diligentemente questo cotanto laborioso studio, e ciò credo che mi dia il diritto di dare al Pubblico gli Elementi della Filosofia.

Essi conterranno pertanto … (segue l’esposizione sommaria del contenuto).

161. Questa mia terza edizione è notabilmente migliorata: alla logica pura ho aggiunto un capitolo d’introduzione allo studio della filosofia: più, a ciascuna parte del corso ho aggiunto un riassunto a dialogo: e siccome nel corso dell'opera ho seguito il metodo analitico, così nel riassunto seguirò il metodo sintetico.

In tal modo spero, che sarete bene instruiti. Vivete felici”.

162. Molto probabilmente, sono proprio queste parole della “Dedica” agli Elementi di filosofia, pubblicati proprio alcuni anni prima (1820-26), che il Mastriani incontrò alla scuola del De Antonellis nel 1833-34 (vedi sopra, n°135).

Altri studi di Mastriani (1834-1835)

163. Il quale Francesco Mastriani, nel 1834, dopo gli elementi di filosofia, cominciò a studiare il diritto romano con l’avvocato Antonio Fedele, avendo intenzione di abbracciare la professione legale, mentre nel frattempo approfondiva lo studio della lingua francese col maestro Lopez.

Nel 1835 “divorò” tutta la biblioteca del Lopez: circa 400 volumi di letteratura europea, inclusi Shakespeare, Rousseau, Chateaubriand, le tragedie di Alfieri ed ovviamente la Divina Commedia di Dante, in italiano oltre che in napoletano (vedi sopra, n°134).

164. Ma il libro di tutta la sua vita fu sempre la Bibbia, che egli certamente leggeva nell’unica versione allora disponibile cioè la versione latina di S. Girolamo (la cosiddetta Vulgàta) e di cui aveva una conoscenza a quel tempo inusuale anche fra i credenti colti.

Mastriani: prima del matrimonio (1836-1844)

165. Nell’anno 1836, il padre lo volle impiegato presso la Società Industriale Partenopea, allora diretta dal Principe di Satriano Carlo Filangieri.

La notte del 28 novembre di quello stesso anno, morì improvvisamente, all’età di 60 anni, sua madre Teresa Cava, e lui, l’8 dicembre, fece stampare la sua prima opera scritta, una poesia intitolata “Un sospiro alla memoria di lei”.

166. Nel 1837 cominciò anche a studiare Medicina, ma non portò mai a termine gli studi, preferendo invece dedicare il suo tempo libero dall’impiego a scrivere per i giornali e per il teatro: attività ben presto incoraggiata anche dal padre, e che divenne poi sempre più prevalente dopo la morte di questi, avvenuta il 21 aprile del 1842.

Iniziò con articoletti di vario genere su piccoli giornali come Gli animosi e La Lanterna magica e continuò poi con giornali letterari come La Galleria del Secolo, Il Sibilo, L’interprete, Il Salvator Rosa.

167. Nel 1838, cominciò anche a dare lezioni private di francese e di inglese, attività che svolse, a fasi alterne, per tutto il resto della sua vita, insieme a quella di guida turistica per gli stranieri che venivano a conoscere le bellezze della città.

168. In quegli anni, insieme all’amico Francesco Rubino, scrisse anche i drammi “Vito Bergamaschi” (1840) e “Biancolelli” (1841) che furono rappresentati con successo al Teatro Fiorentini.

Mastriani: il matrimonio (1844)

169. Del 4 agosto 1844 è la “promessa di matrimonio” con Concetta Mastriani, figlia di suo cugino Raffaele (vedi sopra, n°134), che sposerà nell’ottobre dello stesso anno.

Subito dopo il matrimonio, lasciò definitivamente l’impiego presso la Società Industriale Partenopea: avrebbe certo voluto dedicarsi interamente alla sua vocazione letteraria ma, all’epoca, solo i benestanti e sedentari potevano permettersi di essere anche solo scrittori.

In realtà, il Nostro mantenne se stesso e la famiglia eseguendo traduzioni dal francese e dall’inglese nonché con l’insegnamento privato di queste lingue; in seguito, aumentando la famigliola, si procurò anche un modesto impiego alla dogana.

E la gente del popolo, riconoscendolo mentre correva tra l’ufficio della dogana, la tipografia in cui si stampavano i suoi libri, ed i palazzi nei quali abitavano i suoi giovani allievi, lo indicava come “l’autore dei romanzi di Francesco Mastriani”.

I figli – Filippo Mastriani

170. Dal matrimonio nacquero 4 figli: Sofia (nel 1846); Filippo (1848); Edmondo (1851); e Adolfo (1853).

Di questi, però, ben tre pre-morirono al padre: Adolfo morì nel 1857 (a 4 anni di età); Edmondo nel 1875 (a 24 anni); e Sofia nel 1878 (a 32 anni).

Unico figlio superstite fu dunque Filippo, che pochi mesi dopo la morte del padre scrisse i “Cenni sulla vita e sulle opere di Francesco Mastriani”, documento ovviamente fondamentale per la ricostruzione storica della figura del romanziere.

171. Anche Filippo Mastriani si dedicò alla narrativa: risulta autore di 12 romanzi, fra i quali “Un camorrista di 15 anni” e “Amori e delitti dei briganti Cipriano e Giona La Gala”.

Realizzò inoltre traduzioni dal tedesco e dall’inglese, tra cui anche “Uno studio in rosso” (1887) che è il primo romanzo scritto da Arthur Conan Doyle (1859-1930) avente come protagonista il quind’innanzi celebre investigatore Sherlock Holmes.

Mastriani: ‘o pesòne e gli sfratti

172. La vita familiare di Francesco Mastriani è contrassegnata dai continui “sfratti” che subiva da parte dei vari “padroni di casa”.

In perenne difficoltà a pagare l’affitto, come molti altri napoletani (non a caso, in napoletano, ‘o pesòne significa sia “pigione, costo dell’affitto” sia “grosso peso”), era costretto a continui “quatto ‘e maggio” (gli sfratti di solito venivano eseguiti il 4 maggio).

173. La prima abitazione fu alla Via Concezione a Montecalvario, n°52.

Dopo la morte del padre (1842) si traferì alla Salita Infrascata, n°271.

Dopo il matrimonio (1845), fittò un “casinetto” allo Scudillo, dove nacque la prima figlia Sofia.

Nel 1848, è alla Via Teatro Nuovo, n°54 e poi in un altro “casinetto” al Vico Lieto a Capodimonte.  

Nel 1849, in Salita Tarsia, n°18.

Nel 1854, a S. Teresa degli Spagnoli.

Nel 1861, Via S. Mandato, n°78.

Nel 1864, Largo Petroni alla Salute, n°7.

Nel 1865, Vico Nocelle.

Nel 1866, Strada Tarsia nel Fondo Avellino.

Nel 1869, alle “Case operaie” nell’Emiciclo di Capodimonte.

Nel 1881, alla Strada Fonseca, n°80.

Nel 1883, nel Palazzo D’Agostino alla Sanità, n°97.

Nel 188?, alla Salita Scudillo, n°4 e poi alla Via Capodimonte.

Nel 1889, in Penninata S. Gennaro dei Poveri, n°29 e poi in un “quartino” al Moiariello a Capodimonte.

Nel 1890, ritorno a S. Gennaro dei Poveri il 4 maggio, poi ad agosto in Largo Amoretti, ed infine in ottobre di nuovo a S. Gennaro dei Poveri, dove morì il 5 gennaio del 1891.

174. Il periodo di residenza più lungo è perciò quello alle “Case operaie”, dove visse per circa 12 anni e dove morirono i figli Edmondo e Sofia.

L’attento lettore, volendo, potrà contare ben 20 trasferimenti e, se avrà la pazienza di andarli a “visualizzare” su una cartina stradale di Napoli, vedrà come Mastriani abbia potuto conoscere “per immersione diretta” quella Napoli popolare che descrive nei suoi libri.

Lapide in Penninata S. Gennaro dei Poveri (potevano almeno tagliare lo spigolo!)

Mastriani: l’esperienza a “Il Tempo” ed il 1848

175. “Il Tempo” era un giornale di tendenza moderatamente liberaleggiante, fondato da Carlo Troya e Saverio Baldacchini, due intellettuali napoletani già coinvolti nelle vicende del 1820-21.

Il primo numero uscì il 21 febbraio 1848, a ridosso delle turbolente vicissitudini di quell’anno, nel quale lo stesso Carlo Troya fu, per un breve periodo (dal 3 aprile al 15 maggio), a capo del primo governo costituzionale.

Ma, con la fine dell’esperienza parlamentare napoletana, a partire dal 2 giugno 1848 il giornale cambiò proprietario e linea politica, che divenne marcatamente conservatrice ed anti-liberale.

176. Fin dall’inizio, il Mastriani fu impiegato presso la direzione del quotidiano, con lo stipendio mensile di ducati 30, adibito specialmente alle traduzioni dal francese e dall’inglese. Non sembra, però, che fosse particolarmente legato alle opinioni politiche espresse dal giornale, né risulta una sua partecipazione agli eventi del 1848.

Del resto, perché mai avrebbe dovuto partecipare?

Quella “rivoluzione” non era certo fatta dal popolo, ma da intellettuali borghesi, che si proponevano obiettivi del tipo:

-      l’istituzione di un “parlamento”, per il quale avrebbero avuto diritto di voto solo quelli che superavano un certo livello di reddito, quando la maggior parte della popolazione napoletana a mala pena riusciva a sopravvivere;

-      la conquista della “libertà di stampa”, quando la maggior parte della popolazione napoletana era completamente analfabeta;

-      la conquista della “libertà di pensiero e di parola”, quando la maggior parte della popolazione napoletana, per forza di cose, doveva “pensare” prima di tutto a cosa avrebbero mangiato i propri figli in quello stesso giorno …  

177. Lui, dunque, per quanto lo riguardava, nel famoso 1848 pubblicò il suo primo romanzo, intitolato “Sotto altro cielo” e Il Tempo (la nuova gestione?) gli aumentò lo stipendio a ducati 35.

Due anni dopo, nell’aprile del 1850, il nuovo direttore de Il Tempo, soddisfatto dell’opera che prestava, gli aumentò lo stipendio a ducati 40 e addirittura, nell’ottobre del medesimo anno, la stessa direzione del giornale venne affidata al Mastriani, con un compenso mensile di 45 ducati.

Purtroppo però, dopo solo tre mesi (ottobre-dicembre 1850), la pubblicazione del giornale cessò completamente. Aumentarono quindi le sue difficoltà economiche, mentre pure aumentava la sua famigliola.

L’esperienza nei giornali “istituzionali” borbonici ed il colera del 1854

178. La chiusura de Il Tempo lo spinse ad accettare la nomina, probabilmente favorita anche dal prestigio di cui godeva il cugino-suocero Raffaele (vedi sopra, n°134), al posto di “compilatore” del Giornale del Regno delle due Sicilie, che pubblicava gli Atti ufficiali del Governo, nonché del giornale ministeriale L’ordine.

Solo dopo 3 mesi, nel marzo del 1851, ricevette una prima gratificazione di 30 ducati, e continuò a lavorare con occasionali gratificazioni economiche fino al 1854, allor quando, come molti, venne colpito dal colera e, come pochi, riuscì a sopravvivere alla malattia.

Così, il 7 febbraio 1855 poté ricevere dalla cassa del Ministero il suo primo vero stipendio, di ducati 12, relativo al precedente mese di gennaio, elevato in seguito a ducati 15 mensili, per opera soprattutto del nuovo “Direttore della Real Segreteria e Ministero di Stato della Polizia generale” Orazio Mazza, che volle conferire più dignitose condizioni economiche e normative ai dipendenti ministeriali.

179. Continuando sempre a far parte della redazione del Giornale delle due Sicilie, dal primo ottobre 1858 fu incaricato dal Ministero della Polizia Generale della “revisione” di vari fogli letterari (= svolse il ruolo istituzionale di censòre).

E così, nel mese di luglio del 1859, dal Ministro degli Interni e Polizia Generale, Liborio Romano, gli venne aumentato lo stipendio a ducati 25.

Mastriani: i 13 romanzi anteriori al 1860

180. Nel 1848, come detto, esce il suo primo romanzo, che è “Sotto altro cielo”, cui fanno seguito, fino al 1860, altri 12 romanzi, fra i quali: “La cieca di Sorrento” (1851); “Il mio cadavere” (1851), con un prosieguo in “Federico Lennois” (1852); “La comare di Borgo Loreto” (1854); “Angiolina o la corìfea” (1857); e “La poltrona del diavolo” (1859).

Da segnalare, fra questi 13 ante-1860, anche la presenza di tre romanzi del genere comico-umoristico.

continua


Note

[40] Dal discorso di “funebre elogio” pronunciato dal Guida nel corso della celebrazione religiosa che si tenne, nella chiesa delle Suore del Verolino in Via Cicarelli a Barra, “nel giorno settimo dalla morte” di questi, avvenuta il 22 gennaio 1890.

[41] Dal “Cenno storico del Ritiro” ovvero “notizie fondamentali circa l’origine del Ritiro dell’Immacolato Cuore di Maria per le ragazze orfane, fondato dal Verolino il 9 maggio 1868”, scritto da Don Raffaele Guida come introduzione alla “Regola del Ritiro” da lui composta nel 1893 e firmata dalle Religiose e dalle Novizie il 31 dicembre di quell’anno.

[42] Vedi nn°468 e segg. in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”, in particolare i nn°477-478.

[43] Vedi nn°29-34 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[44] Vedi nn°23-24 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1500”.

[45] Vedi nn°10-14 in “Il periodo del Viceregno austriaco”.

[46] Vedi nn°52-54; 64; 67-69 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1600”.

[47] Vedi nn°1-6 e 253-263 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[48] Vedi nn°22-26 in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[49] Giuseppe Galasso - “Intervista sulla storia di Napoli”, Ed. Laterza, Bari, 1978.

[50] Vedi n°9 e nn°13-17 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1500”.

[51] Atanasio Mozzillo – “La Sirena inquietante”, Ed. Cooperativa Ci.Esse.Ti, 1983.

[52] Vedi nn°79-85 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1500”.

[53] Vedi nn°47-73 in “Il periodo del Viceregno spagnolo nel 1600”.

[54] Vedi nn°5-8; 37-43; 307-308 in “Il periodo borbonico dal 1790 al 1860”.

[55] Vedi nn°152 e segg. In “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[56] Domenico Rea – “Le illuminazioni di Mastriani” (1963) in “Opere”, Ed. Mondadori, 2005.

[57] Gustave Hérelle – “Un romanziere socialista a Napoli” in “Revue de Paris” 1894.

[58] Vedi nn°122 e segg. in “Il periodo liberale dal 1860 al 1876”.

[59] Vedi n°56 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”. 

[60] Si veda la breve ma efficace rassegna fatta da Rea nel suo Saggio sopra citato.

[61] Matilde Serao in “Corriere di Napoli”, 7 gennaio 1891.

[62] Pasquale Galluppi, Autobiografia in Introduzione alle “Lettere filosofiche”, Ed. Signorelli, Milano 1967.

[63] Giuseppe Lo Cane – Biografia di Pasquale Galluppi in “Tropea Magazine”.

[64] Lo Cane, op. cit.

[65] Galluppi, Autobiografia, op. cit.

[66] Lo Cane, op. cit.

[67] Lo Cane, op. cit.

[68] Lo Cane, op. cit.

[69] Paolo Emilio Tulelli – “Intorno alla dottrina ed alla vita politica del Barone Pasquale Galluppi”, Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, Stamperia della Règia Università, Napoli, 1865.

[70] Salvatore Ragonesi – “Pasquale Galluppi nella storia della filosofia europea”, in “Infosannio”, 20 marzo 2013.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, ottobre 2017

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