Le mille città del Sud

 


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Piano dell'opera di Angelo Renzi

La Barra di Napoli nella storia

11.4c Il Periodo Liberale (1896-1900)

di Angelo Renzi

Ti amo e ti odio. Come questo sia possibile,

non lo so. Ma lo sento. E mi tormento.

(da Catullo)

Né con te, né senza di te,

io posso vivere.

(da Ovidio)

olio su tela, 129x100 cm – anno 1705 (ca.). Tolosa, Musée des Augustins. Francesco Solimena (Canale di Serino, Avellino, 4 ottobre 1657 - La Barra di Napoli, 5 aprile 1747) "Ritratto di donna" Una donna, di cui non si conosce il nome, con i suoi gioielli deposti (o da indossare?) in un piatto d’argento: rappresenta forse, allegoricamente, la città di Napoli ... e perché non La Barra?

 

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Mastriani: il primo scrittore europeo di “gialli”

181. Or dunque: lo scrittore statunitense Edgar Allan Poe (1809-1849) fa storia a sé; ma, per il romanzo “Il mio cadavere”, del 1851, Mastriani è senz’altro da considerarsi il primo scrittore europeo del genere “giallo”, essendo il suo lavoro ben anteriore al celebre “La pietra di luna” di Wilkie Collins (1824-1889) che uscì nel 1868, ed ancor più al già citato “Uno studio in rosso” di Arthur Conan Doyle (1859-1930) che è del 1887.

Angiolina e … Ginevra

182. Molto interessante è anche il romanzo “Angiolina o la corìfea” (1857), soprattutto per il confronto, che l’attento lettore potrà fare, con l’immeritatamente un po’ più noto “Ginevra o l’orfana della Nunziata” di Antonio Ranieri (1806-1888), il molto discusso sodàle di Giacomo Leopardi.

Il Ranieri aveva pubblicato la sua “Ginevra” la prima volta nel 1839, denunciando maltrattamenti ed abusi presso il celebre ricovero per bambini abbandonati “dell’Annunziata” in Napoli.

Ma egli era mediocre scrittore oltre che mediocrissimo uomo, come poi meglio si vide con la pubblicazione dei suoi “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi” (1880).

Per imperizia letteraria e malafede politica, esagerò dunque in maniera finanche grottesca gli abusi e le carenze pur realmente presenti alla Nunziata ed avvenne semplicemente che l’allora Ministro dell’interno Niccolò Santangelo, essendo fratello del capo dell’amministrazione della Nunziata, lo fece detenere in prigione per 45 giorni.

Ma il re Ferdinando II di Borbone (anche in seguito alla intercessione del presidente del consiglio dei ministri Giuseppe Ceva Grimaldi, che era ostile al Santangelo) lo fece liberare ed assegnò 50 mila ducati in più di rendita alla Nunziata e all’Albergo dei poveri, cambiandone anche l’amministrazione, al fine di eliminare le carenze e gli abusi realmente riscontrati.

Angiolina nell'edizione Salàni

183. Quegli “eroici” 45 giorni di carcere fecero però di lui, dopo il 1860, una sorta di “martire” del Risorgimento: egli, che era stato assai cautamente liberale nel 1848 e figurava semplicemente fra i notabili che si recarono a Grottammare per invitare Vittorio Emanuele II ad invadere il Regno delle due Sicilie “a nome del popolo napoletano”, si ebbe il posto di deputato del Regno d’Italia per 20 anni (dal 1861 al 1881) e subito dopo di senatore fino alla morte (1882-1888), nonché una cattedra di “Filosofia della storia” presso l’Università di Napoli, per chiari meriti solo politici.

184. Il Mastriani, con la sua “Angiolina”, a confronto col Ranieri e la sua “Ginevra”, appare, a giudizio di chi scrive, un gigante, sia come scrittore sia come uomo.

Dopo il 1860: le sventure di un non-sabàudo

185. Nel settembre del 1860, Francesco Mastriani indossò, sia pure per breve tempo, la divisa della Guardia Nazionale cittadina, allora ristrutturata dal Ministro dell’Interno Liborio Romano con l’intenzione di favorire un “passaggio dei poteri”, il più possibile indolore, tra Francesco II di Borbone, che usciva da Napoli per tentare un’ultima resistenza nella fortezza di Gaeta, e Garibaldi che era ormai prossimo ad entrarvi. 

In quel cruciale settembre, egli “respirò nell’aria” l’entusiasmo e le speranze che l’ingresso di Garibaldi in Napoli accese, non solo nella classe borghese liberale ma anche in larghi strati del popolo minuto. Ma anch’egli, come quasi tutti, ne rimase ben presto deluso.  

186. Dopo l’occupazione sabauda nel 1860, e precisamente il 1°maggio 1862, cessò la pubblicazione del Giornale del Regno delle due Sicilie e Mastriani, come gli altri redattori, fu dapprima collocato “in aspettativa” con intero stipendio il 24 settembre 1862, e l’anno dopo, con il Decreto N°1384 emesso da Torino il 19 luglio 1863, dichiarato “in disponibilità”.

Il 17 aprile del 1865, rinunciò ai suoi diritti di “impiegato in disponibilità”, in cambio della somma una tantum, al netto di trattenute, di lire 1142,20 corrispondente ad un’annata di stipendio.

187. Il fatto di aver collaborato con giornali borbonici, e forse ancor più di aver riposto grandi, e presto deluse, speranze in Garibaldi, gli procurò la permanente diffidenza, ostilità e sotto-valutazione da parte del nuovo potere sabàudo e della scuola liberale.

Il famoso storico della letteratura Francesco De Sanctis, patriota italiano e Ministro della Pubblica Istruzione nei primi governi post-unitari, non lo ritenne meritevole di alcuna citazione nei suoi studi critici, mentre definì lo scrittore Carlo Tito Dalbono (1817-1880), suo compagno di partito, il “più napoletano de’ Napoletani, come fu detto di Palmerston che era il più inglese degl’Inglesi” [71].

In realtà, il Dalbono, oltre che uomo politico, giornalista, critico d’arte, autore di drammi e di guide turistiche, fu scrittore di insipidi e sin troppo fantasiosi “romanzi storici”, confusamente ispirati a storie e leggende popolari napoletane, senza in realtà essere “né storico né romanziere” (Federico Verdinois).

In ogni caso, è un fatto che i suoi romanzi, già pochi anni dopo la sua morte, non li leggeva più nessuno, mentre quelli di Mastriani diventavano sempre più popolari.

I grandi romanzi degli anni Sessanta

188. Negli anni Sessanta, a dispense sui giornali ed in volume, il Nostro pubblicò la sua celebre trilogia:

1)    I VERMI - Studi storici sulle classi pericolose in Napoli – Tipografia di Luigi Gargiulo, Strada Speranzella n°95, Napoli, 1863. 

2)    LE OMBRE - Lavoro e miseria – Romanzo storico-sociale - Tipografia di Luigi Gargiulo, Strada Speranzella n°95, Napoli, 1868.

3)    I MISTERI DI NAPOLI - Studi storico-sociali - Stabilimento tipografico del Comm. G. Nobile, Vicoletto Salita a’ Ventaglieri n°14, Napoli, 1869.

I vermi: il titolo

189. Il Mastriani stesso spiega il titolo dell’opera, con le seguenti parole:

“Come il marciume, la sordidezza (= sporcizia) e la morte producono i vermi nel mondo fisico, così l’OZIO, la MISERIA e l’IGNORANZA producono i loro vermi nel mondo morale … i miserabili sono gli appestati della società perciocché sono quelli appunto che più portano scoverta la piaga che li rode; mentre gli oziosi gittano su la loro cangrena le essenze più prelibate e odorose; e gli ignoranti la coprono con una fascia d’oro o di seta”.

I vermi: lo scopo

190. Egli spiega poi anche lo scopo “utile e morale” che il suo libro si propone:

“Illuminar quindi, per quanto è possibile, il povero onesto, la innocente figlia del popolo e il giovin signore su gli agguati che lor tendono incessantemente quelli che speculano su l’ozio, su la miseria e su l’ignoranza, ci sembra opera santa, quali si vogliano i mezzi che a ciò s’impieghino ...

La nostra speranza è che (questo libro) sia letto e propagato fra le classi medesime di cui ci occupiamo, e verso le quali non abbiamo che un sentimento di profonda commiserazione e un desiderio vivissimo di cooperare al salutare ritorno di qualcuno di questi miseri nel seno degli onesti, e nelle ordinarie condizioni della vita sociale, da cui si trovano oggidì segregati ed espulsi”.

I vermi: lo stile

191. Infine, il Mastriani ci spiega anche il suo stile letterario di “fotografismo topografico” (Luca Torre): fatti veri, particolari esattissimi, luoghi visti anzi studiati da vicino, personaggi realmente esistenti:    

“I fatti su cui si appoggiano i nostri studi storici sono, la maggior parte, veri: i particolari che diamo sui costumi, su le pratiche, sul linguaggio di queste classi sono esattissimi, perciocché, vincendo la ripugnanza che c’ispiravano i luoghi più abbietti, abbiam voluto studiarli da vicino, per offerirne un quadro sincero, comeché sempre velato da quel santo pudore che le lettere non debbono mai abbandonare. I personaggi che figurano in questi nostri racconti sono la maggior parte esistenti …”

 I vermi di Francesco Mastriani

I vermi: lo schema

192. Il libro si articola dunque, con chiaro intento istruttivo, nelle 3 “piaghe” dell’ozio, della miseria e dell’ignoranza, più una conclusione, secondo la schema seguente:

PRIMA PIAGA: L’OZIO

  • Parte prima: La camorra elegante (I - A Posillipo; II – Madama Antonetta; III – Blandina; IV - Le farfallette; V - La trìbade; VI – Carolina; VII - La lotta; VIII - La vittoria).

  • Parte seconda: I vagabondi (I – Il tempo e la potestà paterna; II - Le tarle; III - Dio non paga il sabato).

  • Parte terza: I lavori forzati (I – Il bagno di Nisida; II - Stefano Merli). 

SECONDA PIAGA: LA MISERIA

  • Parte prima: Gli accattoni (Preliminari; I - Francesco Loiodice; II - Il letterato; III - Il figlio dell’esule; IV - La fossa dei poveri; V - L’improba mendicità).

  • Parte seconda: Falsi mestieri e domestici

  • Parte terza: La prostituzione (Preliminari; I - Lucia; II - Le case infami; III - La prima notte; IV - La casina francese; V - Il peccato dell’impurità; VI - La moglie e la druda; VII - La madre; VIII - La riabilitazione; Riepilogo; Il sifilicomio in Napoli).

TERZA PIAGA: L’IGNORANZA

  • Parte prima: Le tenebre (Preliminari; I – Guerra alle intelligenze).

  • Parte seconda: La luce (Capitolo unico: il 28 giugno 1860).

CONCLUSIONE

Ma non come Victor Hugo!

193. “Noi avevamo concepita quest’opera molto innanzi che fosse venuto a luce il libro stupendo de' Miserabili di Vittor Hugo. Confessiamo che la lettura di questo ammirabile lavoro del romanziero francese ci avrebbe scoraggiati dallo intraprendere il nostro, qualora non ci fossimo avveduti della differenza della indole dell’opera, differenza che i nostri lettori rileveranno di per sé, dove attentamente si facciano a leggerci.

Nel resto, non bisogna mai diffidare delle proprie forze quando si ha in vista, non un titolo di vanagloria, ma uno scopo utile e morale, e il bene de’ propri concittadini”.

Le ombre: lavoro e miseria

194. “Dopo I vermi scrissi I figli del lusso, farfalle sociali che nascondono sotto le loro ali screziate il bruco schifoso.

E poco di poi, scrissi Le ombre in cui, svolgendo la vita dell’operaia nella sua triplice elegia di Orfana, Moglie e Madre, toccai di quella enorme ingiustizia sociale quale è il lavoro donnesco …”

195. Tuttavia, il libro per il quale ancor oggi Mastriani è più conosciuto è il celebre “I misteri di Napoli”, del 1869, al cui riguardo, però, del tutto ingiustificati pregiudizi hanno fatto accumulare varie inesattezze, a dissipar le quali non v’è cosa migliore che lasciare la parola allo stesso Mastriani …

 Le ombre di Francesco Mastriani

I misteri di Napoli secondo Mastriani

196. “Gran tempo innanzi di scrivere “I vermi”, “I figli del lusso” e “Le ombre”, avevo divisato di pormi alla presente opera ma non poche ragioni mi dissuasero allora di mettervi mano …

197. Erano recentemente venuti a luce (1843) “I misteri di Parigi” del Sue, opera che aveva cattivato le simpatie di tutta Europa e che, in piccolo spazio di tempo, ebbe l’onore di numerose ristampe e traduzioni. La smania di imitare le cose francesi, funesta debolezza in Europa tutta e massime in Italia, fe’ piovere misteri da tutte le parti.

Ogni paesello, ogni borgata, ebbe un Eugenio Sue, tanto che i misteri vennero in parodia… insomma, la maggior parte de’ romanzieri si dettero a scavare nelle fogne della società per mettere in evidenza tutto ciò che, ne’ diversi centri di civili popolazioni, è di più laido e nefando.

198. Aborrente, per principio e per gusto, da tutte le grette imitazioni e segnatamente dalle novità che ci vengono da’ nostri vicini di oltralpe, tenni fermo, per non breve spazio di tempo, a non voler apporre il titolo di Misteri di Napoli a nessuna delle mie opere …

Dàtomi, per naturale propensione e per gusto, alla sintesi psicologica delle diverse classi che compongono il civile consorzio, volli attentamente studiare da vicino quella gran sezione degli abitanti d’un vasto centro di popolazione i quali danno il maggior contingente agli sgabelli infami delle Corti di Assise.

Scrissi “I vermi” e quindi “I figli del lusso” … e poco di poi scrissi “Le ombre” …

199. Ora, mi si conceda di dire qualche cosa intorno allo scopo che mi prefissi in questo mio nuovo lavoro … Dove io avessi ripescato nel fango della nostra società, non avrei fatto altro che ripetere, sotto altra forma, le brutture da me descritte ne' Vermi e nelle Ombre: il mio libro non sarebbe stato che una pallida imitazione d’una mia stessa opera o di altre di simile stampo. Ho voluto invece seguire un cammino affatto opposto.

Ed a far pienamente intendere il mio concetto, è d’uopo che io tocchi brevemente di alcuni speciali caratteri de’ tempi nostri e di noi altri meridionali in particolare.

Alcuni speciali caratteri de’ tempi nostri

200. Noi manchiamo di convinzioni e di princìpi: è questo il più spiccato carattere della presente generazione. Tutto assorti negli interessi materiali, noi sfuggiamo di occuparci di noi stessi; e fine supremo della vita poniamo il godimento materiale dell’oggi.

E, gittàti al di fuori di questi materiali interessi, noi non abbiamo nessuna fede, senza peraltro essere perfettamente increduli; non abbiamo nessun saldo convincimento, e sia pure un errore, un paradosso. Diciamo di credere alla esistenza di Dio, ma la nostra adorazione è tutta pel vitello d'oro. Non siamo atei, non siamo scettici, non siamo credenti, non siamo niente.

In quanto alla immortalità dell'anima, ai futuri destini dell'uomo, tutto ciò non ci riguarda; il to be or not to be (essere o non essere) ci è del tutto indifferente. Non osiamo apertamente dire che la fede nell'altra vita è una mera fandonia; ma ce ne ridiamo sotto i baffi.

Le contraddizioni dei nostri giorni

201. Da questa mancanza di convinzioni di ogni sorta derivano le più strane e curiose contraddizioni che si osservano a’ dì nostri:

noi confondiamo la libertà di coscienza con l’assoluto indifferentismo su qualsivoglia credenza religiosa;

vogliamo l'indipendenza e la libertà, e non apprezziamo che ciò che è francese, inglese o giapponese, e non sappiamo perdonare al nostro vicino di avere una opinione contraria alla nostra;

vogliamo l'eguaglianza civile, e non ci vergogniamo di farci dare l'eccellenza da’ nostri servi;

gridiamo al mal governo, e non ci vogliamo prendere l'incomodo di andare a porre una scheda nell'urna;

predichiamo filantropia, e diamo croci e premi a chi inventa un modo novello di distruzione più pronta e più sicura, mentre lasciamo crepare di fame la virtù e l'ingegno;

diciamo di essere uomini positivi, e paghiamo 10.000 lire al mese a qualche saltatrice (= ballerina, soubrettina) più o meno in grido;

facciamo arrestare i ladruncoli di fazzoletti, e lasciamo andare a seggi governativi quelli che rubano i milioni;

vogliamo più o meno l'emancipazione della donna, e per poco non diamo la berlina a una povera signora che cammini sola per le strade;

insomma … ci crediamo uomini, e non siamo che scimmie.

202. Questa mancanza di princìpi e di convinzioni fa sì che noi manchiamo eziandio di fermezza nei nostri propositi, di dignità personale e di rispetto di noi stessi.

Sempre servilmente ossequienti al potere ed alla forza, ci contentiamo di sparlarne in segreto, balestrando un’occhiata paurosa all’intorno per tèma di essere intesi; non dissimili in questo dai valletti che seggono oziosi nelle anticamere del loro padroni e che si disfogano a maledirli, salvo a correre a baciar loro le mani non appena li vèggano apparire in su la soglia.

La borghesia affarista

203. Dall’un canto, le classi intelligenti, educate, ed anco istrutte, son magagnate dal tarlo della società presente che con novello vocabolo si è nominato affarismo: tarlo micidiale dell’anima, roditore di ogni nobile aspirazione morale, lento ma efficace distruttore di ogni principio di equità, di umana fratellanza e della divina voce della carità.

La plebe scioperata

204. Da un altro canto, una sterminata classe di scioperati, che abborrono la fatica, e che per vivere, o per alimentare i loro vizi, debbono risolvere ogni giorno l'arduo problema di carpire una polizzetta da 5 lire dalla tasca dei loro amatissimi fratelli in Adamo, senza pertanto sfregarsi colle autorità di Pubblica Sicurezza.

I governi … civili?

205. I governi civili, che schiudono carceri e all’uopo innalzano patiboli per colpire i reati contro la proprietà e la vita, non hanno saputo ancora trovare un premio alla virtù

206. Ma che dico. I governi sanno pure trovare un premio per la più sfacciata immoralità, per la mezzanità proterva e boriosa, per la raffinata ipocrisia, per la codarda ed abbietta cortigianeria.

Vistosi emolumenti, alti uffizi, ciondoli e croci piovono addosso a gente immorale, ignorante, proterva, strisciante, vituperevole.

Siamo ogni dì contristati dallo scoraggiante spettacolo d’impieghi ottenuti per la impudicizia di donne disonorate, per la vergognosa condiscendenza di abbietti mariti, e non poche volte pel sacrificio di caste ed innocenti donzelle.

Ci nausea la vista perpetua di eleganti camorristi accolti e festeggiati nelle case patrizie e sfacciatamente sfolgoranti di un lusso, la cui origine dovrebbe fare arrossire il codice penale.

207. Intanto, che cosa fanno i governi civili a pro dell'ingegno e della virtù? Colpiscono il ladro, se ha la malaccortezza di farsi ghermire nel momento che mette la mano nell’altrui tasca per rubare il portafogli, l'oriuolo o il moccichino; ma gli appiccano un ciondolo al petto, se ha l'abilità di deviare un milione.

E per la virtù, che si lascia trangosciare di stenti e si astiene, che cosa fate, o signori delle aule governative?

Ed alla vecchiezza dell’onesto operaio, che ha vissuto illibatissima vita, qual riposo assicurate voi? L'ospizio de’ poveri o l’ospedale! Ed alla vedova ed agli orfani di quell’integerrimo padre di famiglia, che abbreviò la vita per sostenere la moglie e i figliuoli, quale sorte serbate? Alla vedova, il pane della privata carità; ai figliuoli maschi, il supplizio del servizio militare; alle femmine, il postribolo.

I mali che travagliano l’Italia

208. Abbiamo in Italia la spaventevole cifra di 16 milioni di analfabeti, di cui, per carità del suolo nativo, non dirò quanta parte spetta alla nostra Napoli. Migliaia e migliaia di cretini vegetano in alcune vallate delle Alpi e dell'Appennino; i quali non hanno dell'uomo che il beffardo ironico nome. Altri migliaia e migliaia languiscono di febbri perpetue prodotte dalla malaria, dallo scarso e malsano nutrimento, dalle estenuanti fatiche, dalle protratte vigilie.

209. Né vale il dire che anche altrove questi mali travagliano le popolazioni. Altrove, è colpa della terra e del clima; appo noi, è colpa dell'uomo.

Egli è certo che la vita in Italia è più breve che altrove: vergognoso oltraggio alla Provvidenza che ci largì tutt’i tesori della sua inesauribile benevolenza!

Laddove le altre nazioni, meno favorite di noi, studiano i mezzi di accrescere il loro benessere e la loro civile e morale perfezione, noi studiamo i mezzi di renderci frustànei (= inutili, vani, infruttuosi) i doni del cielo.

Ingegni sublimi ci lasciarono pagine immortali, tesori di scienza e di ben vivere sociale; e noi, poscia di aver lasciato morir d’inedia que’ sublimi ingegni nel tempo in che furono in mezzo a noi, oggidì ci teniamo paghi di far pompa de’ loro volumi in su i palchetti delle nostre librerie.

I misteri di Napoli sono i misteri della virtù

210. Premesse queste cose per le generali, additerò brevemente quale è lo scopo del mio lavoro.

Occulti fatti si compiono nel seno delle popolose città. I grandi delitti, le opere inique, i luttuosi avvenimenti, sono rivelati dalle cronache della stampa periodica: i lettori ricercano con avidità questo pasto giornaliero della loro curiosità.

Ma vi è una categoria di fatti che non hanno altro testimone che l'occhio di Dio, fatti che onorano la specie umana …

Il CONTAGIO DEL VIZIO, che è una delle più grandi piaghe delle popolose città, troverebbe efficace correttivo nello ESEMPIO DEL BENE, dove la stampa si occupasse a ricercare i misteri della virtù con lo stesso ardore onde si occupa a ricercare e rivelare i turpi fatti del vizio.

“I Misteri di Napoli” saranno dunque la rivelazione degli occulti splendori dell’anima sofferente nelle torture sociali.

 I misteri di Napoli di Francesco Mastriani

Il male: opera di Dio o dell’uomo?

211. Un fatto costante e terribile sembra, agli occhi degli stolti, che faccia brutta dissonanza nell’ordine maraviglioso della creazione: l’esistenza del male.

Questa quistione, non risoluta o mal risoluta, ha portato l'uomo al dubbio, allo scetticismo: è essa che crea gli atei, gli empi e i semi-credenti.

212. Ma è forse Iddio che ha creato il male? È forse colpa dell’Artefice se una mano inesperta guasta l'accordo della macchina, per proterva o stolta voglia di correggerla?

Il Supremo Artefice (dice l'insipiente) non doveva esporre l'opera sua ad essere guasta dall'uomo. E noi rispondiamo:- La guastano forse gli animali che popolano la terra? E vi sareste voi contentati di agguagliarvi alla condizione degli animali? Volete sconoscere la bontà di Dio, che vi creò Sua immagine, dotandovi del sublime dono della Ragione e del Libero Arbitrio?

213. Il male è dunque incontrastabilmente l'opera dell'Uomo. Da millenni, ei si travaglia a rendersi felice, e non può: l’Ignoranza vi si oppone.

Ciò non pertanto, il raggio divino della Intelligenza superò gli ostacoli infiniti che l’Ignoranza le gittava tra’ piedi, e fece a palmo a palmo maravigliose conquiste sul paradiso perduto. Caddero l’un dopo l'altro gli sterminati massi che la tirannide dei potenti, coadiuvata dalla tirannide sacerdotale, avea innalzati a puntello di un esoso edificio di usurpazioni e di arbitrii.

214. Quando l'orgogliosa potenza romana parea che volesse soffocare le immortali tradizioni dell’umana grandezza nello sfacelo d’ogni principio morale, il VERBO DI DIO UMANATO rialzò la creatura, promulgando un codice divino di giustizia, di fraternità, di amore.

Ma la gran legge di amore fu affogata dalla nequizia delle tristi passioni, dalle smodate ambizioni, dall’obblio dei grandiosi destini dell'anima.

I re, i preti, i ricchi, i potenti elevarono altri codici informi su quello predicato dal Cristo.

La schiavitù, il feudalismo, la proprietà illimitata, il monopolio delle coscienze e de’ beni della terra, gli eserciti permanenti, la gleba muliebre, snaturamento della donna, gli omicidi giuridici, le guerre, ed altre moltissime di queste sociali cangrène, travagliarono e travagliano ancora l’inferma società tra spire torturanti.

215. Ma Iddio trasse il bene dal seno stesso del male. Migliaia di martiri della virtù e dell'amore formano ogni dì la più splendida protesta contro la mala organizzazione sociale. Questa nube di anime che vola al cielo, gemente ancora delle sofferenze della vita, affretta ogni dì il compimento de’ nobili destini dell'uomo.

216. Questa opera (“I Misteri di Napoli”) avrà dunque lo scopo di additare la virtù, cozzante co’ vizi della presente società e co’ mali inseparabili dai presenti ordinamenti sociali.

E’ storica la tela del mio racconto? Sono veri i personaggi di questo gran dramma? A questi quesiti non risponderò che una sola parola: LEGGETEMI”.

Considerazioni riassuntive su Francesco Mastriani

217. Come si vede, dunque, “I misteri di Napoli” hanno proprio nulla a che spartire con “I Misteri di Parigi” di Eugenio Sue.

Mastriani non è certo l’equivalente di ciò che oggi sarebbe un autore di tele-novelas, né la sua opera narrativa può minimamente essere confusa, come a volta accade, con la “sceneggiata napoletana” che fu invece, nel bene e nel male, “inventata” solo nel 1919: in forma teatrale, dall’impiegato postale Enzo Lucio Murolo; ed in forma cinematografica, da Emanuele Rotondo, fondatore della “Miramare film”.

218. Francesco Mastriani, dal canto suo, non si propone di “scavare nelle fogne della società, per mettere in evidenza tutto ciò che, ne’ diversi centri di civili popolazioni, è di più laido e nefando”, a pro di quei “lettori che ricercano con avidità questo pasto giornaliero della loro curiosità”, magari contribuendo, così, al “contagio del vizio”.

Vuole, invece, “additare la virtù”, che si manifesta proprio nelle circostanze più difficili, affinché “l’esempio del bene” possa contribuire a migliorare i “presenti ordinamenti sociali” e ad “affrettare ogni dì il compimento de’ nobili destini dell'uomo”.

219. I suoi, più che romanzi, sono “studi storico-sociali” (vedi sopra, n°188), saldamente fondati su:

- una precisa analisi della società del suo tempo (vedi sopra, nn°200-209): analisi che è, per molti aspetti, ancora attuale;

- una riflessione filosofica che, rifacendosi chiaramente a Pasquale Galluppi, si pone le grandi questioni metafisiche come l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la giustizia ultra-terrena, e l’origine del male nel mondo; e addirittura, in alcuni punti, come sempre accade nei sinceri credenti, tocca finanche le vette della intuizione mistica (vedi sopra, nn°210 e 215; e confronta: La Bibbia – Apocalisse 6, 9-11).

Cultura e ideologia a Napoli dopo la conquista sabàuda

220. Dopo aver ragionato sulle classi sociali a Napoli dopo la conquista sabàuda (vedi sopra n°102 e segg.), tratteremo ora della coeva super-struttura culturale.

Accenneremo perciò brevemente, nel seguito, all’alta cultura di èlite, al teatro e alla caratteristica produzione musicale

Hegel a Napoli? … Nun è cosa!

221. Subito dopo l’unificazione politica della penisola, un piccolo gruppo di intellettuali, soprattutto professori universitari meridionali, si illuse che la filosofia di Hegel potesse diventare la “religione civile” della nuova Italia[72].

Ma l’illusione durò poco e non sopravvisse ai vari Betrando Spaventa, Augusto Vera, Antonio Tari, Donato Jaja, etc. i quali, dopo la morte, furono quasi tutti rimpiazzati in cattedra da filosofi appartenenti alla nuova e “più moderna” scuola positivista.

Hegel (1770 - 1831) nel suo studio

222. A quanto pare, dunque, la filosofia di Hegel risultò, agli occhi dei “nuovi italiani”, talmente astrusa ed astratta da prestarsi assai poco allo scopo desiderato da quei professori.

Nel nostro Meridione, in particolare, tutto ciò che accadde fu che alcuni giovani delle province, appartenenti all’aristocrazia o all’alta borghesia agraria, venuti a Napoli a studiare all’Università, riuscirono faticosamente a laurearsi sulle sudatissime traduzioni dei testi hegeliani effettuate dai docenti con i quali dovevano sostenere l’esame.

Tornati al loro paese, conservarono gelosamente nelle loro biblioteche i libri sui quali avevano studiato in gioventù e scandalizzarono i loro contadini e loro pie consorti perché si rifiutavano di partecipare alla Messa e alle processioni paesane.

Io so’ nu fesso (senza ‘o begriff)

223. Ma, già fra gli studenti universitari, quelli che potevano cercavano di stare alla larga dai begriffe.

“Il culto del filosofo di Stoccarda, racconta Adriano Tilgher, si è talmente diffuso a Napoli che il suo Begriff (= Idea, Concetto) è entrato addirittura come locuzione proverbiale nel gergo degli studenti, i quali chiamano ‘e begriffe i suoi seguaci.

Popolarissimo, fra loro, è il professor Donato Jaja (che fu anche il maestro di Giovanni Gentile) il quale un giorno, passeggiando in compagnia di un discepolo, s’infiamma a tal punto della grandezza concettuale di Hegel da mettersi a urlare:- Il begriff è tutto! Il begriff è beltà, è bontà, è verità! Fuori del begriff non esiste nulla! Senza il begriff, chi sono io che parlo? Un’ombra, un fiato di voce, un niente … io sono un fesso!”[73].

Un fesso no, ma un ciarlatano si

224. Del resto, era stato proprio un altro filosofo tedesco, suo contemporaneo e rivale, e cioè Arthur Schopenauer (1788-1860) a definire lo stesso Hegel, senza tanti complimenti, non precisamente “un fesso” ma “un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato, che raggiunse il colmo dell'audacia scarabocchiando e scodellando i più pazzi e mistificati non-sensi …

Se si volesse instupidire un giovane, basterebbe fargli leggere le opere di Hegel per renderlo completamente inetto a pensare … Non bisogna far altro che dargli in mano un libro di Hegel e quando quello leggerà che … l’essere è il nulla … l’infinito è il finitoil generale è il particolarela storia è un sillogismo … finirà con l'andare all'ospedale dei pazzi!”[74].

Arthur Schopenhauer (1788 - 1860)

Chi ha letto Hegel?

225. “E’ un segreto di Pulcinella il fatto che nessun interprete di Hegel sia in grado di spiegare, parola per parola, una sola pagina dei suoi scritti” (Theodor Haering), i quali sono comunemente ritenuti, da docenti e studenti di filosofia, fra i più criptici ed oscuri, insieme a quelli di Fichte e Schelling.

Si può serenamente ritenere che gran parte di coloro che hanno “spiegato” Hegel ex-cathedra, professori universitari o di scuole superiori, hanno semplicemente ripetuto ai loro allievi, in modo più o meno brillante, la sintesi riportata nei manuali, senza mai aver letto per intero un capitolo testuale di Hegel.

Schopenhauer ed Hegel insegnavano nella stessa Università

226. In ogni caso, nelle sue luci e nelle sue ombre, orali o scritte, l’influenza dell’hegelismo sulla mentalità delle grandi masse popolari fu praticamente nulla.

Nello stesso ambiente accademico napoletano, abbiamo visto Antonio Labriola passare, assai presto, dall’hegelismo al marxismo[75].

Ma anche i due massimi teorici della borghesia italiana nella prima metà del Novecento, il liberale Croce ed il fascista Gentile, poterono professarsi discepoli di Hegel solo dopo averlo ampiamente “riveduto e corretto” e, ognuno a suo modo, avvolto in più “mediterranei” indumenti. 

Si potrebbe dire che, se Labriola aveva fatto fare “a Marx il bagno nel golfo di Napoli” [76], Croce e Gentile fecero fare “il bagno nel golfo di Napoli” a Hegel, anche se in due punti diversi della spiaggia …

A teatro: la “fucilazione” di Pulcinella

227. “Tra le vittime del processo di unificazione al Sud, la più illustre e certamente innocente fu la maschera di Pulcinella. Cadde sotto il piombo dei caratteri usati dal grande patriota e letterato Francesco De Sanctis e dal suo giovane allievo Giorgio Arcoleo.

In un saggio intitolato non a caso Pulcinella dentro e fuori il teatro, la maschera bianca dal volto nero diventava l’espressione del plebeo lazzarone devoto al Borbone, che andava quindi epurato nella Napoli italiana conquistata alla libertà.

Passava qualche anno dall’articolo di Arcoleo sulla Nuova Antologia e moriva Antonio Petito (1822-1876), l’ultimo grande Pulcinella del teatro San Carlino, sito di fronte al Maschio Angioino”[77].

Antonio Petito (1822-1876)

A teatro: Edoardo Scarpetta

228. “Cominciava il tempo di Eduardo Scarpetta (1853-1925) e del suo nuovo personaggio, il piccolo borghese, abbastanza illetterato e ridicolo, don Felice Sciosciammocca”[78].

Scarpetta debutterà, come impresario oltre che attore, al San Carlino nel 1880. Le sue opere più originali sono Miseria e nobiltà (1888) e ‘O miédeco d’e pazze (1908). Ma il suo teatro comico, inclusi i lavori più noti, come ‘O scarfalietto (1881), ‘Nu turco napulitano (1888), ‘Na santarella (1889), è quasi tutto una semplice anche se intelligente traduzione dal francese, che serviva a raccogliere applausi e quattrini da un contegnoso pubblico piccolo-borghese che voleva soltanto divertirsi senza usare troppo il cervello.

Eduardo Scarpetta (1853-1925)

La città della musica

229. Napoli, si sa, è ab antiquo la capitale della musica: “se, nelle altre belle arti, vari paesi d'Italia possono pretendere il primato, nella musica nessuno può contendere con Napoli”[79].

Addirittura, lo storico romano Svetonio racconta che perfino l’imperatore Nerone volle venire a Napoli per essere acclamato, nei teatri cittadini e presso la grotta di Pozzuoli, come grande “cantautore” dell’epoca.  

230. “La nostra scuola musicale moderna fu stabilita nel XV secolo da Ferdinando I di Aragona, sotto la direzione di Garnerio e di Gafforio, i quali pubblicarono a Napoli le prime opere sulla musica. Altre opere poi sullo stesso subbietto furon pubblicate nel principio del secolo XVII da Pietro Ceroni, che facilitò le regole musicali de’ tre collegi di musica che allora esistevano e che poi vennero nel XIX riuniti in uno”[80].

E’ a Napoli che nacquero, infatti, i “Conservatori”: originariamente istituti di beneficenza per accogliere orfani ai quali veniva insegnata la musica, divennero così le prime “scuole di musica” in Europa.

Al loro sorgere, nel Cinquecento, i Conservatori erano in effetti quattro; durante il Decennio francese, nel 1806, il re Giuseppe Bonaparte li unificò nel “Real Collegio di Musica”, che 20 anni dopo Francesco I di Borbone spostò nella attuale sede di S. Pietro a Majella, come ricorda la targa posta all’ingresso dell’edificio:

“Questo antico edificio, già venerabile convento dei Padri celestini di San Pietro a Majella, nel 1826 per volontà di Francesco I, Re delle Due Sicilie, fu destinato ad accogliere la gloriosa scuola napoletana ed a conservare le preziose testimonianze degli antichi conservatori dei Poveri di Gesù Cristo (fondato nel 1589), Santa Maria di Loreto (1535), Sant'Onofrio a Capuana (1578), Pietà dei Turchini” (1573).

231. Nel Settecento, abbiamo già ascoltato Benedetto Croce celebrare la musica come le triomphe des napolitaines [81].

In quel tempo, l’opera buffa riceveva a Napoli il suo battesimo, con autori come Cimarosa, Piccinni, Pergolesi, Paisiello; ed il melodramma, nato a Firenze presso i Bardi e divenuto popolare a Venezia grazie a Claudio Monteverdi, assumeva proprio a Napoli quella forma che si chiamerà poi tipicamente “italiana”.

232. Tempio della lirica era naturalmente il “S. Carlo”, affiancato però dal “Fiorentini” dal “Fondo” e dal “Nuovo”. Nella prima metà dell’Ottocento, tutti e quattro erano gestiti da Domenico Barbàja (1777-1841), un sagàce impresario milanese, venuto dal popolo (era stato garzone di bar e poi tenutario di bische), senza molta istruzione ma con un grande fiuto artistico oltre che per gli affari: sarà lui a convocare a Napoli cantanti come Isabella Colbran (di cui fu anche l’amante), Manuel Garcia e Maria Malibran e ad offrire attraenti contratti a musicisti come Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti e Gioacchino Rossini.

Un’opera data al “S. Carlo” o al “Fondo” era sociologicamente l’equivalente di ciò che oggi è una partita di calcio: metteva a soqquadro la città prima e dopo; per settimane non si parlava d’altro; tutti ne erano, o presumevano di esserne, intenditori; e i motivi delle opere venivano ripetuti e fischiettati per le strade dal popolo.

L'impresario Domenico Barbaja

233. Vi erano certamente anche “poeti popolari”. Un viaggiatore francese della prima metà dell’Ottocento, lo scrittore Alphonse de Lamartine (1790-1869), parla dei “versi recitati dai poeti estemporanei di Napoli, la domenica sera, ai marinai, sul molo o a Mergellina”[82].

E quando lui ed un suo amico dicono di essere anche loro dei poeti, la procidana Graziella risponde con la sua descrizione di cosa si intendeva allora a Napoli per “poeta”:

“Vi burlate di noi - diceva Graziella scoppiando in una risata – Voi, dei poeti? Non avete i capelli arruffati e gli occhi spiritati di quella gente che lungo la marina vengono chiamati con questo nome! Voi, dei poeti? E non sapete neppure suonare due note con la chitarra! Con che cosa accompagnate le vostre canzoni?”[83].

Alphonse de Lamartine (1790-1869)

234. Nei salotti aristocratici e borghesi veniva invece eseguita musica da camera: le signorine da marito, al pianoforte, si cimentavano con sonate di Chopin o di Schumann, e le più talentuose anche col canto.

La celebre soprano Isabella Colbran (1784-1845), amante di Barbaja e prima moglie di Rossini

Le case editrici musicali nel periodo borbonico

235. In questo contesto, è abbastanza ovvio che, nella Napoli borbonica, fiorisse una rete abbastanza vasta di “Case editrici musicali” ovvero preposte a stampare i libretti d’opera e “le carte di musica” (quelle che, notoriamente, secondo un popolare proverbio, non potevano andare “in mano ai cocchieri in affitto”).

Fra queste, si segnala, già dal 1817, quella fondata da Emmanuele Bidèr-a (che poi diventerà Bidèr-i), un barone siciliano di origini albanesi, e successivamente ereditata da suo figlio Pietro Atanasio.

236. Alcune di queste case editrici iniziarono però a svolgere anche un’altra parallela attività: “Per conto di abili editori, ai primi dell’Ottocento, alcuni musicisti andavano in giro per i vicoli e le campagne, a trascrivere versi e melodie ancora vivi nella tradizione popolare … salvando così un prezioso patrimonio culturale, che altrimenti sarebbe andato perduto per sempre”[84].

Girard, Cottrau, Azzolino, Paolella

237. I francesi conquistarono Napoli per un decennio (1805-1815); Napoli, però, conquistò per tutta la vita Bernardo Girard e Guglielmo Cottrau (1797-1847) i quali, giunti in città al seguito dell’esercito napoleonico, ne rimasero talmente affascinati da decidere di rimanervi anche quando il Regno tornò ai Borbone.

Nel 1809, fondarono una casa editrice musicale, che rimase poi al solo Cottrau, e che fin dall’inizio svolse un’intensa opera di recupero e trascrizione di canti popolari.  

238. Solo di poco posteriore è l’analoga casa editrice fondata dal tipografo Francesco Azzolino, con bottega in Via Gerolomini, della quale ci rimane anche un sommario bilancio economico: all’autore (o a colui che “arrangiava” una canzone popolare anonima) Azzolino versava 6 carlini, e donava 1000 copielle stampate della canzone; le altre copielle le affidava ad abili venditori ambulanti che, strillandone il titolo come se fossero angùrie o purpetiélli, andavano a diffonderle per le strade della città.

Ci rimane anche il nome del primo di questi venditori ambulanti di canzoni: Gennaro Pennone, nativo di Casòria, il quale vendeva le copielle a 1 grano l’una, procurando così all’Azzolino un guadagno di 4 carlini per ogni 100 copielle. L’ultimo ambulante di canzoni, Giuseppe Jorio, occupò invece un angolo di Piazza Carità fino al 1960[85].

Grazie ad Azzolino, conosciamo tuttora canzoni della prima metà dell’Ottocento, come “Lo cardìllo ‘nnammorato” (di Pietro Labriola e Masiello Bonito), “Don Ciccillo alla fanfarra” (di Raffaele Colucci) e “Li capille de Carolina” (di Domenico Bolognese).

239. E grazie a Gugliemo Cottrau, che nel 1824 riuscì a far abbonare alle sue raccolte di canzoni anche la Regina delle due Sicilie, conosciamo canzoni come le tarantelle “Michelemmà” (del 1600), “Uno, doje e tre”, “Lo guarracino” e “Cicerenella” (del 1700) e la celebre “Fenèsta vascia” (anch’essa, presumibilmente, del 1700).

240. Un altro tipografo-editore, Mariano Paolella (1835-1868), fu invece il primo a pubblicare, su un foglio volante, nel 1854, “Fenèsta ca lucìve”, le cui origini risalgono molto probabilmente alla Sicilia del 1500.

La festa di Piedigrotta: in epoca pagana

241. Di Piedigrotta, la storia è nota ed antica: ingegneri, e soprattutto schiavi, dell’epoca romana, scavarono nel tufo la famosa crypta neapolitana ovvero una grotta che collegava Napoli con Pozzuoli.

L’ingresso della grotta, dal lato napoletano, era poco distante dalla tomba di Virgilio e vi sorgeva un tempio dedicato al culto del dio Prìapo, raffigurato con uno sproporzionato membro maschile in quanto dio della fertilità. 

Presso questo tempio, si svolgevano orge e baccanali, opportunamente accompagnati da musiche e strofe in versi, come è documentato nel Satyricon di Petronio Arbitro, ed anche l’imperatore Nerone volle parteciparvi (vedi sopra, n°229).

La festa di Piedigrotta: in epoca cristiana

242. Con il diffondersi del cristianesimo, orge e baccanali vennero comprensibilmente abbandonati, ma il luogo continuò in qualche modo ad essere ritenuto sacro e destinato a canti e danze popolari.

A partire dal 1200, là dove era stato il tempio di Prìapo, venne costruita prima una cappelletta e poi, a più riprese, una vera e propria chiesa, frequentata anzitutto dai pescatori della zona e dedicata alla Madonna detta perciò “di Piedigrotta”, la cui festa si celebrava, e tuttora si celebra, l’8 settembre, liturgicamente festa della “Natività della Beata Vergine Maria”.

243. Fin dai giorni precedenti, da ogni luogo arrivavano cortei di popolo danzante, al suono dei tipici strumenti musicali tradizionali, quali: la antichissima tofa (una grande conchiglia marina “soffiata” anzitutto dai pescatori); il sisco (detto anche piffero o zufolo, antenato del flauto) che poteva essere anche a due canne (sisco a ddoje); la tromma o scacciapensieri; la tammorra (tamburello) e le castagnelle (nacchere spagnole); la rumorosissima tròccola; la zampogna (cornamusa) di solito accompagnata dalla ciaramella (antenata del clarinetto); il putipù (detto anche caccavella); lo scéta-vaiàsse (antenato del violino); e il tricca-ballàcche; mentre più sofisticati, anche se non per questo ignorati dal popolo, erano il calasciòne (detto anche “tiorba a taccone”, una specie di antenato della chitarra) e il nobile mandolino.

I guagliuni, da sinistra a destra dell'osservatore, suonano sceta-vaiasse, sisco, caccavella (o putipù), scacciapensieri (o tromma)

La festa nazional-popolare borbonica

244. L’usanza si mantenne e si sviluppò durante i due secoli del viceregno spagnolo, e quando infine Carlo III di Borbone sconfisse gli austriaci nella battaglia di Velletri (1744) ripristinando così l’indipendenza del Regno, pensò intelligentemente di trasformare la festa popolare in una vera e propria festa nazionale, collegando la “Natività di Maria” con la nascita del Regno delle due Sicilie sotto la dinastia borbonica: introdusse, così, all’interno della festa, una grande parata militare guidata personalmente da lui stesso, e carri allegorici che venivano allestiti dalle varie corporazioni di arti e mestieri.

Ne sortì “una festa civile, militare e religiosa unica al mondo; e diciamo unica al mondo perocché in verità non sappiamo dirlo di altra che riunisca tutti gli elementi sociali in una sì bella manifestazione di ossequio alla religione”[86].

Quello borbonico fu dunque il periodo di maggior splendore della festa, con caratteristiche compiutamente nazional-popolari, di corrispondenza fra popolo ed istituzioni.

245. Il popolo rimaneva infatti il primo protagonista, come è testimoniato dalle celebri parole che Luigi Settembrini, detenuto politico nel carcere di S. Maria Apparente in Napoli dal maggio del 1839 al luglio del 1841, scrisse poi nelle sue “Ricordanze della mia vita” (Parte prima, cap. XIV):

“Costui (Luigi Liguoro, uno dei “custodi” del carcere) non era un tristo uomo, e volentieri si intratteneva meco a parlare …

E un altro giorno mi disse: - Ieri (3 ottobre 1839), s’è aperta la strada ferrata sino a Portici. C’era il re, c’era una compagnia di lancieri con le banderuole spiegate fuori i vagoni. Quanta gente di qua e di là! In quindici minuti si è volati a Portici. Che bellezza! quindici minuti! e si anderà sino a Castellammare in un’ora!

Signor mio, il mondo s’è mutato. Se vedeste la via Toledo che la sera è illuminata a gas [87], vi parrebbe una galleria, una sala da ballo. Ma io spero di vedervi presto passeggiare per Toledo, e salutarvi, e allora vi ricorderete di me …

Una mattina … udii di lontano una voce di donna che cantava soavemente, e mi parve come balsamo sovra una piaga. Si trovò ad entrare il Liguoro, ed io lo domandai: “Chi è che canta così bene?” “È mia figlia.” “E che canzone canta?” “La canzone nuova: Te voglio bene assaje e tu non pienze a me. Vi piace? Ebbene le dirò che la canti spesso”.

Salvatore Fergola - Inaugurazione della ferrovia Napoli-Portici

246. Ed il Settembrini aggiunge: “Ogni anno a la festa di Piedigrotta l’8 di settembre il popolo napolitano va nella grotta di Pozzuoli, e lì l’uno sfida l’altro a cantare improvviso, e la canzone giudicata più bella si ripete da tutti, è la canzone dell’anno. Ce ne sono delle belle; questa fu tra le bellissime ed io non posso ancora dimenticarla.

Così, tre cose belle furono in quell’anno (1839): le ferrovie, l’illuminazione a gas, e Te voglio bene assaje”.

Te voglio bene assàje (1839): i versi e la musica

247. La canzone che aveva attirato l’attenzione di Settembrini e che è rimasta fino ad oggi indimenticata, rimane la più celebre fra le canzoni “d’autore (quasi) certo” del periodo borbonico. 

248. I versi sono comunemente attribuiti a Raffaele Sacco (1787-1872), un ottico che aveva il suo negozio, tutt’ora gestito dagli eredi, a pochi metri da Piazza del Gesù lungo Spaccanapoli.

In realtà, è molto probabile che Sacco abbia solamente messo per iscritto ed in bella forma un testo che era stato, a poco a poco, creato da uno o più autori popolari anonimi, a lui precedenti o contemporanei (vedi sopra, n°233) e, con l’occasione della Piedigrotta del 1839, lo abbia presentato in un salotto borghese durante una delle famose (feste) “periodiche” allora abituali.

249. Il settimanale letterario “Omnibus”, in data 6 agosto 1840, a firma Raffaele Tommasi, scrive:

“Sfido chiunque dei miei lettori a dare un passo, o a ficcarsi in un luogo, dove il suo orecchio non sia ferito all’acuto suono di una canzone che, da non molto da noi introdòttasi, tròvasi sulle bocche di tutti, ed è venuta in sì gran fama da destar l’invidia dei più valenti compositori ...

Da mane a sera, nella bottega di Girard (vedi sopra, n°237), non si fanno altre richieste, non si domanda di altro, non si desidera, non si vuole, non si pretende, che la nuova canzone napoletana. L’armadio in cui è riposta è in continuo movimento, mentre la polvere, negli altri, copre già da gran tempo il nome di parecchi celebrati maestri.

Sull’invenzione di essa, niente si può stabilire di certo, perché, come avviene di tutte le belle cose, molti sono quelli che dicono di esserne gli autori. La maggior parte ne attribuisce il merito ad Antonio, il più vispo e faceto lazzarone del mercato”.

La più celebre fra le canzoni del periodo borbonico (1839)

250. Riguardo invece alla musica, “in epoca alquanto recente, uno studioso, Ettore De Mura, ha rintracciato documenti stando ai quali essa … sarebbe attribuibile inequivocabilmente a Filippo Campanella, autore di melodrammi ed inseparabile amico di Raffaele Sacco”[88].

Il Campanella, però, anche lui, come Sacco, molto probabilmente arrangiò e mise sulla “carta di musica” una melodia nata da uno o più autori popolari anonimi.  

Fin dall’inizio, comunque, la leggenda popolare, sostenuta anche da Salvatore Di Giacomo, volle che autore della musica fosse il ben più celebre Gaetano Donizetti, che effettivamente, quando si trovava a Napoli, per arrotondare i redditi, scriveva anche “canzonette” per Piedigrotta. 

In una lettera del settembre 1837 all’amico Spadaro Del Bosch, egli scrive infatti: “(Per la gran festa di Piedigrotta) dovrei fare 12 canzonette, al solito, per pigliarmi 20 ducati l’una, che in altri tempi le facevo mentre coceva il riso. Ora la penna mi cade, ma devo fare tutto, perché tutto è promesso”.

Donizetti, però, nel 1839 non si trovava più a Napoli: chiamato dall’impresario Domenico Barbàja (vedi sopra, n°232), egli ci venne la prima volta nel 1822; poi nel biennio 1824-26; ed infine nel 1828, quando sposò la pianista Virginia Vassalli e vi rimase solo fino al 1838, dopo la morte della moglie nell’epidemia di colera del 1837.

La canzone d’autore napoletana classica

251. Molto, se non tutto, cambiò in seguito alla conquista sabàuda del 1860. Nacque allora la canzone d’autore napoletana classica, che può sociologicamente essere ben definita come: una produzione economica e culturale della piccola borghesia cittadina dopo l’unità d’Italia.  

Articolata anch’essa, seppur in modo diverso, intorno alla Festa di Piedigrotta, ebbe il suo massimo splendore nel periodo liberale, cioè all’incirca dal 1860 al 1922.

Nel periodo fascista subì una certa flessione, dovuta principalmente al fatto che il regime non guardò tanto di buon occhio le produzioni dialettali e favorì invece il sorgere, con il binomio Bixio-Cherubini, della “canzone italiana”, attraverso la quale, peraltro, cominciavano a filtrare, pur con molte cautele, il fox-trot, il tango, il charleston e finanche il jazz.

Ebbe poi una certa ripresa dopo la seconda guerra mondiale, grazie soprattutto al “Festival della canzone napoletana”, che si svolse dal 1952 al 1973.

E dopo … è tutta un’altra storia.

La canzone come produzione economica: le origini

252. Le origini della canzone napoletana d’autore sono tutt’altro che romantiche.

E’ ben noto, infatti, che la canzone con la quale, nel 1880, inizia il periodo classico, è Funiculì funiculà che fu scritta dal giornalista Peppino Turco (1846–1903), e musicata dal maestro, di Castellammare di Stabia, Luigi Denza (1846-1922).

La storia di questa canzone è stata molte volte raccontata ma poche volte ne è stato posto in rilievo il significato storico ed economico, davvero emblematico di quei rapporti sociali che si erano stabiliti a Napoli dopo l’unità (vedi sopra, n°102-104).

Il big bang della canzone napoletana d'autore nel 1880

253. La Compagnia Cook, diretta dal milanese ing. Olivieri e di proprietà del finanziere Ernesto Emanuele Oblieght, aveva costruito per la prima volta una linea “funicolare” sul Vesuvio, inaugurata il 6 giugno 1880.  

La funicolare stentava però a trovare clienti, perché napoletani e turisti, un po’ per paura, un po’ per amore della tradizione, preferivano continuare a servirsi dei cosiddetti “Ciceroni del Real Vesuvio” ovvero delle apposite guide locali, che permettevano di affrontare la scalata fino al cratere, di notte, alla luce delle fiaccole e degli stessi bagliori del vulcano, seduti su di un asino o su una portantina sorretta da garzoni, in alcuni punti legandosi addirittura con cinghie di cuoio agli “ardimentosi” visitatori, per garantirne la sicurezza.

Salita al Vesuvio

Discesa dal Vesuvio

254. Si trattava di un sistema che, per quanto primitivo, costituiva tuttavia una risorsa economica per alcune famiglie della zona. E questo sistema stava resistendo anche alla “intrusione” della Compagnia Cook, se non che … il giornalista Peppino Turco (senza essere pagato da nessuno?) scrisse la celebre canzone per “convincere” la gente a servirsi della funicolare.

La canzone, pubblicata peraltro dalla Casa editrice musicale milanese “Ricordi” che aveva aperto un sua sede a Napoli già dal 1864, spopolò alla Piedigrotta di quel 1880, ed assurse da subito a fama mondiale.

255. In ultima analisi (economica), era però semplicemente la prima grande operazione pubblicitaria dopo l’unità d’Italia, che andava a tutto vantaggio di capitali non napoletani (la Casa editrice Ricordi e la Compagnia Cook) ed a tutto svantaggio, invece, della già misera economia locale; tranne ovviamente … quello che guadagnò Peppino Turco, che non dovette essere nemmeno molto.

Il maestro Luigi Denza, dal canto suo, lavorò invece certamente gratis perché compose la musica della canzone, coinvolto da Peppino Turco, mentre si trovava in vacanza nell’albergo che la sua famiglia aveva a Castellammare.

Gli azionisti della Compagnia brindano all'inaugurazione della Funicolare del Vesuvio

La canzone come produzione economica: gli sviluppi

256. Il vero e proprio “big bang” di Funiculì funiculà nel 1880 non mancò tuttavia di avere ricadute anche sull’asfittica economia locale: e così accadde che, mentre altrove la grande borghesia imprenditoriale impiantava fabbriche e produceva merci di vario tipo, la piccola borghesia napoletana si diede, invece, a produrre … canzoni. 

Per alcuni decenni, la vera, e forse unica, industria locale napoletana fu l’industria della canzone:

“La casa editrice Bidèri, regina del mercato per la canzone napoletana, aveva a disposizione un’azienda tipografica d’avanguardia, con 50 operai, capace di produrre immagini a tre colori con la zincografia. Aveva messo a contratto decine di musicisti, poeti e parolieri, e produceva in media 60 canzoni all’anno, oltre a quelle per la festa di Piedigrotta che, da sola, richiedeva da 80 a 300 canzoni all’anno.

Questa era la produzione di un solo editore. Esperti del settore propongono di moltiplicare questi numeri per 10, onde avere un’idea di questa copiosa produzione”[89].

257. Ferdinando Bidèri (1851-1928) aveva infatti ereditato, dal padre Pietro e dal nonno Emmanuele, la omonima casa editrice (vedi sopra, n°235) e, oltre a stampare libri di Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo e la prima edizione de “L’innocente” di Gabriele D’Annunzio, divenne il principale editore musicale della canzone napoletana classica: gli anni della sua vita coincidono con quelli del massimo splendore di questa.

L'innocente di Gabriele D'Annunzio nella edizione Bideri

Teodoro Cottrau e “Santa Lucia”

258. Anche Teodoro Cottrau (1827-1879) ereditò da suo padre Guglielmo, nel 1847, la casa editrice musicale (vedi sopra, n°237) e, servendosi pure di un periodico dal titolo “L’eco del Vesuvio” che durò fino al 1870, ne continuò con fervida passione l’opera di pubblicazione di antiche canzoni popolari, aggiungendone altre di sua personale composizione, ed altre ancora di cui “si attribuiva spudoratamente la paternità” (Vittorio Paliotti).

259. E’ legata al nome di Teodoro Cottrau la celeberrima “Santa Lucia” che può essere considerata come la canzone che fa da “ponte” fra il periodo borbonico e quello liberale.

Teodoro Cottrau la pubblicò a suo nome nel 1850. Il testo era in napoletano, probabilmente ispirato alle parole di un autentico “barcarolo” del borgo di S. Lucia che invitava indigeni e forestieri a salire sulla sua barca per fare il giro del golfo; la musica si rifaceva invece ad un’aria della “Lucrezia Borgia” di Donizetti:

Comme se frícceca la luna chiéna!

Lo mare ride, ll'aria è serena!

Vuje che facìte 'mmiezo a la via?

Santa Lucia, Santa Lucia!

 

Stu viento frisco fa risciatàre:

chi vo' spassàrse jenno pe mmare?

È pronta e lesta la varca mia!

Santa Lucia, Santa Lucia!

 

La tènna è posta pe fa' 'na cena;

e quanno stace la panza chiéna

non c'è la mínema melanconìa.

Santa Lucia, Santa Lucia!

La canzone che fa da ponte fra il periodo borbonico e quello liberale

260. L’incanto della musica suscitò attenzione fin da subito ma il testo in napoletano, dopo il 1860, apparve evidentemente troppo “volgare” e troppo poco “romantico” ai nuovi consumatori piccolo-borghesi, tanto che il Cottrau dovette commissionare ad Enrico Cossovich un testo riveduto e corretto in italiano:

Sul mare luccica l'astro d'argento;

plàcida è l'onda, pròspero il vento.

Venite all'agile barchetta mia!

Santa Lucia, Santa Lucia!

 

Con questo zèffiro così soave

oh com'è bello star sulla nave!

Su passaggeri, venite via!

Santa Lucia, Santa Lucia!

 

In fra le tende bandìr la cena

in una sera così serena

chi non dimanda, chi non desìa?

Santa Lucia, Santa Lucia!

261. Da allora, la canzone è stata tradotta, si può dire, in quasi tutte le lingue del mondo, ma il confronto fra il testo in napoletano, realistico, popolaresco e robusto, e quello in italiano, svenevolmente sentimentale ed oleografico, vale di per sé a mostrare il passaggio fra due epoche della storia di Napoli.

Le case editrici musicali nel periodo liberale

262. Nel frattempo, le case editrici musicali si moltiplicavano.

Nel 1864, come detto, giunse a Napoli la milanese Ricordi che nel 1880 si assicurò Funiculì funiculà.  

Nel 1883 nacque la “Santoianni”, dal nome del fondatore Peppino Santoianni.

Poco dopo, la “Società Musicale Napoletana” di Beniamino Carelli, docente al Conservatorio di S. Pietro a Maiella.

Nel 1899, la “Gennarelli” del commerciante di pianoforti Enrico Gennarelli.

Nel nuovo secolo, nel 1901, “La Canzonetta”, fondata dal poeta Francesco Feola e dal musicista Giuseppe Capolongo.

Fra il 1911 e la Prima guerra mondiale, irruppe sulla scena la “Poliphon”, filiale napoletana della omonima società di Lipsia in Germania, che il proprietario, l’industriale tedesco Massimo Weber, affidò alla direzione del grande poeta napoletano Ferdinando Russo.

E nel 1916 anche E.A. Mario costituì, col suo nome, una propria casa editrice musicale.

“All’inizio del Novecento, le case editrici musicali a Napoli erano ben 96” (Vittorio Paliotti).

263. Dopo la Prima guerra mondiale, nel 1920, il poeta Rocco Galdieri fondò la sua “Amena”.

Nel 1923 l’italo-americano Antonio De Martino la “S. Lucia”.

E nel 1934, già in epoca fascista, Libero Bovio, insieme ai musicisti Gaetano Lama, Ernesto Tagliaferri e Nicola Valente, diede vita a “La bottega dei quattro”.

L’evoluzione tecnologica: il pianino

264. Intanto, anche i mezzi tecnologici andavano evolvendo: alle tradizionali “copielle” ed alle raccolte di canzoni si era già affiancato, nell’ultimo decennio del secolo, il “pianino” (propriamente, “organo di Barberia”, forse dal nome dell’inventore, il modenese Giovanni Barberi).

Esistente già dal Settecento, il pianino conobbe però il suo periodo di massimo splendore nella Napoli di fine Ottocento ed inizio Novecento.

Un pianino con le copielle

265. I pianini furono importati dal Nord, fino a che il cavalier Vittorio Fassone, lui stesso autore delle musiche di celebri canzoni come ‘A tazza ‘e cafè su versi di Giuseppe Capaldo e ‘Ncoppa a l’onna su versi di Libero Bovio, non fondò in Largo Tarsia la prima fabbrica napoletana di pianini, nel 1910.

L’ultimo costruttore di “rulli” per pianini fu invece un certo Pasquale Barbato, avente officina in Vico Dogliuolo al Vasto ma avente anche (ahi, lui!) una moglie e 5 figli da mantenere; il quale Barbato, dunque, nel 1959 cessò la sua attività e si trasferì a Milano, perché i soli 21 pianini ambulanti ormai rimasti a Napoli non erano più sufficienti per consentirgli di mantenere, con quel lavoro, la sua (numerosa?) famiglia.  

La canzone come produzione economica: veduta d’insieme

266. Nel 1889, un giornale scriveva: “Ben 7.223 sono le canzoni fatte quest’anno per la Festa di Piedigrotta; la vena canzonatoria, come si vede, è al rialzo”.

In questo contesto, dunque, “giravano a mille i meccanismi produttivi del sistema industriale costruito intorno alla canzone.

Editori, commercianti, piccoli imprenditori, facevano a gara nel finanziare le manifestazioni musicali, l’allestimento dei carri, le sfilate commerciali, gli album delle canzoni, le copielle dei testi, gli spartiti, le cartoline musicali, le canzoni réclame.

Artisti come Edoardo Dalbono e Gian Battista De Curtis creavano splendenti scenografie.

I grandi magazzini “Mele” e “Miccio” erano protagonisti, con i loro album di canzoni, le loro sfilate, i palchi davanti ai negozi, i concorsi, le réclame dappertutto. 

Il sodalizio fra Mele e Bideri era granitico, ed avrebbe realizzato la più bella e artistica produzione di manifesti e cartelloni pubblicitari in Italia”[90].

La canzone come produzione culturale: Orfeo

267. Lo scrittore napoletano Raffaele La Capria cita opportunamente [91] la vicenda dell’avvocato Nicola Fasùlo il quale, nel 1799, “fu capace di trarsi fuori da una situazione disperata con mezzi che meritano di essere chiamati artistici”.

Catturato dai làzzari per essere condotto a morte in quanto giacobino, tanto parlò “nella più spedita e arguta favella napoletana, incantando chi lo ascoltava” che, con l’aiuto della parola aggiunto a quello della cèlia, prima riuscì a far sorridere i suoi terribili aguzzini per “far loro perdere la feròcia” e, alla fine, li rabbonì e li fece ridiventare “umani” a tal punto che essi lo lasciarono libero.

Per usare una ben nota immagine mitologica, fece come l’antico Orfeo che “ammansiva col canto le fiere”.

Il mitico Orfeo ammansisce col canto le fiere

268. Laddove non si voglia tener conto del fatto che l’avvocato Fasùlo, di lì a poco tempo, finì comunque i suoi giorni sul patibolo, la sua vicenda può essere presa come emblematica della “strategia inconscia” adottata dal ceto medio borghese verso la plebe, nella Napoli post-unitaria.

“Non dovette, infatti, agli stessi mezzi ricorrere istintivamente la piccola borghesia per reagire alla paura della plebe e alla minaccia che dalla plebe le veniva? Non dovette incantare col dialetto e far perdere la feròcia a quella parte della popolazione che l’avrebbe altrimenti sopraffatta?”[92].

La canzone come produzione culturale: Graziella

269. A sua volta, lo scrittore e poeta francese Alphonse de Lamartine (vedi sopra, n°233), nel suo celebre romanzo del 1852, intitolato “Graziella” ed ambientato nell’isola di Procida, racconta di due giovani studenti francesi, che vivono per qualche tempo ospiti della famiglia di un povero pescatore.

Ad un certo punto, i due studenti vengono invitati da quella famigliola, ovviamente analfabeta, a leggere qualcosa ad alta voce dai loro libri; e così essi leggono da tre libri: “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo; le storie di Tacito; ed il romanzo “Paolo e Virginia” (1787) dello scrittore francese Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814), amico e discepolo del più celebre Jean-Jacques Rousseau.

Ritratto di Graziella di Horace Vernet (1789-1863)

270. Ed ecco le reazioni dell’uditorio popolare:

“Quei poveri pescatori non capivano perché Ortis si disperasse e si uccidesse, quando poteva gioire di tutte le voluttà dell’esistenza: passeggiare senza far nulla, guardare il sole, amare la propria amante e pregare Dio sulle rive verdi e ubertose del Brenta … Perché tormentarsi – dicevano - per delle idee che non scendono sino in fondo al cuore? Che cosa gli importa che a Milano regnino gli austriaci o i francesi? E’ un pazzo se si cruccia tanto per cose simili - E non ci ascoltavano più.

Quanto a Tacito, lo capivano ancor meno … Tacito non è popolare e noto che fra i politici e i filosofi … Per comprenderlo, bisogna aver vissuto in mezzo ai tumulti della vita pubblica, o nei misteriosi intrighi dei palazzi e delle corti. Che cosa resta di queste scene, se ne togliamo la libertà, l’ambizione e la gloria? Tali sono i tre grandi attori di quei drammi. Ma queste tre passioni sono ignote al popolo … ce ne accorgemmo perché la lettura non suscitava che freddezza e stupore.

Una sera, tentammo di leggere Paul et Virginie: lo tradussi io, leggendolo, perché lo conoscevo bene e lo sapevo quasi a memoria …”

271. E’ la storia di due bambini cresciuti sull’isola Mauritius (al largo del Madagascar ed allora colonia francese) dalle loro due madri, abbandonate dai rispettivi mariti. Le due famiglie vivono unite come una sola, in mezzo alla natura e nella devozione cristiana. Divenuti adolescenti, i due ragazzi si innamorano, ma la madre di Virginie decide di mandarla a studiare in Francia presso una ricca e antipatica zia zitella.

Durante il viaggio di ritorno dopo alcuni anni di dolorosa lontananza, la nave su cui Virginie si trova, fa naufragio a pochi metri dalla riva d’approdo. Lei muore sotto gli occhi del suo amato, pur di non “disonorarsi” togliendosi i vestiti per nuotare. Paul si dispera e muore di dolore pochi mesi dopo di lei. Li seguono a breve distanza le rispettive madri, i due vecchi servi africani e il loro cane.

La storia è narrata all’autore da un vecchio solitario che dice di aver conosciuto di persona i due fanciulli e si offre di raccontarne le tristi vicende.

272. “Appena ch’io ebbi cominciato la lettura, le fisionomie del nostro piccolo uditorio mutarono, prendendo una espressione attenta e raccolta, segno di una evidente commozione … avevamo toccato la nota che vibra all’unisono nell’anima di tutti gli uomini di qualsiasi età e di qualsiasi condizione sociale, la nota sensibile, universale, che riassume in una sola armonia la verità eterna dell’arte: la natura e l’amore”.

continua


Note

[71] “La letteratura a Napoli” in La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli, a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, Torino, Einaudi, 1972.

[72] Vedi n°99 in “Il periodo liberale dal 1887 al 1896”.

[73] Antonio Ghirelli – Storia di Napoli”, Ed. Einaudi, 1973.

[74] Vedi: Francesco De Sanctis – “Schopenauer e Leopardi”, in “Rivista contemporanea”, 1858.

[75] Vedi nn°111-114 in “Il periodo liberale dal 1887 al 1896”.

[76] Vedi n°87 in “Il periodo liberale dal 1887 al 1896”.

[77] Francesco Barbagallo – “Napoli, belle èpoque”, Ed. Laterza, 2015. 

[78] Barbagallo, op. cit.

[79] Francesco de Bourcard – “Usi e costumi di Napoli e dintorni, descritti e dipinti”, Vol. I (1853) e Vol. II (1858), Stabilimento Tipografico del Cav. G. Nobile, Vicoletto Salita a’ Ventaglieri num. 14.

[80] de Bourcard, op.cit.

[81] Vedi n°10 in “Il periodo borbonico dal 1734 al 1790”.

[82] Alphonse de Lamartine – “Graziella”, 1852.

[83] ibidem

[84] Vittorio Paliotti – “Storia della canzone napoletana”, Ed. Newton e Compton, 1992. 

[85] Paliotti, op. cit.

[86] de Bourcard, op. cit.

[87] Vedi n°135 e nota 26 in “Il periodo liberale dal 1876 al 1887”.

[88] Paliotti, op. cit.

[89] Barbagallo, op. cit.

[90] Barbagallo, op. cit.

[91] Raffaele La Capria – “L’armonia perduta”, 1986.

[92] La Capria, op. cit.

Angelo Renzi


Pubblicazione de Il Portale del Sud, ottobre 2017

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